Senza rumore, reportage di Maria Lenti.
L’Apsa, breve torrente-fiume, scorre non come rimorso o nostalgia.
L’Apsa delle donne al fiume. Mia madre con loro: la sua tela, al telaio di spola e licci, da stendere molto umida (io ne tenevo fino ai miei cinque anni, fino alla sua morte, un capo) al sole alto perché divenisse più bianca.
L’Apsa di girini e di rane, di libellule e zanzare, di bagni estivi, di canneti, di rospi che sfidavano i temporali, di tamerici, di rovi e di more, di utensili metallici da trovare per lo straccivendolo.
L’Apsa delle pulizie del sabato santo: si portava al fiume ogni cosa da lavare in attesa dello scioglimento delle campane.
L’Apsa della paura di incontrarvi, d’estate, la biscia. Cercata, invece, dagli amici d’infanzia lì con me, liberi da timori. Vi si misuravano nell’ansia che sfidava il terrore di noi bambine e la sfrontatezza della loro audacia: il primo da proporre (in corteggiamento) a noi, la seconda da sbandierare (necessario maschile!) alla pavidità delle femmine.
L’Apsa delle gelate invernali e della intrepidezza di scivolare sopra la superficie di pochi centimetri.
L’Apsa dell’acqua per orti e giardini e per gli abbeveratoi degli animali domestici, dell’acqua per i muratori, come la rena dei bordi smangiati dalle piene.
L’Apsa delle fiumane pericolose e benefiche: portava legni che mio padre e gli uomini, legati da corde tenute a riva da altri uomini (a triangoli), trascinavano sulla terra per dividerseli nella comunità delle condivisioni.
L’Apsa verso cui i contadini incanalavano le piogge.
L’Apsa che alimentava le gore dei mulini.
L’Apsa, anni dopo, di conoscenze differenti, ad essa ricondotte da luoghi distanti.
L’Apsa: risognata tramite La sposa infedele di Federico Garcia Lorca: N, che prendendo la mano di F., svoltava nello stradino verso il folto dei cespugli; scoperta in Luigi Bartolini e le sue lavandaie con le braccia in acqua e il “busto al vento”, nelle sponde del Metauro incise da Leonardo Castellani, nelle metaforiche “canne” di Grazia Deledda, nell’idrometra di Giorgio Caproni, nei fiumi di Giuseppe Ungaretti, nei canaletti dei campi marchigiani di Joyce Lussu, nelle figure dei due fiumi di Paolo Volponi, nei romanzi di narratori, ne I prati di Antonia Pozzi: («Forse la vita è davvero / quale la scopri nei giorni giovani: / un soffio eterno che cerca / di cielo in cielo / chissà che altezza»).
L’Apsa di mie letture e studi. E di angoli e stanze di un fuori-dentro/dentro-fuori da far riemergere in me perché essa vi prendesse dimora senza il rumore dell’indietro o di una sterile riacquisizione. Con il desiderio, il mio corpo all’erta, di un vissuto in cui scegliere le buone dalle cattive acque. In cui morire (“L’acqua dissolve nel modo più completo. Ci aiuta a morire totalmente”, Gaston Bachelard). Per rivivere.
L’Apsa. La costeggio in un sentiero di terra battuta. Camminata serena: ecologica, etologica, etopeica: il presente, passato setacciato, e anche il domani.
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(Questo testo è già uscito a dicembre 2015 nella bella rivista «Nostro lunedì», numero 3, nuova serie, geografie del paesaggio. Ringrazio il direttore Francesco Scarabicchi. Variazioni minime, non sostanziali.
In cauda dulcis. Ap è la radice indoeuropea di idronimi: Aposa, Apusa. Apsa f., appunto, che in provincia di Pesaro e Urbino sono due: una scorre da Urbino (ed ha un affluente: Apsella) e si getta nel Foglia a Montecchio, l’altra nasce a Macerata Feltria per finire nella diga di Mercatale-Sassocorvaro. La cartina dell’IMG segnala la mia Apsa in anse, rientranze, serpentine, bizzarrie.
…da un viaggio in Cambogia e da letture correlate, ho saputo che, lì, Apsara è la dea della danza. Esiste, in quel paese meraviglioso, un Balletto Apsara, un Teatro-Ristorante dallo stesso nome ad Angkor. Forse altro.
Una… ballerina che ha perso per strada due veli, la mia Apsa?) M.L.
