Mater Amena di Giacomo Sartori, nota di lettura di Paola Mancinelli

Mater Amena di Giacomo Sartori, Arcipelago Itaca, 2019, nota di lettura di Paola Mancinelli.

    

     

Si delinea tra le fibre (per usare un vocabolo caro al poeta, mutuato dai suoi studi di agronomia) di ogni verso della Mater amena di Giacomo Sartori, raccolta di versi poetici pubblicata nel mese di marzo 2019 dalle Edizioni Arcipelago Itaca, nella collana Il mare “salvato dai ragazzini”La poesia dei prosatori (pp. 153), una fidelitas filiale, generatrice di un legame che si fa memoria, non semplice ricordo del passato immobilizzato in un tempo passivo e statico, bensì una traccia viva e dinamica scritta nel presente con note di straordinaria autenticità e una buona dose di rimpianto. La potenza di questa memoria personale consiste nella sua capacità di allacciarsi (“avviticchiarsi”) al tempo attuale, contemporaneo, tanto saldamente da testimoniare il carattere pubblico e storico di una personalissima narrazione: “Le nostre chiamate /si avviticchiavano al tempo atmosferico /alle maniglie dei giorni /in reciproca auscultazione /dei carsi sotto le frasi […]” (19).
Fa breccia nel verso la costante rievocazione di un tempo interiore, uno spazio privato legato al passato ma che tende costantemente al presente, una disamina degli eventi che ha i tratti di una retrospettiva intimistica dei luoghi abituali e dei gesti quotidiani che hanno segnato la storia di una madre e di suo figlio.
Sartori governa il testo con una sapiente tensione poetica che oscilla tra il tempo che non è più, con il suo corredo di rievocazioni e di propositi e la volontà di tracciare un quadro di sua madre, Piuma, così aderente al vero da non voler omettere alcuna sfumatura del suo essere, perché l’oblio non ne disperda neanche il più piccolo vezzo. Una storia privata, intima, personalissima, che tocca la storia pubblica, comunitaria, nostra. La bellezza di questo corposo materiale poetico, suddiviso in tredici sezioni, con la preziosa postfazione di Helena Janeczek, vincitrice del Premio Strega 2018 con il romanzo La ragazza con la Leica, consiste nell’interpellare l’esperienza umana tutta nella modalità dell’incontro più antico, quel sodalizio generazionale dal quale nessuna vita può essere disgiunta: la nascita e la morte. In questo libero esercizio di ri-conoscenza e di trasmissione del ricordo, Sartori scorre come fotogrammi le scene abituali di vita della madre in parallelo con le sue, proiettando sulla pagina sequenze familiari che vanno dalle tinte forti della dissacrazione, alla levità di un acquerello, ma sempre con il tratto potente di un verso netto, incisivo, incalzante, dalla sintesi disarmante, spesso abbracciando il paradosso e ponendo l’ionarrante al di fuori dell’opinione comune o dell’esperienza ordinaria. Questo intenso diario della nostalgia rivela un antico conflitto, uno scontro a(r)mato, un intervallo (reiterato) di coscienza tra l’obbedienza filiale – che inizia a germinare dal primo sguardo sul mondo, e quel mondo è Madre – e la mancata acquisizione di consenso della parte amata, le cui carenze sono qui attestate, e quindi liberate, restituite al mondo come dichiarazione di armistizio. La disputa adulta sembra pacificarsi con l’apparente cessazione delle ostilità, con l’evento finale della morte della Madre.
Sartori passa in rassegna i dati del passato, con la lente del ricordo li reinterpreta al vaglio di uno sguardo adulto; sembra quasi che questa lente temporale faccia apparire Piuma agli occhi del bambino dal “caschetto platinato” in tutta la sua grandezza e maestosità, mentre allo sguardo del Sartori adulto la renda piccola, fragile, dipendente.

Dalla sezione Fidanzatini

[…]

ti seguivo nelle tappe
mondane e furibonde
(più scorno che invidia)
valletto allegro
(caschetto platinato
di cantante pop)
quasi pretendente

(31)

La madre ora, finalmente, si curva. Nel suo farsi piccola, in questa fisicità così geneticamente modificata, appare paradossalmente più madre di prima, come se questa sua curva adulta e “vecchina” abbia il potere di medicare/mediare la ferita dell’assenza che la curva dell’affetto di allora, propria di chi si china per curare e prestare amore, non ha saputo elargire. “[…] minuscola e fremente /inscenavi te stessa /poi invece ridevi /arcuata in avanti /[…] ubriaca d’allegria […]” (21).
Il figlio sembra portare sulle spalle il peso del non detto, ma ancor più del non fatto: “[…] ero preso /dalle mie cose /dal mio egotismo /dal mio bisogno /di tenerti a distanza” (43). Le cose taciute qui riprendono voce e le azioni rimandate chiedono la loro occasione di riscatto:

Dalla sezione La tua fibra tigliosa

Come facciamo con le sedie

ci tenevi tanto
a regalarmele
poi mancava il tempo
per andare a sceglierle
veniva un’altra festa
avevo altre urgenze
l’anno seguente ero via
il Natale dopo ancora
mi faceva fatica

un po’ era anche
per non farti spendere
diciamola tutta
(le chiappe gradivano
anche le vecchie)

ridevamo di queste sedie
che non arrivavano
né a Natale né mai
adesso come facciamo
è il mio compleanno
il tempo l’avrei
(scegliere è niente)
tu però sei morta

(8)

Sartori vaglia, sceglie, discerne, la sua voce filiale è una cassa di risonanza, dove are-sonare e ad echeggiare è la sua antica e sempre nuova richiesta di attenzione, la sua domanda ripetuta di sguardo in amplificazione di suono, ora pacificata dal distacco, dalla separazione. Il tempo del racconto è l’imperfetto narrativo, portatore di simultaneità, tempo relativo per eccellenza ma con un ancoraggio temporale al tempo attuale che perdura così tenacemente che l’azione procede anche fuori dall’intervallo di tempo considerato. Ogni atto di Piuma non è mai distaccato da quello del poeta, ma è celebrazione dell’umano nella sua singolarità di ferita. È un libro sulla distanza, relazionale e non solo fisica, prossemica. Della nostalgia come pensiero che porta con sé un dolore, una crepa. Un taglio generato dalla stessa origine della vita, la Madre. La distanza sembra essere la costante di Piuma, la sua incapacità di stabilire un contatto con la creatura che lei stessa ha generato. Una spaccatura che minaccia l’unione, una lesione, la stessa origine che ha dato luce alla vita può anche oscurare, gettare ombra. Sono queste le confessioni di una lontananza: lo sguardo del figlio che ricerca, interpella, anela la cura della madre che puntuale si ritrae, nell’indifferenza tragica delle cose: “[…] l’impossibilità di amarti /è l’incapacità di amarmi” (66).

Dalla sezione Il muro dei boriosi

Quando partivo
non ti abbracciavo
non volevo che
una guancia dura
(indispettita
dai convenevoli)
mi sfiorasse
come congedando
un conoscente

capitava che baciassi
una tua amica
uno sonosciuto
e non te
poi però i nostri occhi
s’incontravano
come vergognosi
di noi

eri un uccellino
ingordo di trilli
e compari
accorto a non farsi
toccare

aborrivi i contatti
tra i corpi

(75)

L’elemento caratterizzante del poema è questo dialogo a due voci, un intreccio sonoro in grado di operare un’eco lirico vibrante e potente. Nelle immagini in bianco e nero delle fotografie a corredo dei testi il rimando al ricordo come memoria dinamica diviene ancora più manifesto. Il cuore, come memoria affettiva è lo scrigno che custodisce gli eventi e le emozioni – re-cor, richiamo al cuore – nella sua urgenza di preservare ciò che ancora può essere salvato. La voce di Piuma ha il vibrato dell’imperativo, la parola pronunciata si carica di domanda e di presenza. Si ha la percezione di un mosaico cromatico sapientemente composto, una mappa intimistica dove ogni tessera, ogni frammento viene posizionato con una tecnica che sorprende il lettore, lo conduce all’interno del disegno segreto che svela la sua tenerezza struggente.
Il dramma del distacco, in cui la declinazione del noisi allontana dalla dimora sicura dell’accoglienza e della considerazione, si converte in scena familiare, diventa dialogo, ricerca del particolare tra esperienza del limite, inteso come finitudine, morte e tenerezza storicizzata. Potremmo parlare di una cronologia della memoria in cui il poeta ordina in sequenza un tempo filtrato dalla narrazione degli eventi, facendo fiorire il substrato emotivo di cui tali eventi sono portatori. La comunicazione tra madre e figlio è mediata dalla parola poetica che svela tutto il ventaglio di emozioni che si cela dietro ad ogni gesto e parola mancata. La potenza del verso, nella sua essenzialità e progressione diventa occasione di svelamento: non c’è più il silenzio a filtrare tra le pieghe delle attese, ora il dicibile è reso possibile dall’atto poetico, manifestazione del vero. Colpisce la raffinatezza della composizione, la ricerca estetica dei termini, lo stile e l’accuratezza delle scelta di immagini-simbolo.
Piuma calca la regione di una territorialità che si estende nei dettami del confine, l’amore è quasi come una censura, il luogo intimo del sé così claudicante di affettività e di contatto. Un’onta quella sua di mostrarsi al mondo nella fragilità della dipendenza propria dell’affettività: “[…] come potevi /farti tanto amare? /(tu che amare /sapevi male)” (115).

Dalla sezione Avide becchettatine

[…]

se le cose
mi andavano bene
o drizzavo la cresta
mi attaccavi
e mi umiliavi
(scotto anche
di sconfitte)
non sopportavi
vedermi felice

come perdonarti
di essere con me?

(63)

Sorprende nella figura della Mater il suo agere, la sua determinazione, il vigore rivoluzionario e anticonvenzionale. La tua Fibra tigliosa– titolo che apre la prima sezione del poema –, rivela subito il suo carattere indocile, coriaceo, decisionale che caratterizza la sua figura elegante, contraddittoria, altera, ritratta nelle sue pose da diva, con una mistura di eccentricità e colore tale da fare da contraltare al grigiore statico e ordinario del bianco e nero delle fotografie. “[…] solo disquisendo di politica /m’era dato avvincerti”. (60) “[…] così detestabile /e così adorabile/ così lontana /e così presente”. (104)“[…] quella tua fibra tigliosa /di minuto mammifero /[…]” (10)

Dalla sezione: Avide beccatine

La tua eleganza
con pretese di distinzione
e ieraticità di dama
aveva grazie impacciate
di bambina non bella
(sotto sotto vergognosa)

(62)

     

Dalla sezione: Il muro dei boriosi

Passavo a trovarti
fatte le mie cose
in lungo e in largo
sbarcavo a notte fatta
mi accoglievi sul divano
in posa di diva
(quasi fosse l’ora del tè)
contenta di vedermi
pronta a discutere
di questo e di quello
senza farmi pesare
(o solo capire)
che avevi atteso
chissà quante ore
mentre io rimandavo
e ancora rimandavo
(non era prioritario)

(76)

La cifra dell’unicità della madre è declamata nella sua originalità nella modalità filmica del fermo immagine. Ogni verso ha l’immediatezza di un frame che cattura l’irripetibilità dei gesti, la mimica, gli atteggiamenti, eternandoli. Piuma è ironica, indomita, vitale, energica, dispotica, amante dei libri, dei fiori, dei film, dei viaggi, eppure è ritratta nel suo più grande limite, nella sua incapacità di amare. Nella prima poesia che apre la terza sezione Fidanzatini, Sartori ci consegna un’immagine delicatissima e soave, carica di forza, tenacia, fisicità e al contempo di leggerezza e spensieratezza; quasi potremmo distinguere il suono dello scivolamento che l’agilità di Piuma, nonostante l’età avanzata, produce sulla superficie innevata. Un silenzio di neve che alla fine reca con sé tutto il dramma acuto dell’indifferenza: “[…] più di tutto /ma più di tutto /adoravi sciare /fin da ragazza /fin dal fascismo /[…] / leggera e intrepida /[…] perfino molto anziana /scivolavi lieve /sulla pelle della neve /anche sui giorni /slittavi agile /anche su me”. (27)
Il suo “(equilibrio rodato /di ginnasta)” ora mostra una “(scioltezza /ormai consustanziale)” “[…] in ebbrezza vitalista /(per non dire postfascista) […]”. (41)

Dalla sezione Ancheggi da sciatrice

Non si può dire che mi manchi

è anzi un sollievo
(come dopo tante parole
si predilige il silenzio)

mi manca
la mancanza
d’averti mancata

(44).

Così da Mater della vita a Mater della fine:

Dalla sezione Partorivi la morte

[…]

eri bella mentre
partorivi la morte
con la gioia sofferta
e altruista
d’ogni mamma

eri bella
arresa alla vita
(che è morte)
senza più bisogno
di dare prove
avere riprove
solo nuotando
nel presente

eri bella mentre morivi
sparite le paure
la sete di conferme

[…]

(127)

La dittatura del narcisismo mostra tutta la vulnerabilità di un corpo ormai fragile e dipendente da altri (infermieri, dottori, famigliari), un corpo che nel fiore degli anni ostentava energia e fisicità e come una frontiera segnava ogni violazione di spazio prossemico, nell’aberrazione del contatto, in un imperante e reiterato snobismo.

Dalla sezione Murata nella logorrea

[…]

restava la vergogna
d’un corpo ammutinato
l’ansia di ore fuori controllo
in balia di infermieri discinti
che ti davano del tu
(a te!)
il terrore del dolore
lo smacco di non poter officiare
lieve e dispotica
gaia e nevrastenica
come sempre

negli occhi
di un bue al macello
c’è più metafisica

(99)

Dalla brillante postfazione di Helena Janeczek: “[…] L’intuizione formidabile e lancinante di Sartori sta nel far rimare “narcisismo” e “fascismo”. Una lettura accreditata sostiene che il primo sia diventato patologia sociale dal momento in cui il capitalismo liberista assorbì l’energia libertaria dalle rivolte giovanili degli anni ’60-’70. L’antiautoritarismo sessantottino, pur non chiamato in causa come colpevole diretto, avrebbe preparato il terreno alla proliferazione di individui alla rincorsa del godimento consumistico e ormai incapaci di stabilire autentiche relazioni affettive. I versi di Sartori, invece, riportano a una radice inaudita la diagnosi della sua terapeuta. Non la contestazione studentesca, ma la premessa nell’epoca che ha forgiato persino la madre nel disprezzo dell’empatia e della debolezza, ha consegnato il figlio a una mancanza originaria. A lui non resta che portare il peso di Piuma, seguitando a colmare di parole …un vuoto/ leggero e gaio/ ma anche inquieto/ (un tantino angosciante)/ com’eri tu.

Dalla sezione Ancheggi da sciatrice

Il tuo fascismo
era voluttà di neve
asprigno di resina
(pino mugo e larice)
aria grezza nei capelli
disciplina dell’alpinismo
risate interclassiste
la sera nei rifugi
(sempiterno brio
di giovinezza)

il tuo fascismo
era nostalgia
d’un dandy
appena intravisto
i dettami e i precetti
che non ti ha legato
(neppure tramite
interposta persona)

il tuo fascismo
erano le libidini
d’un corpicino
indomito e ligio
i severi precetti
che gli imponevi
la tua perseveranza

il tuo fascismo
era febbre
di forme
bellezza
Vestiti
mobili antichi
distinzione

il tuo fascismo
era dispatia
il sentirti superiore
a volgo e cafoni
alla gentucola
sprezzo di debolezza
inclusa la tua
(figuriamoci la mia)

il tuo fascismo
erano le escursioni
in alta montagna
a ottant’anni
l’ultima sciata
a novanta
le marce d’allenamento
i passini sovraumani
aggrappata al deambulatore
scheletrica e tremante
(indomita maschera
di dolore)

il tuo narcisismo
sintetizza la terapeuta

(37-38)

Nei versi di Sartori affiora l’archetipo della Grande Madre dell’inconscio individuale e collettivo che si rivela nell’impronta delle ideologie totalizzanti, nel ciclo continuo di morte e rinascita. Come dichiarato nel titolo di questa preziosa e straordinaria opera ci troviamo di fronte, o meglio dentro un luogo, quello materno, che è sinonimo di rifugio, ristoro, certezza, calore, ma anche in un luogo-ombra, con i suoi segreti, i suoi limiti, i suoi confini oscuri. Un’iconografia della distanza, dispensatrice di mancanze collettive.

Dalla sezione Gli occhiali a farfalla

In una foto
sulla neve
(sfondo di pareti
simili a pandori)
hai calzoni rastremati
di protosportiva
scarponi di pelle
fissi l’obiettivo
(certo tua figlia)
contenta dell’attimo
gli occhi sorridono
ancora coerenti
(poi scruteranno
da uno scranno
di disincanto)

minuscolo sciatore
famelico di contatto
premo la spalla
sulla tua coscia
una tutina di panno
quasi d’aviatore
cincischio le manopole
canto o grido
il mio broncio
(labbrette protese)
pencolo il mio bisogno
la tempia sull’anca
del mio sostegno

per con concedermi
quello che anelo
il tuo braccio
fugge all’indietro

(47)

    

In un altro scatto
siamo seduti sulla sabbia
io davanti tu dietro
incollo la schiena
alla tua coscia
(se non mi sfiori
mi servo da solo)
assorto nel contatto
(noncuranza coatta
di cane)

sovrintendo il cantiere
di sabbia bagnata
il secchiello in mano
(pugnetto volitivo)
nell’altro una paletta
troppo lunga
per un bimbo
così piccolo

pure tu scruti
lo stato dei lavori
la mano sull’anca
(eviti la mia pelle)
sulla faccia nell’ombra
un sorriso lento
a vestire la noia

(50)

      

[…]

volevo dirti che
ho diversi progetti
e certi istanti
sto proprio bene
nella fattispecie
quando il sole
sorge sotto le nuvole
galleggia orizzontale
con saturazioni da film
su ai piani alti
e nel bigio delle vie
le persone affaticate
(sedute come a scuola)
interrogano i telefoni
ormai accomodanti
(la mia giornata
prende invece l’anda)
non darti pensiero
per me

(142)

in apertura Keiko, figlia della primavera, Lara Steffe, 2009

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