Rubrica “poeti che scrivono a poeti”:
da Raffaela Ruju a Amelia Rosselli.
Dato il successo riscosso fra gli autori e fra i lettori dell’inserto speciale di luglio 2013, abbiamo istituito la rubrica “poeti che scrivono a poeti” nella quale pubblicare le “lettere” poetiche rivolte a contemporanei e non.
In questo numero proponiamo la “lettera” di Raffaela Ruju a Amelia Rosselli.
Il disordine mi è fecondo
La mia immagine si dilata a dismisura nello spazio infinito del tuo marmo. In questo rimasuglio di stanza indago la tua forma e la tua ombra per esondare in una terra di trifogli e quadrifogli, su un mare che mi rumoreggia dentro, tuonandomi poesia. Le ricordo bene le tue dita e ancora non sapevi che eri prossimo alla morte. Ricordo le carezze senza speranza di quattro malandati versi costruiti a tavolino. Io, che sopra i tavolini mi nutro di lettere e parole, lagrimando sul dolore. Io che cantai fino alla fine della terra non scrissi mai a mio padre. Volevo cancellare tutti gli scogli oscurandomi nella nebbia, smemorandomi con il rombo letale delle onde. Scrivevo a tavolino pregando versi atei per allontanare dal mio orizzonte tutti gli uomini della mia vita. Volevo andare in un cielo notturno pieno di nuvole erranti, un posto senza dimensioni per piegare e dispiegare le mie ali. Volevo replicare replicandomi senza sosta, rivelando gli imbarazzi e gli strapazzi della mia infanzia. Siete stati appiccicati alla mia carne per anni, a sgomitare tra i ricordi. E mi è fecondo questo disordine creativo in cui vivo. Una stanza senza pareti, senza finestre, senza porte. Una stanza senza linee orizzontali, esposta alla polvere delle mie palpebre. Mi s’incollava la saliva sul labbro, sempre prima di un bacio e di un sorriso. Sempre prima. Prima che mi nascesse la parola, prima della preghiera recitata solo per farti restare.
E mai nevicava quando doveva nevicare
mai che nevicasse a Natale
sempre dopo, sempre a carnevale
sempre dopo che mi morisse il padre
sempre prima che il papavero fiorisse sulle loro bare.
Le loro bare così affollate, così rumorose, così ululanti, così caotiche. Voi, con le vostre bare verticali vive, rimesse e dismesse e io, una monade così sigillata in me stessa. Voi che andate a lavorare e ve ne state compostamente in fila, vi vedo così come siete: due quartine d’amore da scomporre in variazioni astratte. Per quanto possa uccidervi, non uscirete mai dalla mia coscienza; ritornerete ciclicamente in me, così come può fare la luna.
Questo bere di luna
tutto d’un fiato
mi allontana da queste bare
che invadono spazi di memoria
Se accadesse che fossi Dio
e non precisamente un angelo
berrei tutto d’un fiato
per tracannare tutti gli inferni solitari
Se accadesse che fossi Dio
e non precisamente un demone
spalancherei le porte
per involarmi nel luogo che mi duole
Se accadesse che fossi Dio
e accadrà sicuramente
regalerei ai maschi quaranta giorni di doglie
e nove mesi di travaglio
Se accadesse che fossi Dio
e accadrà sicuramente
farei partorire solo la luna
prima di bermela tutta d’un fiato.
In questo bisbiglio di sete colorate
mi basta il luccichio di bocche pietrificate
e una cassetta delle lettere
per rispedire al mittente il suddito umiliato.
E vorrei anche scrivere tutto d’un fiato. Scrivere per uccidere il Padre. Tu che sei il nostro Padre nostro, tu che hai lasciato le nuvole del cielo per trasferirti nel terreno sconsacrato della mia ragione. E’ tutta la notte che ascolto il miagolio dei gatti in calore. Vorrei che tu vedessi cosa sono adesso, adesso che metto nero su bianco la purezza della mia trasgressione. Non sono reduce da un lavaggio del cervello solo perché mi schiaccio la carne in un abbraccio silenzioso. Rispondo solo alla mia vocazione di scriver poesie senza usare quelle quattro terzine tanto care a una certa generazione e cerco alla mia maniera di non morire di morte nera. Per questo ho costruito un tetto dove mettere ogni verso, anche l’amore mio, quel “cristo piccolino a cui m’inchino”. Un posto dove posso non parlare di me, un posto dove poter colorare le parole e dipingere l’aria del mattino.
Quando vivevo in un condominio
mi dipingevo l’aria del giardino
con polvere di mattoni rossi
e il nero dell’asfalto per contornare il tempo.
Quando vivevo nel cemento
mi ero abituata a certe cose
alle macchie nere sulle rose, per esempio.
Di colore in colore. Incolore di case su case,
guardando dalla finestra, tetti di tegole grigie
ascoltando detti e non detti,
parlando delle ipocrite regole in regola.
Domani mi colorerò l’aria impossibile
tanto per far qualcosa. Per stare meglio.
Per colmare questo zero imperfetto.
E c’è un chiarore deformato in buio che non riesce a trattenere il sole, sulla folta chioma del mio tiglio, oltre le foglie muore l’ombra, velata come una donna celata. Non riesce a trattenere il riso,
il volto. E mi è fecondo questo vivere in disordine.
Un intervento intenso, pregnante, grande, che realizza in pieno l’assunto: Il disordine mi è fecondo, ben adatto alla grande Rosselli..
L’autrice, Raffaela Ruju, sa cogliere pensieri ed emozioni –parole- della grande Rosselli di Diario ottuso e sa in esse fondere le proprie, di pari intensità.
“ Non so quale nuovo rigore m’abbia portato a voi, case del terreno nero. La stesura dei campi vi spinge sul limite dei viali appena inalberati. Tra i cespugli torti le case s’innalzano violente. Rompe il numero un fuoco d’erbe accese.”….
Un corpo a corpo con la parola al femminile, che disattiva luoghi comuni o coordinate culturali arcinote, esprime la volontà di rompere il filo che non cuce, ma strozza, di scivolare sotto la superficie del canto, di rompere la dinamica tra abbandono e controllo
“Di vivere avrei bisogno, di decantare
anche queste spiagge, o monti, o rivoletti
ma non so come:….”