Tre saggi minimi: retrospettiva su Edoardo Sanguineti a cura di Paolo Gera – 1.
1- GLOBO GLOBALIZZATO È GRANDE GAG (2000-2004)
Per questo itinerario nella produzione poetica di Edoardo Sanguineti ho deciso di procedere à rebours, dagli ultimi componimenti, scritti già nel nuovo millennio, a “Laborintus” che è del 1956. È un genere di missione speleologica, di viaggio dal presente alle origini, di percorso infernale che potrebbe anche piacere al sottile studioso della “Commedia” di Dante Alighieri. Questo interramento nella memoria è anche dettato da mie precise spinte autobiografiche: da studente all’Università di Genova io seguii le lezioni di Sanguineti sull’Inferno e ne fui così suggestionato che decisi alla fine di laurearmi con lui, con una tesi di laurea che ebbe come titolo “Eccesso e follia nella Commedia di Dante Alighieri”.
Ora non ho tra le mani gli appunti di quel tempo, sottili quaderni nascosti chissà dove o forse persi definitivamente nell’epoca pre-file, ma due antologie pubblicate da Feltrinelli: “Il gatto lupesco-poesie 1982-2001” e “Mikrokosmos-poesie 1951-2004”. Tutto l’universo poetico di Edoardo Sanguineti, sforbiciato, ridotto a sintesi significante, a codice miniaturizzato, rispecchiante però l’estrema motilità della sua scrittura. Duemila, anni Ottanta, anni Cinquanta inoltrati. Questo breve viaggio infernale vorrà dare conto anche del cambiamento dei tempi e delle cesure epocali, attraverso il laboratorio linguistico dello scrittore, pennino tellurico, strumento capace di registrare le scosse e le vibrazioni della società intorno, a osservarne archetipi e dinamiche attraverso il principio mimetico che il contenuto debba immediatamente farsi forma.
Mischiare alto e basso è alla base della visione ideologica e della scrittura di Sanguineti. Alla fine di “Mikrokosmos” viene inserita una intervista fulminea, già pubblicato in un numero di “Io donna”, supplemento del “Corriere della Sera” del 2003. Riporto alcune botte e risposte che mi hanno colpito:
“Ciò che detesta di più? La fede religiosa. Qualunque essa sia è sempre espressione dell’alienazione umana.
La riforma che apprezza di più? L’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione.
Il suo motto? Ideologia e linguaggio.
La disgrazia più grande? Mi spiacerebbe morire senza un breve tempo di consapevolezza.”
(MIkrokosmos, p.328)
Il Partito Comunista Italiano si è sciolto nel 1991. Nel 2003 l’Ulivo sta perdendo tutte le sue foglie, tra beghe interne e le giocolerie di Berlusconi. Il Cavaliere è al governo con le sue promesse mai mantenute e l’assicurazione leibnitziana che la sua Italia è la migliore delle nazioni possibili. Nessun Voltaire locale all’orizzonte che possa contestarne l’inconsistente ottimismo: ci penserà otto anni dopo la BCE a presentare i conti e a deporre il monarca senza tagliarne la testa. L’Idra di Arcore ritorna nel 2018 a proporre le sue impossibili riforme. Ebbene, colpisce il radicamento ideologico di Sanguineti, la sua coerenza, la sua pervicace provocazione: l’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione nel 2003, l’anno in cui sta spopolando il rampantismo finanziario on line, la professione di fede nella lotta di classe quattordici anni dopo la caduta del muro di Berlino. Racconterò scendendo in un altro cerchio infernale di come a inizio degli anni Ottanta le Brigate Rosse fossero ben radicate nel territorio genovese e nell’Università di Lettere di Via Balbi dove Sanguineti insegnava. In quel periodo nessuno avrebbe pensato a sprofondamenti ideologici tali da indurlo ad abbracciare cause terroristiche, eppure eccolo nel 2003, fuori tempo massimo, a sostenere, con una specie di ghigno soddisfatto e sottilmente provocatorio, la sura marxiana ortodossa, ormai diventata eretica. Le altre dichiarazioni sono invece la testimonianza di un credo assoluto nella lucidità della ragione umana, della necessità di un pensiero organizzato anche di fronte alla morte. E poi il motto, il tatuaggio inciso sulla pelle che Sanguineti aveva pallida come la pagina prima di essere scritta: ideologia e linguaggio. “Ideologia e linguaggio” è un testo del 1965 dove viene espressa in termini critici la teoria che il linguaggio non sia un trasportatore neutro di contenuti e che la coscienza della realtà e della necessità del cambiamento non possa passare che attraverso la trasformazione della forma dell’espressione. È in questi termini, con la scelta e la difesa dello sperimentalismo, che si pone ad esempio la polemica nei confronti della vena neorealistica di Pier Paolo Pasolini. Ma a questo punto occorre esemplificare e giunge al momento giusto la lettura della poesia che conclude l’antologia “Mikrokosmos” e la sezione “Varie ed eventuali” (2001-2004), proprio appena prima dell’intervista citata:
Vingt ans après
Grande Fratello, guardami: io ti guardo:
Estasia e Eurasia esploro in extraclip:
Ovestlandia oversize, per te overardo:
Regno di relax, ridi in rehiphophip:
Globo globalizzato è grande gag,
Eroscenter è un ebusiness per gli evip:
Oceaniano Occidente, ormai ov’è,
Rispondi, la tua rigida regnanza?
Wow, che worldwatching da wargame in web!
Easy on the ear, on the eye, ma in empia erranza,
Last but not least, liftato è il logo ai lager,
Look di liblab in love da laploopdanza:
(ibid., p.325)
La riflessione parte dal dettato orwelliano del controllo totale del pianeta, ma la dittatura è diventata obliqua, non centralizzata, baumanamente liquefatta. L’esito formale è la scelta di quattro terzine da malebolge, comprese le rime incrociate, perché Dante è stato il primo e indiscusso sperimentatore della poesia e della lingua italiana, ma i versi sono uno specchio deformato e tagliente dell’ipermoderno: citazioni e chatazioni, neologismi anglofoni, incastri parodistici di neologismi e per finire il marchio di fabbrica di Sanguineti, sempre e ovunque: i due punti a fine verso e a fine poesia. I due punti che stanno a dire che niente finisce, che la vita e l’opera sono perennemente aperte, che il laboratorio linguistico procede instancabilmente e che rimanda ad un’altra tranche de vie e ad un altro atto poetico. E così via. Volta la carta, senza soluzione di continuità, anche se la delimitazione del pezzo mette i necessari puntelli per gettare lo sguardo e attivare il pensiero. L’andamento antiretorico rende ancora più incisiva la messa in guardia dalla plastica revisionista dei nostri tempi: “liftato è il logo ai lager”, appunto.
L’aggiornamento bestiale non riguarda d’altronde soltanto i dati esteriori e la percezione del mondo. L’io del poeta è dentro la corrente dell’evoluzione tecnologica e cerca di galleggiare nello tsunami prodotto dalla rivoluzione informatica. Nel sonetto “40 anni dopo” Sanguineti è alle prese con la sovrapposizione per tutti quanti difficile della vita passata con quella presente: “più non sono quello che sono stato, ma nessuno è chi fu (…) /niente rinnego e di tutto mi pento, /me stesso mi sconfesso e mi confermo, /sono ghiaccio bollente e incendio spento:/ero un altro, ma identico, a Palermo:” (ibid., p.318)
Il riferimento finale è al congresso nella città siciliana che in cui venne fondato il movimento neoavanguardistico del gruppo 63 e Sanguineti notifica, attraverso il gioco degli ossimori, un cambiamento che è una conferma identitaria. Io sono ancora quello che si batteva per un profondo rinnovamento del linguaggio letterario insieme a Balestrini, Giuliani, Pagliarani e i termini della lotta sono gli stessi pur essendo cambiati. Così nella poesia “Identikit” espone il petto alle fucilate virtuali. Di sé, come potrebbe succedere per ognuno di noi, niente può dire se non una registrazione di procedure che replicano straniamento e disumanità. L’autoreferenzialità si propone dunque come contenitore vuoto, come copia e clone e la soluzione stilistica appropriata è quella dell’anafora, dei versi endecasillabi e della rima baciata. Con sprezzatura tipica Sanguineti unisce per contrasto materiale linguistico ultramoderno e forme metriche delle origini:
Identikit
Mi autoproduco, fragile, mi clono,
stacco me da me stesso, e a me mi dono:
mi autodigitalizzo, ologrammatico,
replicandomi in toto, svelto e pratico:
mi automaschero e, assai plasticamente,
sindonizzo il mio corpo e la mia mente:
mi autoregistro, ormai, se mi iconizzo,
cromocifrato in spettro – e mi ironizzo:
(ibid., p.317)
Se Sanguineti lungo tutto il suo percorso di scrittore ha proposto una mossa di autodifesa di fronte ai meccanismi dell’alienazione, anche linguistica, quella è stata proprio l’ironia e, nel caso di tentazioni di lirisimo, dell’autoironia. Se si tratta dunque di parlare d’amore, scoglio affiorante contro ognuno che sia poeta alla fine va a sbattere indecorosamente, Sanguineti lo fa in termini totalmente materialistici e autoparodici appunto, anche se è facile nell’ultimo periodo trovare riferimenti biografici precisi e attestazioni di affetto alla moglie. La poesia che riporto è inclusa nell’altra antologia che ho tra le mani “Il gatto lupesco” e risale, come viene riportato nell’indice, al marzo del 2000:
Cadeau
Amore ha grandi labbra e ha nano l’ano,
pomo d’Adamo che si gonfia in mano:
amore ha nove capezzoli e un occhio,
con ombelico e orecchio, in un ginocchio:
amore ha un piede truccato da pene,
ha orina di capelli in vere vene:
amore ha polsi con vulve e salive,
ha un alluce che gratta le gengive:
amore ha un’unghia di molari in derma,
corda vocale di pustole e sperma:
amore ha le pupille in polpa e in pelle,
con frenuli di rughe nelle ascelle:
amore ha un callo fatto di narici,
peli alla lingua, nodi alle varici:
amore morde, con muta mascella,
tutte le tette, in tutte le budella:
(Il gatto lupesco, p.446)
Il disordine erotico si riflette direttamente in un corpo scombinato e grottesco dove le parti e le funzioni si intrecciano in un gioco parodistico e carnevalesco. I riferimenti all’ipertrofia di Rabelais e all’interpretazione di Michail Bachtin si rivelano. La costruzione del ritratto di Amore destruttura nel gioco del rovesciamento tanto il modello aulico e classico quanto le proposte aggiornate della bacheca pornografica on line, dove ogni prestazione viene rigidamente catalogata. Nella parodia tutto è fuori posto, allegro, rivoluzionario. L’organico ha la meglio su qualsiasi sublimazione sentimentale. Sanguineti per ottenere questo effetto di sconvolgimento e di trasfigurazione pantasessuale si appoggia alla cultura popolare delle filastrocche e dei canti carnascialeschi. Altro punto da sottolineare è la dedica a Carol Rama, artista con la quale spesso ha collaborato, al pari di Enrico Baj, con il quale condivide, nella combinazione desacralizzante degli elementi, la derivazione dalla patafisica di Alfred Jarry.
I distici in rima baciata rimandano al “Detto del gatto lupesco”, poemetto del XIII secolo che Sanguineti citava abbastanza spesso nelle sue lezioni sulla letteratura medievale. “Sono un gatto lupesco, e laido, e lieto”, si cita in quarta di copertina e la natura doppia del misterioso animale si applica perfettamente all’anatomia psicologica dello scrittore.
Voglio concludere questo mio primo giro con un’altra poesia, che dal bordo del secolo breve si protende verso il nuovo complicatissimo millennio. A me commuove. È una specie di manifesto sintetico contro ogni tentazione solipsistica. È un richiamo a trasformare la parola in gesto, a calare l’azione del poeta nella realtà e dunque a trasformare il suo distacco creativo in urgenza politica. È registrata nell’indice con il titolo “Premessa” e la data, dicembre 1999:
in principio è il silenzio:
(poi si è fatto saliva, muco, sangue, sudore, orina):
(si è fatto sperma, merda): (e gesto): e un gesto è la parola: è voce che,
tangibile, ti tasta: (si è fatto borborigmo, fischio, gemito):
ma a me,
la poesia già non mi piace (quasi quasi) più: e veramente, poi, da sempre.
Io ho cercato di affondarmi e affogarmi, zavorrandomi, morbido e muto,
qui, dentro la prosa pratica del mondo:
adesso, per finire, torno,
annaspando stanco, verso il mio primo principio: (gesticolando): (in silenzio):
(ibid., p.444)
Edoardo Sanguineti muore a Genova il 10 maggio 2010. Se iniziate a fare delle ricerche on line comparirà quasi subito un sito che raccoglie “le dieci poesie più belle di Edoardo Sanguineti”. Ecco, questo tipo di approccio alla poesia non c’entra nulla con il laboratorio linguistico e l’ostinato work in progress di Sanguineti. Evitate, se potete. Ma lui non si sarebbe amareggiato: le labbra avrebbero disegnato una linea sottile, un sorriso. Poi, per farla breve e finirla lì, si sarebbe acceso l’ennesima Gauloise della giornata.