SANTO CANE: NON È UNA BESTEMMIA, MA QUASI. DI NANE CANTATORE

Santo cane: non è una bestemmia, ma quasi.
Di NANE CANTATORE

   

    

Xilografia con il momento decisivo della storia di san Guinefort. Notare oltre al serpente e al cane decapitati (in simmetria di sconfitta del male e martirio), un terzo animale: forse un merlo o altro uccello parlante, che indica dov’è finito il pargolo e simboleggia la voce del buon senso che il cavaliere, travolto dall’ira, non ha ascoltato.

Nella regione francese di Dombes, vicino a Lione, la devozione popolare ha venerato per secoli la figura di San Guinefort. Ciò che rendeva questo culto decisamente peculiare è il fatto che Guinefort era un levriero. Secondo la leggenda, si trattava nientemeno che del cane di san Rocco, che aveva accudito il padrone portandogli il cibo quando era malato di peste.
Alla morte del santo, l’animale venne adottato da un cavaliere, che viveva nelle vicinanze del villaggio di Neuville. Un giorno, il nobiluomo e la moglie, rientrati a casa, trovarono la stanza del figlioletto a soqquadro, la culla rovesciata e in pezzi, nessuna traccia del pargolo e il cane con il muso insanguinato. Il padrone uccise immediatamente l’animale decapitandolo con un colpo di spada; subito dopo, la moglie ritrovò il piccolo, rimasto sotto la culla con una vipera morta accanto: Guinefort aveva salvato il bambino e ucciso il serpente. Il cavaliere, pentito, fece seppellire onorevolmente il cane circondando la tomba di alberi, con pannelli che ne descrivevano le imprese. Da allora, il volgo locale iniziò a omaggiare il cane santo, pregandolo per la salvezza di bimbi malati o in pericolo. Nonostante l’ostilità delle autorità ecclesiastiche, esistono tracce di pratiche devozionali di questo tipo fino agli anni Trenta del secolo scorso.

Da tempi immemorabili, noialtri umani usiamo gli altri animali in diversi modi: la paleoantropologa Pat Shipman, nei suoi studi sulla animal connection, ne riconosce almeno dieci[1], oltre a quello alimentare. Questi usi “pratici” hanno almeno una base di reciprocità, dal momento che le varie specie domesticate dall’uomo ne hanno tratto vantaggi in termini di sicurezza dai predatori, stabilità alimentare e così via.
Ma li usiamo anche in senso emotivo, sociale, culturale, simbolico: fin dalle più remote pitture rupestri, gli animali popolano il nostro immaginario, forniscono un repertorio di riferimenti morali e concettuali, contribuiscono a definire le nostre strutture sociali. Anche qui, possiamo tranquillamente parlare di reciprocità. Gli animali che vivono con noi, nell’ecosistema artificiale ma funzionale della domesticazione, si organizzano rispetto agli umani con cui sono a contatto non meno che con i loro simili. In questo senso, credo che si possa parlare di una antropizzazione della cultura animale, usando il termine cultura nel senso in cui lo intende lo zoologo Tim Clutton-Brock: “un modo di vita imposto alle generazioni successive di una società di umani o animali dai suoi anziani. Quando la società comprende sia uomini sia animali, gli umani fungono da anziani”[2].

L’insieme di relazioni che intessiamo con gli altri animali è dunque descrivibile come un ricco campo di interferenze, nel quale è all’opera un continuo adattamento reciproco, comportamentale e semantico. Infatti, ogni animale si rapporta all’umano, con le altre specie e con altri individui della stessa specie secondo delle modalità, appunto, specifiche. In altre parole: la distinzione tra umani e animali non umani è fuorviante, dato che le modalità di interazione con un cane sono assai diverse da quelle con gatti, cavalli o pappagalli, per citare specie con le quali abbiamo una consuetudine di affezione. Insomma, attraversiamo una molteplicità di culture: uno dei tratti distintivi della nostra specie, uno dei più determinanti, è proprio questa capacità di mediazione interculturale, che ci porta ad avere un ruolo riconoscibile e abbastanza stabile rispetto a specie assai diverse tra loro.

Dettaglio del Tacuinum Sanitatis, manuale di medicina del XIII secolo. Il levriero bianco, con il corpo per metà accanto all’uomo e l’altra metà in mezzo alla verzura, è il tramite tra il mondo umano e quello naturale.

Frequentando altri animali, tendiamo a diventare poliglotti, a padroneggiare un dialogo tra specie diverse che mantengono la loro diversità e, pure, sviluppano un linguaggio comune. Si tratta spesso di un apparato abbastanza sofisticato, in grado di veicolare informazioni complesse e di dare indicazioni, capaci di innescare risposte precise. Pensiamo alle istruzioni date a un cane o al modo altrettanto eloquente in cui il quadrupede ci fa capire i suoi bisogni e desideri. Delle sei funzioni jakobsoniane del linguaggio, qui ne sono all’opera almeno quattro: conativa, emotiva, fatica e referenziale. Noi siamo poliglotti, ma alcune specie animali sono almeno bilingui, dato che si esprimono con noi in modo diverso da come fanno con i loro simili. Ciò avviene a partire da un processo di apprendimento individuale, almeno in parte spontaneo. Ancor più, questo dialogo con l’altro animale può persino modificare e ampliare la gamma dei comportamenti sociali all’interno delle rispettive specie, come mostrano alcuni studi sulla convergenza evolutiva tra uomo e cane[3].
Siamo però sempre nel campo di una comunicazione imperfetta, che si presta facilmente all’equivoco. La storia di san Guinefort ne è un esempio chiaro: il cavaliere interpreta erroneamente i segni che vede e decide la sorte del povero cane in base a ciò che legge della scena, probabilmente ignorando le profferte di affetto e le manifestazioni di orgoglio che il levriero stava esprimendo. Da qui, il bisogno di espiare e offrire un risarcimento postumo, con una forma di canonizzazione: Guinefort, come ogni santo, è un modello e un monito, che fornisce istruzioni per orientare la propria condotta. In questo caso, il senso della tradizione devozionale è, in parte, anche quello di ricordare, insieme al merito del cane, il torto dell’umano e, con ciò, la necessità di prestare ascolto, di capire le intenzioni dell’altro.

Tutto questo significa due cose: che in effetti ci capiamo con gli altri animali ma che, forse proprio per questo, la nostra comprensione è sempre organizzata secondo il classico schema della riduzione dell’altro a noi, dell’ignoto al noto. Insomma, questa comprensione è essenzialmente una proiezione, con la quale investiamo l’animale di bisogni, desideri e stati d’animo modellati sui nostri. Probabilmente non siamo i soli: la nostra visione è antropocentrica quanto cinocentrica quella del cane, ippocentrica del cavallo e così via (che i gatti siano cattocentrici è indubbio).

Ecco, allora, la vera lezione della vicenda di san Guinefort. In fondo le sue azioni, per quanto rimarchevoli, rientrano nel tipo classico delle prodezze canine: accudire il primo padrone malato e salvare il figlio del secondo. La sua canonizzazione popolare, innalzandolo a una grandezza più che umana, ne nega la specificità di cane e lo assorbe completamente nel consesso umano, tanto che le grazie che gli si chiedono riguardano la salvezza dei bambini, non certo la protezione dei suoi simili. Anche dopo la morte, Guinefort è destinato a servire l’uomo.

Il pasto dopo la caccia, dal Livre de chasse, 1406-1407. Cani e cavalli, compagni inseparabili nell’arte venatoria, fanno gruppo per conto loro ma sono compresi nella compagnia degli uomini.

Questo effetto di antropomorfizzazione è, non troppo paradossalmente, un portato diretto dell’empatia: in quanto sentiamo insieme all’animale, riportiamo questo sentire al nostro, finiamo inevitabilmente per assimilarlo. Da qui, il passo è breve. I numerosi tentativi di fondare un’etica “antispecista” consistono, più o meno dichiaratamente, in una “elevazione” dell’altro animale al nostro stato, con un gesto che ribadisce la nostra superiorità di specie, a cui, per nostra esclusiva scelta, lo innalziamo.
Nell’empatia, e il discorso vale anche per l’altro uomo, rinunciamo a comprendere. Ci identifichiamo con qualcun altro e gli prestiamo le nostre sensazioni, perché in ultima analisi siamo convinti che siano le sole a contare davvero, ma così facendo ci limitiamo a sostituirci a lui, non operiamo nessuna reale disamina. Avremmo invece bisogno di un’operazione di segno inverso; dovremmo, semmai, rinunciare al nostro sentire e al nostro punto di vista, per esaminare quello altrui, e magari anche il nostro, sine ira ac studio, come se non ci riguardasse. Invece di metterci al posto dell’altro, dovremmo mettere l’altro al nostro posto, valutare il più possibile con oggettività, vale a dire con razionalità; comprendere, prima di giudicare, soprattutto prima di decidere.
La razionalità scientifica, ossia quanto di più umano possa esservi, il proprium della nostra specie (animal rationale, come diceva qualcuno) è quindi la chiave per uscire dall’antropocentrismo. Non perché ci avvicini all’altro animale, ma perché ci allontana da noi stessi, ci fa mettere tra parentesi tutto quel sostrato di passioni inclinazioni sentimenti affetti che ci connota in profondità, e che funziona per cerchi concentrici di esclusione. Questo gnommero emotivo è in primo luogo individuale, poi esteso agli affini e via via, fino a travalicare i confini della specie. In questa progressiva diluizione si fa sempre più velo alla presenza autonoma dell’altro, mentre l’assimilazione empatica costruisce un doppio affettivo che reitera la distanza che ci separa dall’originale.

Non è Guinefort, ma san Cristoforo. Questo martire viene spesso raffigurato come cinocefalo, specie nell’iconografia orientale, per un errore di traduzione (o di trascrizione). Cristoforo, infatti, era cananeo e questo particolare è stato travisato in senso canino.

Ma come si può pretendere di comprendere l’altro animale insediandosi sul terreno che gli è più inaccessibile, mobilitando il sofisticato armamentario di regole categorie apparati strumenti che la nostra specie ha sviluppato in modo organico e completo soltanto da una manciata di secoli? In fondo, l’altro animale sente soffre gioisce patisce in modo simile a noi, ma certamente non pensa come noi, almeno se per pensiero intendiamo quello logico-razionale.
La ragione è chiara: perché, in fondo, nemmeno noi pensiamo davvero in modo logico-razionale. A fare i fenomenologi, analizzando e scomponendo nelle finitime parti i nostri dati di coscienza, i nostri vissuti, troviamo sensazioni proiezioni e percezioni, ma non certo teoremi, filosofemi o verifiche sperimentali. Tutto questo non è riducibile ai nostri vissuti, ma ha un significato, un senso e un valore che ne prescindono totalmente. Come è di fatto indifferente per il significato della teoria della relatività se i calzini di Einstein fossero appaiati o meno quando costui la formulò per la prima volta, così lo è, per la validità in generale del metodo scientifico, che esso sia stato codificato dall’homo sapiens, dall’ornithorhyncus paradoxus o dalle salamandre di Betelgeuse-VII. Ed è proprio in questo empireo della ragione che possiamo dedurre, a partire da sostanziali analogie nel comportamento e nella fisiologia tra diverse specie, che la loro esperienza del dolore o il loro stato d’animo di paura o eccitazione sono simili.

Se vogliamo davvero rendere giustizia a Guinefort, al cane Guinefort, dobbiamo smetterla di chiamarlo santo. E per liberarci dei santi, possiamo fare affidamento solo sulla scienza.


[1] Questi utilizzi sono: 1) Potenza muscolare al di là della sola forza umana; 2) trasporto rapido di beni e persone; 3) materiali grezzi (lana o pelo) per la produzione di tessuti, corde e così via; 4) materiali utili come fertilizzanti, combustibili o da costruzione (letame); 5) smaltimento di rifiuti e immondizie; 6) accumulazione della ricchezza in forma mobile e immagazzinamento dell’eccesso di produzione agricola, recuperabile con la macellazione; 7) alimenti ad alto contenuto di grassi e proteine (latte e derivati) per adulti e lattanti, il che ha reso possibile la diminuzione dell’intervallo tra le nascite; 8) protezione per le persone, i loro beni e le abitazioni; 9) individuazione e uccisione di infestanti e selvaggina; 10) combinazione di tratti che permettono agli umani di colonizzare nuovi habitat, come le zone desertiche o gelide (in The animal connection and human evolution. Current Anthropology, 51(4), 2011).

[2] A natural history of domesticated mammals. 2nd Edition, Cambridge, Cambridge University Press, 1999.

[3] Ad esempio, Hare, Brian, and Michael Tomasello. Human-like social skills in dogs? (B. Hare e M. Tomasello, Trends in cognitive sciences 9.9 (2005): 439-444).

    


NOTA AUTOBIOGRAFICA

Nane Cantatore ha quella che si dice una solida formazione filosofica (dottorato di ricerca alla Sapienza) ma l’ha usata soprattutto fuori dall’accademia, cercando di capire qualcosa del mondo e dell’epoca. Ha pubblicato qualche saggio accademico, qualche traduzione, un libro e parecchi articoli, ha lavorato in diversi settori e incrociato parecchi media, ma alla fine la cosa che gli riesce meglio è il gulasch.

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