L’ironia è una cosa seria, rubrica a cura di Natalia Bondarenko
Quanto è importante l’ironia? Nella letteratura? In poesia? Credo che siafondamentale: l’ironia è l’unica modalità che consente di uscire da noi stessi e provare a vedere le cose da un altro punto di vista. Certo se riusciamo a captarlo. Anzi, se vogliamo captarlo. Perché abbiamo quell’ “Io, io, io” che può diventare pesante. Questo vale per tutte le epoche, per tutte le ‘religioni’.
Nel passato sono stati molti gli scrittori e i poeti che hanno usato l’ironia ed uno dei più interessanti fra di loro è sicuramente Pessoa.“Mi sono moltiplicato per sentire, per sentirmi, ho dovuto sentire tutto, sono straripato, non ho fatto altro che traboccarmi, e in ogni angolo della mia anima c’è un altare ad un Dio differente”. (Da “Passaggio delle ore”, poesie di Alvaro De Campos). Ricardo Reis, Alberto Caeiro, Alvaro De Campos, sono solo alcuni dei tanti eteronimi di Pessoa. Uno, nessuno e centomila; lo scrittore portoghese nella sua carriera poetica mette a frutto il messaggio pirandelliano – plasma da “un’unica, grande moltitudine”, una serie di personaggi talvolta simili a quelli dell’autore, altre volte completamente differenti, ma che non sono mai scontati.
Ho scelto queste due poesie di Pessoa per la loro contemporaneità e per la loro freschezza. (Probabilmente anche per la traduzione ben riuscita. Bisogna parlare sempre di traduzione quando si parla di un poeta straniero).
Che bello, non sto pensando a niente!
Non pensare a niente
è avere l’anima propria e intera.
Non pensare a niente
è vivere intimamente
il flusso e riflusso della vita…
Non sto pensando a niente.
È come se mi fossi appoggiato male.
*
Tutte le lettere d’amore sono ridicole.
Tutte le lettere d’amore sono
ridicole.
Non sarebbero lettere d’amore se non fossero
ridicole.
Anch’io ho scritto ai miei tempi lettere d’amore,
come le altre,
ridicole.
Le lettere d’amore, se c’è l’amore,
devono essere
ridicole.
Ma dopotutto
solo coloro che non hanno mai scritto
lettere d’amore
sono
ridicoli.
Magari fosse ancora il tempo in cui scrivevo
senza accorgermene
lettere d’amore
ridicole.
La verità è che oggi
sono i miei ricordi
di quelle lettere
a essere ridicoli.
(Tutte le parole sdrucciole,
come tutti i sentimenti sdruccioli,
sono naturalmente
ridicole).
Come dicevo prima, l’ironia è molto usata in letteratura. Meno nella saggistica, dove non è necessario stimolare il senso dell’umorismo nel lettore. Ma è più utilizzata nel linguaggio comune, in quello, parlato. Come, per esempio, faceva Charles Bukowski:
Adesso ci sono computer e ancora più computer
e presto tutti ne avranno uno,
i bambini di tre anni avranno i computer
e tutti sapranno tutto
di tutti gli altri
molto prima di incontrarli
e così non vorranno più incontrarli.
Nessuno vorrà incontrare più nessun
altro mai più
e saranno tutti
dei reclusi
come me adesso…”
Lo scrittore statunitense di origine mista polacco-tedesca (1920-1994) è un autore molto conosciuto, ma spesso erroneamente banalizzato. Sì, di nicchia. Ma di una nicchia bella grossa. È diventato inconfondibile grazie al suo sguardo sul modo di concepire la vita, gli affetti, i rapporti personali e la società. La sua umanità è ben nota. Con le difficoltà di inquadrarsi in una società dove lui si è sempre sentito estraneo, diverso, dove non riusciva a trovare posto. La sua storia è il Bar, la Gente, i Fallimenti e le Debolezze. Le Donne. L’ Ironia. L’Amore.
Sissignore!
Tutti i vicini pensano
che noi siamo
strani.
E noi pensiamo
lo stesso di loro.
E facciamo
tutti
centro…
Un altro poeta ironico, molto conosciuto e di solito tradotto male, è il russo Vladimir Majakovskij. Uno dei libri scritti su di lui che ritengo valido, ma purtroppo con poche poesie tradotte è “Il defunto odiava i pettegolezzi” di Serena Vitale, dove l’autrice racconta gli ultimi momenti del poeta prima di suicidarsi. Proprio per motivi relativi a traduzioni precedenti troppo classiche, la poesia di Majakovskij perde molto. In russo, invece, si sente una freschezza quasi spaventosa, una ricerca linguistica moderna e una certa ‘violenza’ sulla lingua – una violenza che ha fatto bene alla poesia russa:
Di sotto
la mia giacca
è spuntata una grande coda
e dietro di me si dimena,
enorme, canina.
“Che fare?” uno grida,
la folla cresce.
Al secondo
si unisce un terzo.
Hanno calpestato
una vecchietta
che si faceva il segno della croce
strillando qualcosa a proposito del diavolo.
E quando
rizzando
i baffoni-scopette
la folla mi si fece addosso,
immensa,
cattiva,
mi misi a quattro zampe e cominciai:
“Bau! Bau!…”
Sigmund Freud sostiene che l’ironia “consiste essenzialmente nel dire il contrario di ciò che si vuole suggerire, mentre si evita che gli altri abbiano l’occasione di contraddire: l’inflessione della voce, i gesti significativi, qualche artificio stilistico nella narrazione scritta, indicano chiaramente che si pensa proprio il contrario di ciò che si dice”. Tuttavia, questa definizione può essere ampliata, nel senso che l’ironia, e soprattutto l’ironia letteraria, non si limita a essere un’antifrasi pura e semplice. Essa può avvalersi di un’infinità di altre situazioni reali o retoriche: può “giocare sulla permutazione di spazi, sull’inversione di rapporti, sulla semplice differenza, sull’evitamento, sul mimetismo del discorso dell’altro, e senza dubbio su numerose altre figure” (P. Hamon, L’ironia letteraria).
Per il premio Nobel W. Szymborska, l’ironia rimane la cifra della sua produzione; un’ironia a volte esplicita, altre – nascosta, ma sempre in grado di alleggerire, beffarsi delle situazioni più penose:
Eva dalla costola, Venere dall’onda,
Minerva dalla testa di Giove
erano più reali.
Quando lui non mi guarda,
cerco la mia immagine
sul muro. E vedo solo
un chiodo, senza il quadro.
L’ironia di Szymborska si prende gioco di tutto, soprattutto dei sentimenti e delle emozioni forti, ma tenendo sempre a bada il facile cinismo:
Sono entrambi convinti
che un sentimento improvviso li unì.
È bella una tale certezza
ma l’incertezza è più bella…
Ironia. Il termine deriva dal greco antico e significa, letteralmente, falsità. Dal vocabolario della lingua italiana abbiamo preso questa definizione: “Figura retorica che consiste nel dire il contrario di ciò che si pensa.” È chiaro che l’intento è di far comprendere proprio ciò che non si è detto:
tra ventun giorni è natale
dolci cani vellutati
docili pony profumati
dodici apostoli ubriachi
tra ventun giorni è natale
non sto bene
non sto male
(Guido Catalano)
“Che linguaggio avrei dovuto usare?” scriveva Grace Paley, scrittrice americana e dice: “La poesia è un linguaggio antichissimo e funziona ancora perché è sintetico, allusivo e ti assicuro che arriva. Si adatta bene nella nostra epoca proprio grazie alla sua brevità e sintesi. Siamo abituati ai messaggini veloci, però si dovrebbe andare un po’ oltre e indurre un pensiero, un ragionamento”:
Alternativa episodica del poeta
Stavo per scrivere una poesia
invece ho fatto una torta ci è voluto
più o meno lo stesso tempo
chiaro la torta era una stesura
definitiva una poesia avrebbe avuto
un po’ di strada da fare giorni e settimane e
parecchi fogli stropicciati
la torta aveva già una sua piccola
platea ciarlante che ruzzolava tra
camioncini e un’autopompa sul
pavimento della cucina
questa torta piacerà a tutti
avrà dentro mele e mirtilli rossi
albicocche secche tanti amici
diranno ma perché diavolo
ne hai fatta una sola
questo non succede con le poesie…
“Ora, l’ironia è sì una ‘freccia aguzza che trafigge le banalità e genera stupore’” scrive Roberto Marzano in uno dei suoi saggi sulla poesia, “ma, importante, per non ridurla a semplice sberleffo teso a sbalordire a tutti i costi, aldilà dei contenuti occorre che sia anche “bellezza”, “ritmo” e “suono”. Deve, io credo, – oltre ad attingere liberamente a metafore, ossimori, sinestesie, calembour e paradossi, in endecasillabi come settenari o versi liberi – essere frutto maturo di visioni e fantasie, di un saper abbandonarsi a immagini inconsce e oniriche, accarezzando così i cuoricini palpitanti di affamati fruitori di versi, generando bocche spalancate al sorriso, in un sottofondo d’irrequieta dolcezza… altrimenti gli eruditi ‘poetoni’ di cui all’inizio si troverebbero ad aver ragione… e non ne saremmo per niente contenti!”.
E certo, che non è stato un poetone Edoardo Sanguineti (1930-2010). Iniziò a farsi largo attraverso l’ingessato mondo letterario italiano degli anni 50’, ha “sabotato” le forme letterarie tradizionali al fine di farne esplodere le contraddizioni così da mostrare l’incapacità del vecchio linguaggio poetico di rappresentare e definire i confini della mutata realtà sociale. Ha dato forma al caos:
sono rimasto a bocca aperta, merda (vedendo “Aboccaperta” di un Funari, da TMC l’8
dicembre sera), quando un medio ragazzino (o ragazzina), con bianca voce oracolare
(e maglioncino rosso), che dibatteva riforme scolastiche, tra molti tempi pieni (e
tempi vuoti), e molti neoprogrammi, disse (e l’ho preso apposta, subito, un appunto
puntuale):
la storia, si capisce, non si capisce: (e ha aggiunto, quindi: si studia,
e basta): (tra i tumulti e gli applausi): (e mi ha tolto anche l’ultimo mio dubbio):
(21. da “Codicillo”)
E come, a questo punto, non nominare Eugenio Montale, Premio Nobel, che è riuscito a parlare di sé usando la propria leggendaria cattiveria, il suo modo lievemente feroce di divertirsi della stupidità altrui:
Se il mondo va alla malora
non è solo colpa degli uomini
Così diceva una svampita
pipando una granita col chalumeau
al Café de Paris…
È una poesia esemplare dell’ultimo Montale, in cui un concetto banale, un avvenimento marginale, producono un guizzo ironico e pensoso, un motto di spirito in bilico tra divertimento e dramma.
Vorrei concludere con una poetessa che del dolore in chiave ironica ha fatto la cifra del suo successo letterario: Dunya Mikhail, donna irachena nata a Baghdad nel 1965. Le sue parole la guerra / com’è / seria / attiva / e abile! emanano la luminosità gelida della morte e l’indomabile speranza della vita.
È soltanto una vita
mossa da un dio confuso
che un giorno ha provato a giocare con l’argilla
È soltanto un dio
che non sa come uscire dal guaio in cui si è cacciato.
La guerra subisce un processo di personificazione del tutto originale, intenzionalmente ironico, che trova il suo culmine nei versi:
il dittatore
è il regista di una grande tragedia
ha anche un pubblico
un pubblico che applaude
un applauso
che scuote le ossa.