Rubrica tre pregi e un difetto a cura di R. Galbucci. Su “Una fame chiara” di Paolo Polvani

Rubrica tre pregi e un difetto a cura di Rita Galbucci. Su “Una fame chiara” di Paolo Polvani.

       

Eccoci qui al secondo appuntamento con la rubrica TRE PREGI E UN DIFETTO che per il numero di Dicembre vede protagonista Paolo Polvani con la sua ultima raccolta poetica “Una fame chiara”

A stilare la scheda di lettura critica sono Marinella Polidori, Gabriella Modica e Alessandro Dall’Olio. Si ribadisce lo spirito della rubrica, che vuole proporre di volta in volta autori e lettori con la finalità di creare spunti di scambio critici volti al contatto sempre più ampio con la poesia. RG

    

su Una fame chiara di Paolo Polvani, Terra d’ulivi ed. 2014     

  • Marinella Polidori:

Il primo pregio di questa scrittura è la capacità di farsi spazio testuale, spazio  entro il quale  entrare in con-tatto con l’altro, una scrittura al tempo stesso ambiziosa e discreta. La scelta lessicale pesca moltissimo nei campi semantici degli spazi visivi e delle sensazioni tattili. Un esercizio reiterato alla ricerca di intimità, nel tentativo di incrociare uno sguardo,  nella volontà di vedere emozionalmente le stesse cose che vede l’altra. Sguardo che si fa tatto; una poesia sensoriale e relazionale, direi.

Caramelle

Verrò in via delle vigne quattordici a passarti
l’ultima delle mie caramelle, è lì che abita
in forma di zucchero l’orto di tua madre
e si gonfiano di rosso i pomodori nel cerchio
delle alpi e l’insalata
ha il suono familiare di una porta che sbatte.

Gli autunni vengono con passo leggero e io
mi arrampicherò sul tuo accento di montagna,
sulle gutturali che sono rocce aspre, su certe
consonanti che imitano il tumultuoso gorgoglio
dei torrenti. Le tue mani forse mi cercavano,

tentavano un approdo, ma tu lo sai
che il nostro sole è la solitudine
e la promessa di non vederci più
è già nei nostri passi.

L’ho visto il gatto, e quella lunga scia di tristezza.
Ho visto la fabbrica e la fretta dei viaggi.

Le mani si cercavano e ridevi di un riso
notturno e c’era la pioggia e il buio
e il momento era perfetto per perdersi,
per scivolare via come un addio.

Il secondo pregio è nel senso di leggerezza quotidiana  di certe chiuse nelle quali si accenna appena al contrappunto doloroso della relazione, nell’incapacità di realizzarsi pienamente in essa o nella ineluttabilità di certi abbandoni. Situazioni impoetiche che allontanano anni luce il rischio di qualsiasi caduta nel melico o nel patetico amoroso. Qualcosa di molto analogo agli esiti amari e teneri di certa poesia delle donne, da Vivian Lamarque ad Anna Maria Curci, da Leila Falà a Francesca Genti.

Polenta e baccalà

Ceniamo sotto i portici, al Pratello, in una briciola,
un pulviscolo d’eternità. Io e Dio rinnoviamo
l’idillio d’ignorarci, di non turbare la cena
con domande insulse. Non mi riguarda l’aldilà.

Guardo il cielo stellato della fugace felicità
felsinea, la piccola poetessa del sorriso, ne conosco
i fulmini e le infinite dolcezze. C’è un adesso, un qua.

Guardo l’ala di una veloce beatitudine.
Un’ombra di rimpianto riga la notte bolognese,
graffia la convulsione breve del riso, la voluttà
del vino bianco, e lei, che mangia polenta e baccalà.

Il terzo pregio  è  la capacità di inserire in un contenuto essenzialmente lirico ed in una atmosfera  rarefatta, un andamento colloquiale ricco di dettagli, nomi di battesimo, toponimi e piccole ilarità,  capacità riconducibile all’opera di rinnovamento del genere lirico proprio del nostro 900 italiano. “Roberta sul treno per Varese” o la “Canzoncina ferrarese”, “Ivana lavora a Modena”,  e poi ancora CasalecchioMilano  sono i riferimenti  ad un privato, fenomenico,  utile a porre in evidenza quella curiosa tenerezza che Polvani mostra per il  paesaggio femminile; un paesaggio variegato, mutevole, vero, ma amorevolmente indagato. Una delicatezza non paternalistica  dettata, mi sembra,  da una sincera ammirazione.

    

Il difetto  è invece nella scelta di  densità poetiche diverse per forma e contenuto e nelle altrettanto variegate scelte metriche che paiono a tratti seguire una qualche improvvisa  preoccupazione. Versi liberi e  flussi dal gusto quasi narrativo si alternano a composizioni brevi  e ordinate,  distici dall’efficacia iconica quasi orientale. Una discontinuità ritmica e metrica che non facilita la continuità di una lettura emozionale, una discontinuità che ristabilisce però una certa distanza, e ci rimette al nostro posto di lettori, fuori del testo, ricettori forse di un qualche messaggio. Rimane il dubbio: è questa una poesia che nasce da una derridiana ricerca di relazione, attrazione, o è piuttosto quello che resta del tentativo di sedurre attraverso la scrittura? Nella storia della letteratura ci sarebbe anche questo e se di difetto si tratta, è onestamente chiaro (come la fame) e può contare  su precedenti illustri.

    

  • Gabriella Modica: 

Un pregio: Come al cinema.. Seguo i versi in passeggiata lungo il corso del più intimo sentire, e la parola emerge diffratta.  È la sottotrama, i sassi adagiati alla più umana servitù. Un letto su cui le immagini di ricordi e fonemi si sovrappongono, o si rendono visibili giusto per il tempo di toccare, apparentemente a caso, questa o quella corda dell’anima.

Verrò in via delle vigne quattordici a passarti l’ultima delle mie caramelle, è lì che abita
in forma di zucchero l’orto di tua madre
e si gonfiano di rosso i pomodori nel cerchio
delle alpi e l’insalata
ha il suono familiare di una porta che sbatte.

Un pregio: L’innocenza L’Io poetico sembra giocare con gli anni dell’esistenza umana, andare loro incontro su un paio di pattini a rotelle. Per questo, resta un Io bambino, che racconta i semplici fatti del quotidiano, come quelli del profondo allo stesso modo: Con grande innocenza e quindi, con grande saggezza. Ed è un Io grande,l’Io poetico. Tanto più quanto più è saldamente attaccato alla vita:

Ci sono luoghi dove è più facile, più facile
guardare un ramo, annusare il fumo che sale dalla legna che brucia
respirare una nuda solitudine pensando ad altre voci

Un pregio: I continui riferimenti Qualcuno lo catalogherebbe tra i difetti. Ma il continuo rimando ai nomi delle donne, degli oggetti, delle città è un dato che evidentemente contrassegna la peculiarità della poetica di Polvani: un promemoria del Poeta all’Uomo poeta. Un invito, a tornare ancora e ancora, nei luoghi dell’anima più autentici. Quelli del quotidiano, della propria fragile, meravigliosa valigia di sapienze che è in tutto, in tutti coloro su cui lo sguardo chiaro del poeta educato va a planare.

Sonia cos’è questo groviglio di virgole? È il mio specchio. Ci puoi
guardare dentro. E il divano? Qual è il nome
di questo divano? Il suo nome è un rimpianto, ha una voce chiara.
E il filo di trucco? È per i passi incerti di un equilibrista.

       

Un difetto: La straordinaria padronanza del ritmo poetico. Qualcuno lo inserirebbe tra i pregi. Ma in questo caso non c’è appiglio tecnico o lacuna poetica che permetta una disquisizione tecnica complessa. Qui parla “solo” la poesia della parola chiara, della fame chiara di parole buone e pensieri di carne. E tutto questo, senza una reale educazione poetica non sarebbe possibile:

solo poche cose inutili:
guardare in silenzio il cielo, provare nostalgia,
tendere la mano agli alberi: mi chiedo
perché dovresti amarmi?

    

  • Alessandro Dall’Olio:

Si potrebbe benissimo recensire così Paolo Polvani, in questa rubrica. Pregio 1: è bravissimo. Pregio 2: è bravissimo. Pregio 3: è bravissimo. Difetto:  vaffanculo, è bravissimo. Invece è necessario aggiungere qualche parola.

Pregio 1: Paolo Polvani in questo libro dimostra come la bella e buona poesia sappia comunicare con chiarezza (attenzione: chiarezza non banalità, i poeti che restano e che segnano la letteratura sono quelli che si fanno capire anche da chi non è avvezzo alla poesia, da che mondo è mondo. Non c’è poetica se non ti apri verso l’altro) e restare Poesia con la maiuscola senza dover ricorrere a furbizie semantiche, a lemmi metafisici, a parole messe in fila senza significato e senza corretta punteggiatura solo per fare aprire la bocca a chi legge e al contempo farti sentire uno stolto. Ecco, Paolo Polvani questo artificio non lo fa. Ha rispetto per le parole e per il loro significato e lo riversa nel rispetto verso chi leggerà la sua Poesia.

Pregio 2: c’è accettazione delle dolcezze e delle spine della vita nel suo scrivere, sia all’interno della descrizione della natura – e di ciò che la compone – sia nella durezza consapevole di un addio (vedi: “Caramelle”). E’ un uomo gentile colui che addirittura chiede scusa a una città perché il centro della sua attenzione era la donna che aveva per mano e non la bellezza fuori le periferie dei loro corpi a passeggio. E’ un vero dono il sapere usare il “tu” nel modo di Paolo Polvani, e anche quando parla in prima persona quasi si nega per aprirsi al racconto. Ed anche in questo modo riesce ad evitare il giudizio, il giudicare, così irriducibilmente vivo in tutti noi e sempre in agguato anche quando con la bocca lo neghiamo.

Pregio 3: Ammiro in lui la sincerità descrittiva di chi viene sconfitto (“Piccoli morsi dell’amore cannibale”) e non cerca escamotage egoistici per salvarsi. D’altronde Polvani è un poeta d’Amore (e quindi un poeta civile), ama le donne, ama le colleghe poetesse, ne ama tutte le idiosincrasie e tutte le vette, l’attenzione nel vestire e nel porgersi, nella scelta del cibo e nell’essere esattamente così come sono (le piacciono talmente tanto che le chiama quasi tutte per nome, proprio per non essere approssimativo). E quando occasionalmente usa la rima, si vede che la possiede e ne dispone con sapienza e ritmo.

   

Difetto (ovvero: del cercare l’ago in un bel pagliaio): ha messo di seguito una all’altra due poesie che terminano con lo stesso verbo (“Bambine in corsa” e “Canzoncina ferrarese”) e non mi piace (se è opera sua o di cattivo editing non so) lo spazio bianco prima del punto interrogativo. E chiamiamoli pure difetti! Con un abbraccio sincero:  vaffanculo Paolo!

     copertina http://www.edizioniterradulivi.it/una-fame-chiara/61

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