Tre saggi minimi: retrospettiva su Edoardo Sanguineti a cura di Paolo Gera – 2^ puntata

Tre saggi minimi: retrospettiva su Edoardo Sanguineti a cura di Paolo Gera – 2.

    

     

2- FACCIO SCRITTURA E NON SONO SCRITTURA. LA POESIA DI SANGUINETI NEGLI ANNI DI PIOMBO

    

Questo articolo segue il precedente pubblicato nel numero di maggio. Ho deciso di parlare della poetica di Sanguineti attraverso un percorso a ritroso, dagli anni del nuovo millennio all’esordio di “Laborintus”, negli anni Cinquanta del Novecento. In questa puntata i primi anni Ottanta.

Inizieremo parlando di confini. Tutti sanno che il mondo ha cambiato la sua storia dopo l’attentato alle Twin Towers, l’11 settembre 2001. Per l’Italia fu il 9 maggio 1978, data del ritrovamento dentro il cofano di una Renault 4 rossa del cadavere di Aldo Moro. Ho detto ritrovamento del cadavere e non morte perché fu il riflettore delle televisioni puntato sul suo corpo riverso a impressionare e sconvolgere e a fermare per un istante il tempo, a decretare e a fissare per sempre un prima e un dopo. Figura cristologica, capro espiatorio, immagine pubblica di riferimento ora ridotto a un burattino ritorto, a qualcosa buttato lì senza nessun ritegno, senza nessuna pietà. Il mistero della morte in prima televisiva. Da quel momento la contrapposizione ideologica fu veramente difficile perché schierarsi a sinistra al di là delle formazioni parlamentari, significava né più né meno parteggiare per gli assassini. La questione politica aveva subito una specie di radicalizzazione morale e non si sapeva se la trasformazione fosse involontaria o dovuta ad una studiata strategia. Tutta la società italiana si era vestita a lutto.

Nell’autunno del 1979, io che viaggiavo con l’eskimo, il tascapane e sensi di colpa orribili per avere pensato come fosse ipocrita tutto quel pianto versato per un avversario politico, iniziai a frequentare la Facoltà di lettere in via Balbi a Genova. Potevo scegliere fra i corsi di Letteratura italiana di Enrico Fenzi, affollatissimi, e quelli più spogli di Edoardo Sanguineti, ma io mi ero iscritto proprio perché se un’aspirazione avevo nella vita in quel momento, oltre a quella di fare sesso con una qualsiasi ragazza perlomeno passabile, era diventare discepolo del poeta del gruppo 63  e dell’impareggiabile dantista. Sanguineti, senza alcun dubbio.

Tre anni dopo, a Milano, Enrico Fenzi venne arrestato con l’accusa di essere uno degli ideologi delle Brigate Rosse, fu condannnato e scontò la sua pena, come dissociato, in libertà provvisoria sino al 1994.

Appena iniziai a frequentare le lezioni di Sanguineti, ebbi la conferma che somigliava parecchio a Marty Feldman, scoprii che fumava una Gauloise dietro l’altra anche quando stava spiegando la Commedia a noi studenti, che era completamente senza denti (a 49 anni) e che da poco era stato eletto deputato nel Partito Comunista Italiano. Anni complicati, anni di piombo, come si è detto. Eppure delle cronache di quegli anni, lo stragismo, le Brigate Rosse, le ultime lotte operaie, poco o nulla traspare nella poesia di Edoardo Sanguineti. Nel 1982 io gli espongo il proposito, presto confermato, di volermi laureare con lui. Nel 1982 iniziano le trasmissioni delle tv private di Berlusconi, a Brescia vengono assolti gli imputati fascisti della strage di Piazza della Loggia, scoppia la guerra delle Falkland tra Argentina e Inghilterra e Edoardo Sanguineti scrive le poesie di “Bisbidis”. Che titolo.  Così era già titolata l’opera di un singolare poeta ebreo del 1300, tale Immanuel Romano. Una parola onomatopeica che significa “chiacchiere”.

Parliamo ancora di confini, ideologici e artistici. Sanguineti lasciava l’impegno politico al se stesso seduto nel parlamento italiano, ma in poesia faceva la scelta radicale dell’arte per l’arte, ancora una volta dello sperimentalismo. Come a dire: la mia scelta non è la poesia civile, ma la ricerca sul linguaggio e questa non è una scelta che possa proclamare la sconfitta della poesia, ma anzi la sua ricchezza. La poesia non è se non è d’avanguardia. La poesia, tutta, anche quella dai temi più  impegnati, anche quella civile, anche quella politica nient’altro è , come direbbe Wittgenstein, che un GIOCO LINGUISTICO. È poco avveduto o ipocrita chi fa finta di non accorgersene. Semmai se un’operazione ideologica si può fare sulla poesia è quella di svelarne le regole e i trucchi, di abbassarne le pretese auliche, di mostrarne le origini popolari di filastrocca e indovinello. È così che anch’io ho scoperto la poesia sulle ginocchia di mia madre. Le opere poetiche immediatamente precedenti o successive a “Bisbidis” sono “Stracciafoglio” (1977-79), “Scartabello” (1980) e poi “Rebus” (1982) e “Glosse” (1986).  La prima sezione di “Bisbidis” è “Codicillo”. Programmaticamente i titoli rivelano l’intenzione di non prendersi troppo sul serio, di svalutare i registri alti e accademici, di privilegiare la marginalità della scrittura, operazione cosciente che comprende anche un ritorno alle origini della poesia italiana, quando i componimenti in versi erano appunto scritti dai notai sul margine dei fogli, negli spazi lasciati vuoti dalle note professionali. Nelle sue lezioni spesso Sanguineti faceva riferimento al libro di Bachtin “L’opera di Rabelais e la cultura popolare”, sul tempo di Carnevale, sulle funzioni corporali, sugli spropositi gastronomici di Gargantua e Pantagruele. Il corpo e le sue voracità, il cibo e il sesso, come risposta ideologica al potere e alle astrusità concettuali dei filosofi tomisti della Sorbona. Dai cataloghi infiniti di Rabelais ai monologhi interiori di Joyce, la volontà è comunque quella di privilegiare un materiale linguistico non ordinato secondo regole classiche, ma in continuo e vitale fermento.  Questo materiale in “Bisbidis” è tratto spesso da esperienze biografiche, i viaggi, le persone, i nomi degli hotel, le marche dei prodotti, gli incontri privati con la moglie, ma, attraverso una specie di collage dadaista, in maniera che non ci sia una prevalenza gerarchica di un momento sull’altro. Ecco il primo componimento di “Bisbidis”:

siamo agli ultimi morsi, amata mantide:
                                                                       un pio dessert, ça va sans dire, ti aspetta,
su questa nostra antica e mensa e tana, in questa massiccia ammucchiata di
                                                                                                                       [lenzuola
r
agnate, marmorizzate dalle macchie organiche: con due pendenti di marasche,
e con un pezzo duro, un boccone da prete e un osso sacro:
                                                                                                                   ma se però ti perdi
                                                                                                                               [già i canini
saranno guai:(finirai che sarai quale fui io, quando, durante la seduta (in sede
legislativa) delle commissioni congiunte II (Interni) e IV, nel baretto contiguo
lì all’auletta, tutto alle prese con un arancino (supplì di riso con rigaglie,
oblungo), tiravo con le dita, a scatti e a strappi, le tenaci, le inesauribili
gomme elastiche di una mozzarella sfilacciata): mastica adagio, e leccati
le cinque dita (e il pollice):
                                                   (testo composto il 10, per prudenza, nel caso che,
             da te, non si sa mai, io sia fatto fuori prima del 30, giorno anniversario)

Non mi ricordo se Sanguineti avesse realmente ricevuto una minaccia dalle Brigate Rosse. Il timore per la propria sorte personale è risolto in maniera parodica, all’inizio del componimento, in una specie di volontario sacrificio amatorio e alla fine nella esorcistica necessità di scrivere in fretta un componimento per l’anniversario, prima di essere colpito. La pulsione erotica è espressa in una coazione da ultimi giorni beckettiani, ma in questa estrema necessità risiede anche il suo estremo vitalismo. Il Parlamento e l’azione politica, attraverso uno scorcio assolutamente paradossale, è collegato alle dinamiche corporali oscenamente esibite della poesia: il complicato addentamento e ingoio di un arancino di riso. Conta maggiormente l’abbassamento di un livello istituzionale assoluto – azione intrinsecamente politica – piuttosto che la relazione sui dibattiti particolari, e immagino sicuramente importanti, di quel particolare periodo.  In un altro componimento il Parlamento ritorna in questo modo: ”… le scarpe nuove troppo strette, appena,
abbandonate, chiuse sottochiave, nel mio stipetto in
                                                                                          [parlamento:”

È praticamente impossibile estrapolare versi dalle composizioni di Sanguineti perché la sua scrittura vive in un continuum non sezionabile e non citabile.
In generale, se vogliamo trovare regole di composizione in “Bisbidis”, che è la conferma della maniera stilistica precedente, potremmo dire che: 1) i versi non seguono un andamento verticale, ma riempiono lo spazio del foglio da sinistra a destra, i vocaboli cozzano contro il margine e devono essere riportati, con parentesi quadra, nello spazio sottostante;2) vengono creati spazi vuoti all’interno della poesia;3) c’è l’uso della parentesi tonda per desacralizzare maggiormente il discorso poetico e affermare en passant che in fondo , nell’affabulazione della vita, non si può far altro che precisare e divagare, ma l’operazione resta del tutto vana e inutile;4) c’è per così dire il marchio di fabbrica di Sanguineti, ovvero l’uso dei due punti a fine verso e a fine componimento, per non chiudere il discorso, ma lasciarlo comunque aperto:

Ecco il componimento 3 che contiene un’importante o del tutto superflua dichiarazione d’intenti:

faccio scrittura e non sono scrittura:
                                                                       stante il fatto comunque, che faccio le
                                                                                                                                       [faville
(con il fuoco e le fiamme): (faccio l’amore, e ti faccio pietà): (e ho fatto i sette
sogni): (e ti faccio l’allegro, e non lo sono): (e ti faccio la faccia che mi vedi):
(la faccia lunga e grossa, e cotta e cruda): (faccio il passo più lungo della gamba):
(faccio il braccio di ferro, faccio il muscolo): (e vado a farmi benedire e fottere):
(a farmi i cazzi, e tutti i fatti miei): (faccio per tre, da me: faccio per dire):
(e per fare, e disfare): (mi faccio in quattro, in cento, e ci so fare): (e
finalmente la faccio finita): non essendo scrittura, io dunque, intanto,
ne tengo in testa la similitudine:
                                                              (e così la trasmetto a questa carta):

Il poeta non coincide idealisticamente con quello che scrive, ma è un artigiano, un fabbro che fa faville e fiamme, anche se quello che può dire, nell’alienazione del linguaggio di cui è ben consapevole, non è che una ripetizione comicamente esagerata del verbo fare. Ma solo facendo la scrittura si può arrivare alla determinazione di un testo in cui riconoscersi, non esserne imprigionati e alla fine, appunto, farla finita.

Sempre del 1982 è “Alfabeto apocalittico”, collezione di tautogrammi dalla A alla Z. Il tautogramma, per chi non lo sapesse, è un componimento in cui tutte le parole comprese nei versi iniziano con la stessa lettera.  L’opera è dedicata a Enrico Baj che ne curerà un’edizione in acquatinta con i disegni delle vocali e delle consonanti. Ecco la lettera V e anche questo testo è tutto un programma:

v

    

voi che vegliate al vento dei miei versi,
vulvacce vispe, vergini a vedersi,
vulgivaghe, vassalle, vampiresse,
viri vani, veroniche, vanesse,
viti di vespa, vegliarde vistose,
vati vibranti, vedove vogliose,
vip voronovizzati in veli & in voti,
venite ai vermi dei vulcani vuoti:

   

    

Sanguineti fa il calco di forme poetiche illustri (l’ottava, l’endecasillabo), il verso iniziale riprende addirittura il petrarchesco “Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono”, ma subito procede ad un’operazione spassosa di abbassamento del tono e le donne angelicate di tradizione stilnovista diventano caricature femminili di stampo felliniano.

Eccolo dunque il poeta al tempo dei miei anni di Università. Era difficile beccarlo in facoltà perché si recava spesso a Roma, a rispettare le scadenze del suo impegno politico. Sanguineti tracciava una linea netta tra il suo lavoro di deputato, che entra nei suoi versi solo come ‘bisbidis’ di esperienze del tutto accessorie (gli arancini, le scarpe) e una pratica poetica votata al gioco linguistico e al necessario supporto sperimentale. Tutta la retorica di un’epoca triste è strapazzata e il piombo epocale, nel nome dell’autonomia artistica – altro che operaia –, è ridotto festosamente a una manciata di coriandoli colorati. Un piccolo carnevale in tempo di quaresima.

           

La classe operaia va in paradiso, Elio Petri, 1971
La classe operaia va in paradiso, Elio Petri, 1971

One thought on “Tre saggi minimi: retrospettiva su Edoardo Sanguineti a cura di Paolo Gera – 2^ puntata”

  1. Trarre da Sanguineti la necessaria lezione che è propria di ogni maestro. Forse il vero impegno poetico è proprio desacralizzare la realtà che rischia di essere troppo oppressiva, ed aggredirla a latere con un’ironia tagliente che ne denuncia la vacuità e la brutalità. Grazie a Paolo Gera per la sua preziosa lettura.

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