Saudade, sentimento arcano e poetico. Editoriale di Vera Lucia De Oliveira

Saudade, sentimento arcano e poetico. Editoriale di Vera Lucia De Oliveira.

    

   

Questo articolo proposto da Vera Lucia De Oliveira per il corrente numero di Versante Ripido che ha per tema “la nostalgia – saudade” è già apparso sul nr. 21 2011 di Fili d’Aquilone
http://www.filidaquilone.it/num021deoliveira.html.

    

Forse una delle più poetiche ed enigmatiche definizioni di saudade, questo sentimento così complesso e struggente, è del grande scrittore brasiliano Guimarães Rosa (1908-1967), che, nel libro Campo geral, afferma per bocca del suo alter ego bambino, Miguilim: «Mãe, que é que é o mar, Mãe?» Mar era longe, muito longe dali, espécie duma lagoa enorme, um mundo d’água sem fim, Mãe mesma nunca tinha avistado o mar, suspirava. – «Pois, Mãe, então mar é o que a gente tem saudade?»[1] («“Mamma, che cosa è il mare, Mamma?” Il mare era lontano, molto lontano di lì, specie di lago enorme, una quantità d’acqua senza fine, anche Mamma non aveva mai visto il mare, sospirava. “Allora, Mamma, mare è quello che si ha nostalgia?”»)[2]

La saudade sarebbe dunque una nostalgia, un desiderio quasi metafisico e assoluto di qualcosa di remoto e intimo che non conosciamo bene, o che conosciamo in maniera intuitiva, che sentiamo che esiste prima ancora di sapere che esiste? Tanti sono gli scrittori e poeti, dai primordi della lingua galego-portoghese fino ai nostri giorni, che hanno cercato di definire l’indefinibile di un sentimento quasi sempre associato all’espressione lirica ed elegiaca propria del poeta: saudade e poesia sono un binomio inscindibile nelle letterature di lingua portoghese.

Saudade viene dal latino sōlĭtās, solitātis, «solitudine», «isolamento», origine dei termini arcaici soydade e suydade presenti già in epoca medievale, nelle liriche dei Canzonieri galego-portoghesi, che riuniscono più di 1600 componimenti scritti fra la fine del XII secolo e la metà del XV. L’evoluzione del dittongo «oi» in «au», verificatosi nella formazione del termine, è considerata, tuttavia, anomala e gli studiosi avanzano varie ipotesi per spiegare il fenomeno. Per la filologa Carolina Michaëlis de Vasconcelos (1851-1925) ci sarebbero stati influssi da altri termini che iniziano con saud, come il verbo saudar («salutare») e il sostantivo saude («salute»)[3]. Lo studioso brasiliano João Ribeiro (1860-1934) propone la suggestiva tesi che nel cambiamento fonetico del dittongo abbiano influito le espressioni arabe suad, saudá e suaidá, che indicano profonda tristezza[4].

La genesi del sentimento della saudade va collegata alla storia stessa del Portogallo, alla vocazione marinara del paese, aperto all’oceano Atlantico e geograficamente racchiuso in una striscia di terra ai confini occidentali dell’Europa. I grandi viaggi avventurosi che caratterizzarono la fondazione e l’affermazione di questa nazione avrebbero intensificato il senso di malinconia e solitudine di cui erano pervasi tanto coloro che partivano quanto coloro che restavano, soprattutto donne, ad attendere il ritorno dei propri cari. Dinnanzi all’immensità del mare e del cielo, la fanciulla, da sola, con la madre o con le amiche, cantava, nelle cantigas de amigo, il desiderio di rivedere l’amato, partito per andare incontro all’ignoto:

Ondas do mar de Vigo,                            
se vistes meu amigo?                                
e ai Deus, se verrá cedo!                          

Ondas do mar levado,                              
se vistes meu amado?                               
e ai Deus, se verrá cedo! [5]                      

(…)                                                      

«Onde del mare di Vigo,
avete visto mio amico?
mio Dio! Verrà egli presto?

Onde del mare inquieto,
avete visto il mio amato?
mio Dio! Verrà egli presto?»[6]

(…)

Nel corso della prima metà del XV secolo, D. Duarte (1391-1438), re colto e malinconico, primogenito di D. João I, capostipite della generazione degli Avis, percepì la flessibilità e la ricchezza della lingua portoghese per l’espressione di sottili e complessi stati d’animo, come è appunto la saudade, termine per il quale non trovò equivalente nelle altre lingue. Nel libro Leal Conselheiro, scritto fra il 1437 e il 1438, in un’epoca in cui la lingua portoghese era ancora in fase di sperimentazione, almeno quanto alla prosa, D. Duarte afferma:

E a saudade (…) é um sentido do coração que vem da sensualidade, não da razão, e faz sentir às vezes os sentidos da tristeza e do nojo. E outros vêm daquelas cousas que a homem praz que sejam, a alguns com tal lembrança que traz prazer e não pena. E em casos certos se mistura com tão grande nojo, que faz ficar em tristeza. E para entender isto, não cumpre ler por outros livros, ca poucos acharão que delo falem, mas cada um vendo o que escrevo, considere seu coração no que já por feitos desvairados tem sentido, e poderá ver e julgar se falo certo. (…) E porém me parece este nome de saudade tão próprio, que o latim nem outra linguagem que eu saiba não é para tal sentido semelhante. [7]

«E la saudade (…) è un senso del cuore che viene dalla sensibilità, non dalla ragione, e fa sentire a volte i sentimenti della tristezza e del dispiacere. E altri ne vengono da quelle cose che all’uomo piace che siano, ad alcuni con un tale ricordo che porta gioia e non pena. E in alcuni casi si mescola con un così grande dispiacere che provoca tristezza. E per intendere questo, non è necessario leggere molti libri, perché pochi se ne troveranno che di questo parlino, ma ognuno, leggendo quel che scrivo, consideri il proprio cuore in ciò che solo negli atti dissennati ha un senso, e potrà vedere e giudicare se dico il giusto. (…) E però mi sembra questo nome di saudade così proprio, che il latino né altra lingua che io conosca non ne ha per tale sentimento uno somigliante.»[8]

Carolina Michaëlis de Vasconcelos discorda della convinzione, diffusa già al tempo di D. Duarte, che la parola saudade sia intraducibile nelle altre lingue e indica nel termine tedesco Sehnsucht un possibile corrispondente per l’espressione del concetto complesso e articolato di questo sentimento. Ciononostante, riconosce che la parola tedesca ha un carattere più metafisico, mentre quella portoghese esprime un sentire che coinvolge sfere fisiche, psicologiche e metafisiche[9]. Comunque sia, l’agenzia inglese Today Translations, nel predisporre di recente, dopo aver consultato mille traduttori professionisti, una graduatoria dei vocaboli ritenuti più difficili di tradurre, ha inserito la parola saudade al settimo posto.

L’ambivalenza del termine, intuita già nei testi più antichi, si è conservata nelle definizioni moderne e il Novo Aurélio lo caratterizza come «il ricordo nostalgico e, allo stesso tempo, soave, di persone o cose distanti o estinte, accompagnate dal desiderio di tornare a vederle o ad averle»[10]. Concetto diverso da quello correlato alla ««nostalgia» italiana, che indica «uno stato d’animo corrispondente al desiderio pungente o al rimpianto malinconico di quanto è trascorso o lontano»[11].

Si può provare saudade per una terra, una patria, una casa, una persona cara; si può provare saudade del grembo materno e dell’infanzia, di un passato gioioso perduto, di un mito, di un eroe, di un sogno, di un ideale, di un eden, di un messia. Nella fenomenologia della saudade, l’ambiente fisico è spesso determinante e intensifica o attenua sentimenti ed emozioni correlate, quali malinconia, uggia, ansia, trepidazione, tenerezza, attesa, gioia, dolcezza. Il soggetto saudoso cerca i luoghi solitari, nei quali avverte sintonia fra il mondo esterno e lo stato interiore. Da qui il panteismo, o spiritualismo animista, così presente e connaturale alla poesia portoghese in cui la natura e il mondo circostante sono acutamente partecipi al sentire del soggetto. I luoghi solitari, inoltre, predispongono al raccoglimento e all’ascesi, consentendo di penetrare nel mistero della natura e del mondo.

Per la connotazione ontologica del temine, il poeta portoghese Teixeira de Pascoaes (1872-1952) farà di tale sentimento singolare, all’inizio del secolo XX, addirittura una religione, una poetica e una filosofia, il Saudosismo, che, secondo il suo fondatore, è l’essenza dell’anima lusitana[12]: é um estado de alma latente que amanhã será Consciência e Civilização Lusitana… («è uno stato d’anima latente che domani sarà Coscienza e Civilizzazione Lusitana…»)[13].

Che la saudade possa definire un’identità non pare così inverosimile, sempre che la si intenda come multipla e composita, giacché essa, oltre ad essere un sentimento, è un modo di vivere, di pensare e di sentire. È un legame con il passato o un recupero della memoria – del singolo o della comunità – che si proietta nel presente e nel futuro; una nostalgia non della felicità avuta e perduta, ma una nostalgia di essere felici ancora, anzi, una speranza di esserlo. In questo senso, la saudade è forse uno dei sentimenti più ardenti e utopici, è un ponte fra persone, è un legame fra luoghi diversi che convivono nella coscienza e nell’anima. Dalla saudade dei portoghesi per l’infinito dell’orizzonte, sono nati i nuovi confini dell’Europa; dalla saudade degli africani per la terra d’origine, sono nati la musica, la danza, l’arte e la religione afro-brasiliana, che perpetuano la memoria dell’Africa nel cuore dell’America; dalla saudade degli immigranti, è nato il sincretismo culturale brasiliano, in cui ogni popolo ha cercato di annodare i fili delle proprie origini con quelli della patria scelta per i propri figli. Se la saudade non fosse stato un sentimento così composito, molteplice e universale oggi non potremmo parlare di lusofonia come di un insieme di paesi che, con tutte le loro diversità culturali, compongono un universo unico, dal punto di vista linguistico, e che scambiano esperienze e vissuto usando spesso tale termine come qualcosa di assolutamente intrinseco. «Del dolore che i viaggi per mare generano, tanto in chi parte quanto in chi resta,» – afferma Luciana Stegagno Picchio – «si nutre la saudade, quel sentimento equivalente del dantesco “disío”, che è insieme nostalgia di cose perdute e desiderio di beni futuri, divenuto segno della spiritualità portoghese e che i portoghesi esporteranno in ogni paese del loro peregrinare»[14].

Molti poeti ne parleranno, intendendo tale sentimento non solo come dolorosa nostalgia di qualche cosa perduta, ma anche come aspirazione di uno stato da raggiungere per sé e per la società, in cui giustizia e saggezza trovino luogo nel mondo. L’aspetto utopico della saudade è indissolubile dall’opera di tanti grandi scrittori e intellettuali, fra i quali, nel Cinquecento, Francisco de Sá de Miranda (1487-1558) e Luís Vaz de Camões (1524-1580).

Camões è il simbolo stesso della saudade portoghese, immagine viva dell’intellettuale colto e sensibile che non riesce a conciliare gli ideali della sua formazione filosofica, religiosa e umanistica con la sregolatezza e il disordine del mondo. Bandito dalla patria, costretto a vagare tra i continenti, con una spada in una mano e nell’altra un libro, Camões è la personificazione del destino di tanti esiliati e del loro impossibile sogno di ritorno:

Mudam-se os tempos, mudam-se as vontades,                      
muda-se o ser, muda-se a confiança;                                       
todo o mundo é composto de mudança,
tomando sempre novas qualidades.                                          

 Continuamente vemos novidades,                                            
diferente em tudo da esperança;                                               
do mal ficam as mágoas na lembrança,                                  
e do bem, se algum houve, as saudades.[15]                          

(…)                                                                                                     

«Mutano i tempi, muta parimenti
la volontà, lo stato, la certezza:
tutto nel mondo è sol mutevolezza,
è nuova qualità, nuovi accidenti.

Non può fra l’alternarsi degli eventi
neppure la speranza aver fermezza:
ci restano del male l’amarezza
e nostalgia del ben (se fu), cocenti.» [16]

(…)

Bernardim Ribeiro (1482?-1552?), poeta tormentato, di sensibilità vibratile e quasi femminile, nel suo Menina e Moça, opera conosciuta anche con il titolo di Saudades, pubblicata per la prima volta a Ferrara nel 1554, viveva, prima ancora di Camões, il sentimento della saudade come perdita dell’armonia originale e, conseguentemente, come dolore e solitudine e non è un caso che, in lui, soidade, con il significato proprio di «solitudine», e saudade, corrispondente a nostalgia di cose o luoghi perduti, si alternino e quasi si confondano.

Potremmo soffermarci su quasi tutti i poeti portoghesi di ogni tempo e luogo, visto che la saudade è il maggior nutrimento di questa lirica, nella sua ossessiva introspezione, nello scavare l’anima del poeta e del mondo che esprime il desassossego dell’intellettuale sensibile. Il Portogallo è un paese di poeti e la poesia la si vede ovunque, ancora oggi, nelle vie luminose e dal sapore antico di Lisbona, nelle viuzze acciottolate della colta Coimbra, dove quasi ogni strada porta l’insegna di un poeta che vi ha studiato o abitato, nella bella Oporto, con le sue strade e case memori di un tempo e di un luogo in cui i marinai vivevano di pesca e di incessante lotta contro le intemperie del mare.

Con le caravelle, questa saudade ha viaggiato, come si è detto, sbarcando in lontani continenti, dove sono nate abitudini, ritmi e canzoni che parlano del dolore e del desiderio di felicità – come il fado portoghese, lo choro, la bossa nova e il samba brasiliani, la morna capoverdiana – in cui tale parola è entrata nell’uso comune per definire un “male” del quale si può anche morire (morrer de saudade esprime, infatti, il dolore della lontananza) e il suo contrario (matar saudades esprime la gioia del ritorno e dell’incontro).

In Brasile tale sentimento ha segnato, agli esordi della letteratura, gli intellettuali che vivevano divisi fra il Portogallo, avendo molti di loro lì studiato e assimilato modelli estetici e culturali, e il paese natale, dove aveva radice la loro identità più profonda. È il caso sia di Cláudio Manuel da Costa (1729-1789), poeta tormentato che anelava all’armonia dell’ideale arcadico fra le rupi selvagge di Minas Gerais, sia di Tomás António Gonzaga (1744-1810), portoghese di nascita, la cui saudade diventa nostalgia dell’amata Marília, dalla quale lo avevano strappato le sue aspirazioni politiche e il sogno di un Brasile libero già nel Settecento, sogno peraltro duramente punito dal Portogallo.

L’Ottocento, il secolo dell’indipendenza del Brasile, coincide con il Romanticismo e con l’Indianismo, corrente estetica nazionale volta a cercare nell’indio, sradicato ormai brutalmente dall’armonia della Terra senza Male di Maíra[17], il segno dell’identità del paese che, nel voler rompere il cordone ombelicale con la madrepatria, tentava di muovere i primi passi da nazione libera. E qui non possiamo tralasciare di ricordare la «Canção do exílio», di Antônio Gonçalves Dias (1823-1864), testo simbolo del Romanticismo e sorta di inno identitario, conosciuto a memoria, in pratica, da ogni brasiliano colto. Il rimpianto del poeta per la patria lontana lo porta a idealizzarla in modo parossistico, elemento molte volte presente nell’individuo saudoso:

Minha terra tem palmeiras,                                   
Onde canta o Sabiá;                                
As aves, que aqui gorjeiam,                                  
Não gorjeiam como lá.                              

Nosso céu tem mais estrelas,                     
Nossas várzeas têm mais flores,                 
Nossos bosques têm mais vida,                  
Nossa vida mais amores.                           

(…)                                                                

Não permita Deus que eu morra,               
Sem que eu volte para lá;   [18]                     

(…)                                                        

«La mia terra ha la palmiera
D’onde canta il Sabiá
Trillano anche qua gli uccelli,
Ma il gorgheggio è un altro là.

Ha più stelle il nostro cielo,
I verzieri hanno più fiori,
C’è più vita ai nostri boschi,
Vita trova là più amori.

(…)

Non permetta Iddio ch’io muoia
Se non prima torni là»[19]

(…)

Il Novecento per il Brasile è, come per il Portogallo, un secolo che continua la tradizione della grande poesia, ancora caratterizzata dall’indissolubilità della relazione fra lirismo e saudade, anche se nella poesia brasiliana si registra una tendenza ad evitare l’ormai abusato termine, adesso solo suggerito dal poeta, senza che nulla venga omesso della sua complessità. Questo lo si coglie, ad esempio, nella poesia che Manuel Bandeira (1886-1968) dedica all’amico Mário de Andrade (1893-1945) in occasione della sua scomparsa:

Anunciaram que você morreu.                               
Meus olhos, meus ouvidos testemunharam:              
A alma, não.                                                      
Por isso não sinto agora a sua falta.                                  

Sei bem que ela virá                                            
(Pela força persuasiva do tempo).                          
Virá súbito um dia,                                                         
Inadvertida para os demais.                                              
Por exemplo assim:                                             
À mesa conversarão de uma coisa e outra,               
Uma palavra lançada à toa                                              
Baterá nas franja dos lutos de sangue,                   
Alguém perguntará em que estou pensando,             
Sorrirei sem dizer que em você                              
Profundamente.[20]                                                 

(…)                                                       

«Mi hanno annunciato la tua morte.
I miei occhi, i miei sensi hanno testimoniato:
L’anima profonda, no.
Per questo ora non sento la tua mancanza.

So bene che essa arriverà
(Per la forza persuasiva del tempo).
Arriverà all’improvviso un giorno,
Inavvertita dagli altri.
Così per esempio:
A tavola converseranno di una cosa o di un’altra,
Una parola detta a caso
Graffierà la frangia dei lutti di sangue,
Qualcuno chiederà a cosa sto pensando,
Sorriderò senza dire che penso a te
Profondamente.»

(…)

Lo stesso senso doloroso, quasi fisico dell’assenza, dell’impossibilità di riattualizzare nel tempo-spazio del presente tutte le esperienze che ognuno di noi ha vissuto, lo ritroviamo, sebbene appena suggerito e non nominato, in Carlos Drummond de Andrade (1902-1987), itabirano schivo trapiantato a Rio de Janeiro:

Alguns anos vivi em Itabira.                                             
Principalmente nasci em Itabira.                           
Por isso sou triste, orgulhoso: de ferro.                 
Noventa por cento de ferro nas calçadas.                 

(…)                                                                   

Tive ouro, tive gado, tive fazendas.                        
Hoje sou funcionário público.                               
Itabira é apenas uma fotografia na parede.             
Mas como dói![21]                                                  

«Per qualche anno ho vissuto a Itabira.
Soprattutto, sono nato a Itabira.
Perciò sono triste, orgoglioso: di ferro.
Novanta per cento di ferro nelle strade.

(…)

Ho avuto oro, bestiame, fazendas.
Oggi sono un impiegato pubblico.
Itabira è solo una fotografia alla parete.
Ma come fa male!»

Per i modernisti, la saudade diventa spesso termine da rovesciare in chiave parodica e da sconfessare quando determina l’attaccamento morboso della società o di una classe privilegiata ad un passato nazionale che necessita di essere rivisto e riscritto:

Oh que saudades não tenho                                   
de minha casa paterna.                            
Era lenta, calma, branca,                         
tinha vastos corredores                            
e nas suas trintas portas                          
trinta crioulas sorrindo,                           
talvez nuas, não me lembro.[22]                     

«Quanta nostalgia non ho
della mia casa paterna.
Era lenta, calma, bianca,
aveva ampi corridoi
e sulle sue trenta porte
trenta creole sorridenti,
forse nude, non ricordo.»

Nella musica brasiliana, invece, saudade è parola chiave di innumerevoli canzoni, alcune delle quali sono capolavori assoluti di artisti e cantautori come Adoniram Barbosa (1919-1997), Vinícius de Moraes (1913-1980), Tom Jobim (1927-1994), Baden Poewll (1937-2000), Chico Buarque (1944), Djavan (1945) e di tanti altri. Ne è un esempio «Tanta saudade», canzone del 1983, di Djavan e di Chico Buarque, in cui nuovamente si cerca una definizione lirica per tale stato psichico desiderato e, allo stesso tempo, respinto:

Era tanta saudade                                               
É, pra matar                                                      
Eu fiquei até doente                                             
Eu fiquei até doente, menina                                   

Se eu não mato a saudade                                     
É, deixa estar                                                      
Saudade mata a gente                                           
Saudade mata a gente, menina                                

(…)                                                                    

Mas voltou a saudade                                           
É, pra ficar                                                        
Ai, eu encarei de frente                                         
Ai, eu encarei de frente, menina                             
Se eu ficar na saudade                                          
É, deixa estar                                                      
Saudade engole a gente                                        
Saudade engole a gente, menina                             

(…)                                                                   

Ai, saudade, indo sou moço, aquele poço não tem    
fundo, é um mundo e dentro um mundo e dentro       
um mundo e dentro é um mundo que me leva[23]      

«Era tanta saudade
È, da uccidere
Mi sono anche ammalato
Mi sono anche ammalato, bambina

Se non uccido la saudade
È, lascia stare
La saudade ci uccide
La saudade ci uccide, bambina

(…)

Ma è tornata la saudade
È, per rimanere
Ahi, l’ho presa di petto
Ahi, l’ho presa di petto, bambina
Se io rimango nella saudade
È, lascia stare
La saudade ci ingoia
La saudade ci ingoia, bambina

(…)

Ah, saudade, sono ancora giovane, quel pozzo non ha
fondo, è un mondo e dentro un mondo e dentro
un mondo e dentro è un mondo che mi porta via).»

Nella rappresentazione fattane dai due cantautori, tale sentimento tanto può salvare come annullare il nostalgico, stabilendo, talvolta, l’unione osmotica, e altre, la disgiunzione ineluttabile fra l’essere e l’oggetto o la persona di cui si ha nostalgia. E anche in questo nesso enigmatico saudade e poesia sono accomunate, finendo per impedire l’assuefazione tanto all’assenza quanto, parimenti, alla presenza. Il senso comune e ricorrente della saudade è l’estraniamento, l’epifania delle cose e del mondo, cioè il vederle, o il volerle vedere, sorgere dinanzi a noi sempre nuove e intatte, come se fosse la prima volta, con l’implicita coscienza di tale impossibilità. La saudade è uno smarrirsi della banalità della vita dietro a un sogno (o follia) di felicità. Eppure, come sostiene Fernando Pessoa (1888-1935), Sem a loucura que é o homem[24] («Senza la follia che cos’è l’uomo»)?

Pare doveroso chiudere questa breve incursione nell’ambito di un sentimento sempre nuovo e sempre antico, arcano e poetico, proprio con Pessoa, il poeta che più di ogni altro ha vissuto nel corpo e nell’anima, oltre che nella coscienza, la saudade del suo paese, essendo stato sradicato da Lisbona all’età di sette anni, in un momento tragico in cui sentiva disgregarsi la famiglia, con la morte del padre e del fratellino e con le seconde nozze della madre. Pessoa rimarrà per sempre legato a quel nucleo originale di senso, a quell’armonia quasi uterina associata più tardi, in età adulta, alla lingua dei primi anni di vita, tanto che la sua opera magistrale è stata composta utilizzando proprio questo codice dell’anima che per lui era l’unica patria possibile, il portoghese. Quell’io felice dei primi anni gli sarebbe rimasto nella memoria come nostalgia di un’unità perduta con il mondo e di un desiderio di ritornare nel grembo armonioso delle cose. Sarà l’eteronimo Álvaro de Campos, il suo alter ego vitale e dinamico, ad esprimere l’intensità del dolore fisico della separazione:

Ah, todo o cais é uma saudade de pedra!                            
E quando o navio larga do cais                                         
E se repara de repente que se abriu um espaço                     
Entre o cais e o navio                                                      
Vem-me, não sei porquê, uma angústia recente,                   
Uma névoa de sentimentos de tristeza                                 
Que brilha ao sol das minhas angústias relvadas                 
Como a primeira janela onde a madrugada bate,                 
E me envolve como uma recordação duma outra pessoa  
Que fosse misteriosamente minha.[25]                                    

«Ah, ogni molo è una nostalgia di pietra!
E quando la nave salpa dal molo
e ci si avvede all’improvviso che si è aperto uno spazio
tra il modo e la nave,
Mi viene, non so perché, un’angoscia recente,
una nebbia di sentimenti di tristezza
che brilla al sole delle mie angosce ingiardinate
come la prima finestra su cui batte l’alba,
e mi avvolge come un ricordo di un’altra persona
che fosse misteriosamente mia.»[26]

Dal poeta il dolore si irradia al mondo circostante e, per quanto tale stato d’animo sia stato descritto efficacemente e poeticamente innumerevoli volte, nulla è paragonabile all’immagine pessoana della saudade (e, quindi, della vita) come allontanamento dal molo verso l’ignoto, nel quale una piccola ma luminosa finestra si apre per mostrarci, in sequenza, ciò che è stato e che non potrà più essere, per quanti sforzi si faccia in arte, musica, poesia, sogno, mito, follia, magia, silenzio, pianto, per riaverlo un po’, un altro po’, solo un po’ ancora, dentro di noi.

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BILIOGRAFIA CONSULTATA

BANDEIRA, Manuel, Poesia Completa e Prosa, Rio de Janeiro, Nova Aguilar, 1985.
BUARQUE, Chico, Letra e Música, vol. 1, São Paulo, Companhia das Letras.
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CORREIA, Natália (org.), Cantares dos trovadores galego-portugueses, Lisboa, Editorial Estampa, 1978.
DEVOTO, Giacomo e OLI, Gian Carlo, Il Dizionario della Lingua Italiana, Firenze, Le Monnier, 2000.
DUARTE, Leal Conselheiro, actualização ortográfica, introdução e notas de João Morais Barbosa, Vila da Maia, Imprensa Nacional e Casa da Moeda, 1982.
DRUMMOND DE ANDRADE, Carlos, Reunião – 10 livros de poesia, Rio de Janeiro, J. Olympio, 1874, 6ª ed.
FILIPPI, Sergio, A Saudade, Porto, Lello & Irmão Editores, 1981.
GUIMARÃES, Fernando, Poética do Saudosismo, Lisboa, Editorial Presença, 1988.
HOLANDA FERREIRA, Aurélio Buarque, Novo Aurélio século XXI, Rio de Janeiro, Nova Fronteira, 1999, 3ª ed.
PASCOAES, Teixeira de, A saudade e o saudosismo, Lisboa, Assírio & Alvim, 1988.
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PESSOA, Fernando, Obra Poética, Rio de Janeiro, Nova Aguilar, 1983.
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RICCIARDI, Giovanni e BARCHIESI, Roberto (a cura di), Antologia della Letteratura Portoghese, Napoli, Tullio Pironti Editore, 1998.
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STEGAGNO PICCHIO, Luciana (a cura di), Antologia della Poesia Portoghese e Brasiliana, Firenze, La Biblioteca di Repubblica, 2004.
TARRACHA FERRREIRA, M. Ema (org.), Antologia Literária Comentada – Idade Média, s.l., Editora Ulisseia, s.d.
VASCONCELOS, Carolina Michaëlis de, A saudade portuguesa, Lisboa, Guimarães Editores, 1996.

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NOTE

[1] J. Guimarães Rosa, Manuelzão e Miguilim, Rio de Janeiro, Nova Fronteira, 1984, 12ª ed., p. 79.

[2] Trad. di E. Bizzarri, in J. Guimarães Rosa, Miguilim, Milano, Feltrinelli, 1984, p. 74.

[3] Cfr. C. Michaëlis de Vasconcelos, A saudade portuguesa, Lisboa, Guimarães Editores, 1996, p. 47.

[4] Cfr. J. Ribeiro, «Curiosidades verbais», in D. L. Pereira da Costa e P. Gomes, Introdução à Saudade (Antologia Teórica e Aproximação Crítica), Porto, Lello & Irmão Editores, 1976, p. 16.

[5] Martim Codax, «Ondas do mar de Vigo», in N. Correia (org.), Cantares dos trovadores galego-portugueses, Lisboa, Editorial Estampa, 1978, p. 76.

[6] Trad. di P. A. Jannini, in G. Ricciardi e R. Barchiesi (a cura di), Antologia della Letteratura Portoghese, Napoli, Tullio Pironti, 1998, p. 26.

[7] D. Duarte, Leal Conselheiro, actualização ortográfica, introdução e notas de J. Morais Barbosa, Vila da Maia, Imprensa Nacional e Casa da Moeda, 1982, pp. 128-129.

[8] Le traduzioni presenti nel testo, quando non indicate diversamente, sono mie.

[9] Cfr. C. Michaëlis de Vasconcelos, op. cit., p. 32.

[10] A. B. de Holanda Ferreira, Novo Aurélio século XXI, Rio de Janeiro, Nova Fronteira, 1999, 3ª, p. 1822.

[11] G. Devoto e G. C. Oli, Il Dizionario della Lingua Italiana, Firenze, Le Monnier, 2000, p. 1365.

[12] Cfr. T. de Pascoaes, A saudade e o saudosismo, Lisboa, Assírio & Alvim, 1988.

[13] T. de Pascoaes, «O Saudosismo e a ‘alma portuguesa’», in F. Guimarães, Poética do Saudosismo, Lisboa, Presença, 1988, p.71.

[14] L. Stegagno Picchio (a cura di), Antologia della Poesia Portoghese e Brasiliana, Firenze, La Biblioteca di Repubblica, 2004, p. 13.

[15] L. de Camões, «Mudam-se os tempos, mudam-se as vontades», in Poesia Lírica, Seleção e introdução de I. Pascoal, s.l., Ulisseia, s.d, 2ª ed., p. 102.

[16] Trad. di R. Averini, in G. Ricciardi e R. Barchiesi (a cura di), Antologia della Letteratura Portoghese, op. cit., p. 127.

[17] Maíra era per gli indios il creatore del mondo e degli uomini, il quale viveva nella Terra sem Males, la Terra senza Male, che loro credevano prima o poi di poter raggiungere. Una volta sbarcati in Brasile, i navigatori portoghesi sarebbero stati scambiati dagli indios per dei messaggeri di Maíra-Monan, il che spiega l’esser stati così ben accolti. Sull’importanza di tale figura per le popolazioni indigene, anche odierne, si veda Darcy Ribeiro, «Uirá vai ao encontro de Maíra», in Uirá sai à procura de Deus: ensaios de etnologia e indigenismo, Rio de Janeiro, Paz e Terra, 1976, 2ª ed., pp. 13-29.

[18] A. Gonçalves Dias, «Canção do Exílio», in L. Stegagno Picchio (a cura di), Antologia della Poesia Portoghese e Brasiliana, op. cit., p. 499.

[19] Trad. di G. Ungaretti, ivi, p. 499.

[20] M. Bandeira, «A Mário de Andrade ausente», in Poesia Completa e Prosa, Rio de Janeiro, Nova Aguilar, 1985, pp. 279-280 (279).

[21] C. Drummond de Andrade, «Confidência do itabirano», in Reunião – 10 livros de poesia, Rio de Janeiro, J. Olympio, 1874, 6ª ed., p. 45.

[22] C. Drummond de Andrade, «Edifício esplendor», in Reunião – 10 livros de poesia, op. cit., pp. 64-66 (65).

[23] Chico Buarque, Letra e Música, vol. 1, São Paulo, Companhia das Letras, p. 214.

[24] F. Pessoa, «D. Sebastião, Rei de Portugal», in Obra Poética, Rio de Janeiro, Nova Aguilar, 1983, pp. 9-10.

[25] F. Pessoa, «Ode marítima», in Obra Poética, op. cit., pp. 248-269 (249).

[26] Trad. di A. Tabucchi, in L. Stegagno Picchio (a cura di), Antologia della Poesia Portoghese e Brasiliana, op. cit., p. 215.

                                   

Alberto Cini, tecnica mista
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