Tre saggi minimi: retrospettiva su Edoardo Sanguineti a cura di Paolo Gera – 3.
3- MA FINALMENTE ANARCHIA COME COMPLICAZIONE RADICALE:
Edoardo Sanguineti e “Laborintus”.
Questo articolo segue i precedenti pubblicati nel numero di maggio e luglio. Ho deciso di parlare della poetica di Sanguineti attraverso un percorso a ritroso, dagli anni del nuovo millennio all’esordio di “Laborintus”, negli anni Cinquanta del Novecento. In questa puntata conclusiva le origini.
la mia tessitura delle idee
la mia impaginazione per mezzo della complicazione
la mia complicazione e idea come ossessione
pensiero come limitazione
ordine come limitazione come negazione ordine come semplificazione pensiero
come implicazione o deduzione o previsione complicazione
come affermazione sperimentale nuova relazione melmosa the exudation
of a mild sexuality ratio seu causa dari debet cur existit
dialogo tecnico come tecnica del dialogo complicazione
come descendant in Infernum viventes
ma finalmente anarchia come complicazione radicale
(da ”Laborintus, sez. 6.)
Per comprendere l’impatto che “Laborintus” ha avuto sulla poesia italiana, ricorrerò ancora, come prevede il piano di questi articoli che mischiano in maniera volutamente sfacciata dati biografici e analisi critica, all’aneddotica personale.
Mi iscrissi all’Università di Genova nel 1978, scegliendo come già raccontato, la Facoltà di Lettere e i corsi di Edoardo Sanguineti. Li scelsi soprattutto perché ero un giovane scrittore e l’avanguardia esercitava un fascino irresistibile sui miei propositi, anche se le buone intenzioni non potevano nascondere il velleitarismo delle mie scarse conoscenze. Tanto per dire, la parola d’ordine, tra noi studenti che ce la tiravamo da neoavanguardisti, era il primo verso della prima sezione di “Laborintus”. Molti, probabilmente, non erano andati oltre nella lettura, già il senso di questo verso iniziale ci sembrava oscuro, ma la sua composizione risultava così irresistibilmente moderna e sprezzante! Giuro che prima di affrontare la giornata accademica e di iniziare le lezioni in via Balbi, accompagnato da un sorriso superiormente ironico, era proprio quello il saluto che ci si scambiava: “composte terre in strutturali complessioni sono Palus Putredinis”. Si amava, anche se un po’ leggermente, e ci si schierava. “Ah, que le temps vienne, où les coeurs s’éprennent”, ed era giusto che con estrema passione, anche se non ben strutturati esteticamente, i giovani poeti di allora parteggiassero.
Edoardo Sanguineti aveva iniziato a scrivere e aveva steso una buona parte di “Laborintus” nel 1951, ventunenne, dunque quasi trent’anni prima, ma ancora il suo sperimentalismo suscitava scelte di campo, levate di scudi, assalti all’arma bianca. Dall’altra parte della barricata c’erano i giovani sostenitori del giovane poeta Milo De Angelis, che rappresentava una specie di ritorno ai valori tradizionali della poesia e alla sua valenza incantatrice e arcana. A uno di loro chiesi chi fosse il proprio scrittore preferito e quello mi rispose, di fronte a uno sconcerto che riuscii a contenere a stento, Hans Christian Andersen. Milo De Angelis, a parte.
Nomen est omen. Sanguineti contro De Angelis. Come a dire il materialismo storico contro l’idealismo, l’inferno contro il paradiso. De Angelis aveva dato vita da poco all’esperienza della rivista “Niebo”, di Sanguineti riecheggiava ancora l’impegno iconoclasta del gruppo 63 e della neoavanguardia. L’antologia che ne raccoglieva la sfida e che vedeva insieme a Sanguineti, Pagliarani, Giuliani, Porta, Balestrini, aveva come nome “I novissimi”. Risaliva al 1961, ma come si sarebbe potuto andare oltre una definizione così perentoriamente assertiva? Ci affascinava, richiamandoci a tentativi impossibili di superamento e a forme di ricerca radicali. Ma tra noi e gli altri chi erano gli apocalittici e chi gli integrati? Non dico che ai convegni e agli incontri di poesia le due tifoserie venissero alle mani, ma quasi.
Oggi forse, di fronte all’opacità della poesia ai tempi di internet, tutto questo sembra strano e difficile da capire. Ma nel 1978 l’ideologia non era ancora morta e con il postmoderno non insediato, ci si permetteva ancora dei giudizi di merito e ancora si potevano redigere liste sparute di poeti, da inserire in storie della letteratura da aggiornare. Oggi la storia della letteratura è definitivamente morta di fronte all’esplosione della galassia digitale, alla proliferazione di milioni di volumi e volumetti, al pulviscolo inclassificabile di versi che dicono “io, io, io…”. Un tempo si sperava che una qualche casa editrice importante notasse il tuo lavoro e lo promuovesse; oggi le case editrici grandi o piccole, hanno individuato la principale fonte di sostentamento e di lucro nel poeta come produttore e quasi esclusivo acquirente delle proprie opere. Anche la poesia è diventata una fra le tante funzioni economiche.
Nel 1951 c’era aria di frittura in giro. La frittura era quella di pesce ligure, di acciughe di Monterosso. Ancora cioè imperava nella poesia italiana la lezione di Eugenio Montale e dell’ermetismo. Ma più della struttura formale, della scelta lessicale, della tensione metaforica, era l’attitudine che faceva scuola, la predisposizione del poeta a scrutare la propria anima e a riportare sul foglio bianco i dati essenziali di questa sua ricerca. Il poeta – da Petrarca a oggi c’è un filo che non si spezza – pone attenzione al proprio io e riflette sulle sue esperienze. È un io che si strugge di fronte ai propri problemi esistenziali e che guarda con partecipazione ai fenomeni naturali e allora l’esito sarà lirico. Oppure è un io attento ai processi della Storia e in uscita la poesia assumerà un tono civile e politico. Ma resta sempre l’io poetico a ricercare una forma strutturata, più o meno complessa, più o meno tormentata, in grado comunque di portare a un’individuazione cosciente del linguaggio prodotto. Ecco, “Laborintus” rompe clamorosamente con questo tipo di ispirazione/produzione. L’io viene cancellato e si sceglie di attivare una presa scart con l’inconscio. Uno dei capisaldi della formazione di Sanguineti è Carl Gustav Jung: i suoi studi sull’inconscio collettivo, sui simboli della trasformazione e sull’alchimia sono alla base di “Laborintus”. Si tratta cioè di dare statuto poetico al livello subcosciente, al suo chiacchiericcio magmatico e considerare sullo stesso livello, senza procedere cioè a una loro valutazione gerarchica, i materiali di una palude che è nello stesso tempo concettuale e verbale. L’inconscio più che risultare psichico e da riferirsi alla biografia del poeta, si rivela però essere di tipo culturale, come se tutti gli studi anomali e ricercati di Sanguineti insorgessero e si mischiassero in una notte da apprendista stregone, dove la capacità di controllare le evocazioni e i sortilegi è però già completamente acquisita. Inoltre nella scelta simbolica di Ellie/Laszo, il principio femminile e quello maschile, il discorso dell’evoluzione e della trasformazione è tanto riferibile all’esperienza di Sanguineti che a quello di qualsiasi lettore: la prospettiva è collettiva e il processo di individuazione che all’inizio pare essere biologico, diventa alla fine una precisa presa di coscienza ideologica e se il manifesto non viene affisso ed urlato, la sua forza è quella nascosta di un movimento che si prepara irresistibilmente a uscire.
Sanguineti non fa altro che aggiornare la poesia italiana a un po’ di roba che era successo il secolo scorso in campo scientifico. Le teorie quantistiche di Planck e poi di Heisenberg sostengono che il fenomeno osservato viene influenzato inevitabilmente dal punto di vista e dai processi cognitivi dell’osservatore. E nella poesia di “Laborintus”, secondo un principio di indeterminazione creativa, diventa proprio impossibile la presa di distanza tra il materiale trattato e il soggetto poetico. Sanguineti non è osservatore neutrale, ma personaggio della sua rappresentazione ed è trascinato nella sua discesa agli inferi, nel suo percorso all’interno del labirinto, allo stesso livello dei suoi atomi e delle sue particelle di linguaggio. Il meccanismo è ben spiegato nella sezione 5 dell’opera:
tagliata in sezioni che non muovono
dalla modalità doverosa (dunque moralità) eventuale
del nostro atteggiamento ma dalla sua apprensione discorsiva
alta (dunque erettiva) eruzione del tatto perché la vita è così insufficiente
ma perché oggettivamente qui potenzialmente collettivamente irresistibile
della sfaldabilità di un pietroso vigore della linea sia fondamentale
essa o complementare ma forte sia linea e linea
di avventura
Non “moralità”, ma “apprensione discorsiva”, “eruzione del tatto”, “collettivamente irresistibile” e “linea di avventura”. Una scrittura cioè assolutamente libera da intenzioni di ammaestramento etico, ma vicina ai fermenti biologici e materiali, alle spinte della collettività, non predefinita in uno schema, ma avventurosamente costruibile, non fissata per sempre, ma “work in progress”. Se vogliamo attenerci alla letteratura, sono ovviamente qui presenti gli esempi di James Joyce di “Finnegan’s wake” e di Ezra Pound dei “Cantos”. Ma se vogliamo spostarci nel campo di altre esperienze artistiche fondamentali, è come se, accanto alla scuola figurativa, Sanguineti introducesse per la prima volta in Italia nella poesia la tecnica dell’informale o se a pianisti virtuosi che suonano fino alla noia Chopin, indicasse la possibilità della musica atonale e dodecafonica. D’altra parte Sanguineti ha collaborato a vari livelli con Luciano Berio, che ha anche musicato una parte di “Laborintus”, e con l’artista Enrico Baj, fondatore proprio nel 1951 del Movimento Nucleare, che sosteneva la necessità di assemblare i materiali più disparati a testimonianza del nuovo universo atomico. Tutto sullo stesso piano, come in “Laborintus”, dalla citazione di San Tommaso e dei glossatori di Dante, ai “lunghi funghi fumosi”, paura della bomba H, dall’occhio tagliato di Buñuel alle considerazioni sull’alienazione. E insieme il latino, il greco, il francese, il tedesco, l’inglese e l’italiano, in un’anticipata globalizzazione geografica e storica. In questo accumulo di materiali c’è il tentativo di stabilire una misura stilistica? In alcune sezioni, ad esempio nella 11, i versi sono disposti a spirale con un rimbalzo progressivo che va da destra a sinistra e viceversa, a sottolineare lo sprofondamento labirintico:
e propriamente et os clausit digito
distratto Laszo pietosamente
per amori per mezzo delle ossa amati
per mezzo della calce viva
per mezzo dei concerti per violino e orchestra
per mezzo delle tue lenzuola
per mezzo della Kritik der reinen Vernunft
amori da ogni cornica
e da ogni tradimento protestati
amori del tutto principali
amori ecco essenziali promossi da ogni fiore
Ma alla fine di “Laborintus”, nella sezione 27, tutto sembra ritornare all’elemento magmatico, all’accumulazione e poi alla polluzione, alla festa macabra e rigenerante, dove il latino è fatto a pezzi e dove il discorso non si chiude, ma è aperto dall’uso dei due punti:
HEC EST(λ); quam pingitur (λ) intelligitur! (Ruben!); (idem de Timanthe);
oh dicam ergo; DISTINCTA; (una oh cum Averroë): astrologia nostri temporis;
(dicam);λoh nulla est (…); λ; DECENTER; (idem Eunapius); ( FABRICA!)
(λ); quae pingitur:
Ma allora “Laborintus” cos’è? L’estremo gesto anarchico di un giovane poeta?
La chiusura aristocratica di uno studioso che sceglie un linguaggio antipopolare e totalmente incomprensibile? E il finale è una presa di distanza o uno sberleffo liberatorio?
Non voglio andare oltre. Per chi fosse interessato ad approfondire, rimando allo straordinario sforzo interpretativo di Erminio Risso, “Laborintus di Edoardo Sanguineti-testo e commento” (Manni, San Cesario di Lecce 2006).
Dal 1954, data di uscita di “Laborintus” il mondo si è incredibilmente complicato a livello di problematiche storiche, di processi di inclusione/esclusione sociale e ovviamente di strutture comunicative. La sfida di Sanguineti a riflettere sulla complessità a partire dal suo interno è attualissima e chi fa oggi poesia non può non tener conto che la poesia è essenzialmente la scelta del linguaggio con il quale un autore vuole esprimersi. Più che mai il poeta ha bisogno di comprendere il mondo di cui fa parte, di rivendicare cioè la sua funzione di intellettuale. Di ritornare alle figure di Dante Alighieri e di Edoardo Sanguineti.
Ora che leggo realmente, non per finta, non per vantarmene, e i miei anni coincidono con la mia data di nascita nel secolo scorso, capisco che tutto il fermento, tutta la cultura/coltura di “Laborintus” ben potevano rispecchiare la mia de/formazione giovanile, la mia impulsiva crescita, i miei vanti stupidi, la mia incantata impossibilità di scegliere, i miei sporchi ammassi. Forse in maniera del tutto intuitiva, senza conoscerlo, io mi sentivo chiamare da “Laborintus” e mi immergevo nella sua palude. Si dice da giovani di amare un poeta dopo averne soltanto sentito due famosi versi o per essere stati ammaliati da un’unica fulminante metafora. Dopo anni si scopre che proprio quel poeta, per tutto ciò che ha scritto e abbiamo finalmente letto, ci corrisponde perfettamente e ci sarà per sempre affine.
Metto insieme i titoli dei miei tre brevi saggi su Sanguineti che sono tre versi a lui rubati in tre diversi momenti della sua vita poetica. 2004, 1982, 1951. Formano una terzina che nella sua estrema sintesi mi illudo possa catturare, per un frammento, il senso della ricerca di Sanguineti e della sua visione del mondo:
GLOBO GLOBALIZZATO È GRANDE GAG
FACCIO SCRITTURA E NON SONO SCRITTURA
MA FINALMENTE ANARCHIA COME COMPLICAZIONE RADICALE
Leggetela dall’alto al basso o dal basso all’alto. O come volete.