Santuario del Transitorio di Alessandro Salvi, recensione di Gabriella Modica

Santuario del Transitorio di Alessandro Salvi, recensione di Gabriella Modica.

   

   

Santuario del Transitorio è una raccolta in versi di Alessandro Salvi, inserita nella collana Quaderni e immagini, per la Casa Editrice L’arcolaio di Forlì.

È possibile riflettere su un’opera poetica senza ricorrere all’ausilio di alcuna strumentazione analitica canonica?  Se ci chiedessero, rispetto a un’immagine o a  un testo poetico: “Cosa vedi tu?”, cosa risponderemmo, cosa avremmo da dire? Dove porta un testo poetico che vuole essere guardato come testo poetico e non come testo contestualizzato?
Potremmo risponderci che senza strumenti di analisi critica la nostra conoscenza obbiettiva potrebbe influire significativamente sulla formulazione di un giudizio, rendendo la nostra conclusione infertile perché del tutto personale.
Può darsi, ma la verità proposta da Alessandro Salvi è un’altra:
l’essenza delle cose e ancor più, quella delle parole quando la guardiamo senza contorni è vertiginosa, destabilizzante, imbarazzante. E bisogna farsene una ragione.
La formulazione di un giudizio è un atto che, nel caso di Santuario del provvisorio viene fagocitato dalla volontà poetica, qui fermamente decisa a non lasciarsi accostare al momento storico, al nome o ad altri nomi. Banditi gli appigli, i riferimenti e i  rimandi che permettano distrazioni da altri soggetti che non siano il diretto interessato cioè la Poesia, rimane alla nostra valutazione l’iperreale precarietà del divenire in una direzione spazio-temporale che è di passato-presente-futuro, e specularmente di futuro-presente-passato e che, senza confortanti  trincee  guarda e riguarda il lettore, scortato in una discesa senza confini ma dai confini saldamente illusori, alla ricerca di una centralità, attraverso lotte che solo la misura del metro scandisce come momenti di riposo e attività.
L’assenza di rimandi alla realtà storico-geografica di appartenenza è certamente una volontà politica, come sostiene Fabio Michieli nella prefazione della raccolta, ed è una presa di posizione che spalanca la porta del riconoscibile abbigliato da sonetto, madrigale, sestina, o luogo comune. Tutte solide fondamenta, o quinte dietro cui il poeta si fa attore, preparando il lettore a quanto lo aspetta: il nulla, la favola bianca del nulla che contiene, visto dalla giusta angolazione, il tutto. L’apparente certezza vista poeticamente come condizione ansimante, al di là della quale lo strapiombo dell’incerto, dell’imbarazzante vero Sé, dei vari sé in cui sistematicamente non vogliamo rispecchiarci, è l’unico sentiero da attraversare e che, in una sorta di cammino iniziatico, sollecita forze di evoluzione, o meglio di risoluzione, e ancor meglio, di rivoluzione stilistica.

Da: Una fortezza onirica


Il vento è assente, assente quanto il tempo.
Sia le ombre in fregola di plenilunii
che questo mio diluvio devastante
imprimono la loro impronta e scacciano
ogni parola oltre le nubi in viaggio
dove primeggia indomita la pioggia
dove un’arcana arca vaga in cerca
di chissà quale segreto presagio.

Il sogno è la dimensione in cui i simbolismi si manifestano e vengono percepiti in tutta la loro sostanza trasformatrice,  e in cui il tempo è l’ultimo degli elementi ad esser preso in considerazione perché, per l’appunto, viene “sospeso”.

E lo spostamento, cifra principale di questi versi, indica la condizione di squilibrio e di ricerca di una centralità da trovarsi nell’esperienza del “porsi, dell’arrendersi a sé”.
Il movimento in generale, nelle sue sfaccettature o caratteri, è il cardine di una sottotrama che percorre i versi, seppure in momenti e forme differenti. È un movimento che costringe il lettore a guardarsi in un rimbalzare continuo di opportunità di vedere quante volte la propria immagine e il proprio immaginario  contengano barlumi di consapevolezza riconoscibili da chi possiede quell’immaginario.
Un movimento che ha il tragicomico scopo di chiedere: “sei tu o non sei tu?”


Non più le notti stellate ci osservano
ma occhi di satelliti ci adocchiano.

Una volta era un sentire ancestrale, a darci la certezza di essere osservati dalle notti stellate. Oggi ci dicono che occhi di satelliti ci adocchiano. In realtà noi non vediamo alcun satellite ad occhio nudo. Pare ci sia un’arcana lotta, in questi due versi. Una lotta tra ciò che abbiamo visto, ciò che vorremmo vedere e ciò che _dicono_ ci guarda. Dov’è il vero interlocutore? E’ la notte stellata che timidamente manifesta ancora la sua dignità di immagine psicotropica, il suo rivendicare l’antico diritto sosta nel contesto poetico, o l’incapacità di tornare a vedere con i propri occhi ciò che, oggettivamente c’è?
Forse anche qui possiamo trovare la spiegazione di un’esigenza di destrutturazione della concezione dell’opera poetica.
Santuario del provvisorio è un esercizio psicofisico, un nascondino in cui chi si nasconde lo fa su una giostra vorticosa, lenta, o strattonante a discrezione dell’autore, la cui forza consiste nell’inganno barocco, come dice ancora la prefazione, in cui da un sonetto ti aspetti qualcosa, da un madrigale te ne aspetti un’altra, da una sestina magari pensi di prendere un po’ di respiro e dove con certosina puntualità le tue aspettative vengono sapientemente disilluse.
Anzi, proprio la forma poetica più frequentata calca la mano su un riverberarsi di parole e versi che si trasforma impercettibilmente fino all’ultimo. Segno questo, della presa d’atto di una forma espressiva giunta ad una sorta di stallo creativo, e contemporaneamente momento di riposo che come detto, precede una nuova eterna battaglia, l’eterno corpo a corpo tra un poeta e la sua Poesia.

di piombo e inchiostro ti dimostro adesso
come si squarcia il vetro zigrinato
del silenzio assoluto del mio tempio

del sonno che riposa nella polvere
che mai osammo percorrere scalzi
chè nelle vene s’addensa la neve

fammi da eco ecco quel che voglio
non un monologo non un delirio

intingi la tua penna nel mio fango
fammi male ma sempre a fin di bene
ammiro quando alleni il mio respiro

ma se per caso incappo nel tuo cappio
sappi che non l’ho mica fatto apposta
(ho stipulato un patto col mistero)

intingo la mia pena nel tuo sangue
divengo eterno per un solo istante

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Alessandro Salvi (1976, Pola – Croazia), vive da sempre a Rovigno (Croazia). Ha esordito con la raccolta di versi Piovono formiche carnivore e altre inezie (Aletti, Villalba di Guidonia, 2008), mentre la plaquette I fori nel mare (En Avant! Produzioni, Pistoia) è del 2011. Una seconda edizione del suo libro d’esordio è uscita nel mese di dicembre del 2011 per conto della casa editrice rovignese Apeiron, in edizione bilingue, con traduzione croata a fronte. Nel 2011 la raccolta di versi Eserciziario di metafisica per principianti viene inclusa nel volume collettivo
Creare mondi (a cura di Alessandro Ramberti) per conto della casa editrice riminese Fara. Presente nel web, ha inoltre pubblicato testi di varia natura (traduzioni, critiche, articoli di varia natura…) nelle seguenti riviste: Le Voci della Luna (Sasso Marconi, BO), La Battana (Fiume, Croazia), Nova Istra (Pola, Croazia), Zarez (Zagabria, Croazia), Sovremenost (Skopje, Macedonia) e altrove.

copertina

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