Salutarsi dagli aerei di Alessandro Burbank, recensione di Sandro Angelucci
“Ora spegni la luce vedi / il buio sono io esploso”: è la chiusa della poesia che apre la raccolta.
Cosa vuole dirci Burbank con questi due versi, dopo aver descritto la camera in cui vive e preso posizione al centro della stessa? E più che dirci, cosa vuole spingerci a fare? Ci esorta a conoscerlo.
Non a caso, in esergo all’opera, si legge: “Nell’antichità classica lo sguardo era un’attività con la quale la mia carne si sposava alla carne o, più precisamente, ai colori degli oggetti su cui si volgeva […]” (Ivan Illich), e: “L’occhio non vede cose ma figure di cose che significano altre cose” (Italo Calvino), e ancora: “Ciò che avete davanti agli occhi, signori e signore, questo brulichio, Sono lettere dell’alfabeto” (Hans Magnus Enzensberger).
Sono ricorso a queste citazioni perché le ritengo eloquenti per quanto concerne la poetica dell’autore. La vista, dunque, la vera vista non si deve fermare allo sguardo ma superarlo, andare oltre e posarsi sull’incorporeo. Gli occhi non sono occhi, tutt’al più specchi che riflettono non un’immagine bensì ciò che sta dentro, che non rivela la figura, la forma, ma l’essenza di quanto rimandano.
Si scorra questo lacerto: “… Solo / alcuni hanno gli occhi di rami di alberi spogli / pochi hanno gli occhi del vento leggero / d’estate gli ombrelloni dei bar e i cappelli volani / col vento coltelli negli occhi…”. A me sembra – oltreché di levatura sotto il profilo strettamente letterario – di sicura consistenza di pensiero.
“C’è un momento in cui tutti hanno gli occhi”: così si conclude il testo dal quale è tratto. In cui tutti – aggiungo – sono disposti a vedere.
E c’è dell’altro, consequenziale – direi – ad una siffatta weltanshauung. Alessandro Burbank, giovane (del 1988), è alla sua prima opera in versi. Come è lecito attendersi, per un uomo della sua età, denota una spontanea insofferenza nei confronti di un mondo standardizzato e conformistico quale è quello in cui gli tocca di vivere.
A riprova di quanto ho appena esposto, mi piace riportare alcuni passi da Parafrasi dei nonni e da Le quattro.
Nella prima – dall’andamento volutamente prosastico – si può parlare di una vera e propria parafrasi, appunto. Spiegare con altre parole il racconto, il valore nonché la differenza dei nonni.
Nella seconda, l’insonnia è il pretesto – se vogliamo – per evadere, in qualche modo, dal buio che comunque si cerca e comunque già per se stesso rappresenta una forma di trasgressione.
Leggiamone – a titolo esemplificativo – un passo dell’una: “…Mio / nonno americano aveva un grosso labrador sempre / di fianco alla poltrona (gli diceva good boy passandogli / la mano sulla testa) Mio nonno veneto era contadino / (Aveva i campi le bestie gli attrezzi) Mio nonno / americano ha scritto un libro (Una monografia su / Thornton Wilder e uno sul periodo realistico) Mio / nonno veneto coltivava la terra / (pomodori patate uva teneva le vacche i tori / i conigli)…” e uno dell’altra: “…Le quattro precise / del mio spettro sordo, che vaga per il / mondo dentro un sogno, le quattro sveglio / a dire niente ma con violenza di silenzio sono / le quattro della mia voce che mi guarda e mi / sussurra a quattro labbra: fatti atomo e / oltrepassa la barriera che divide in quattro / pensieri e ragioni per restare, resto allora / per mia madre resto per l’amore o me ne vado / per gli stessi motivi, oppure cado scendo ancora / verso il mare…”.
Intolleranza, ripugnanza – dunque – ma non abbandono alla disperazione, rinuncia a lottare. Come si spiegherebbe, altrimenti, il ruotare dell’intera raccolta intorno all’idea di partenza e di ritorno? Di più: come sarebbe possibile che non si possa stabilire chi effettivamente parte e chi, invece, resta?
C’è una sola risposta. Salutarsi dagli aerei: inattuabile, “se non stessimo volando”, scrive l’autore.