“Schianti” di cuore, bellezza, amore ed eros, di Francesco Palmieri: note di lettura e una poesia da Si tira avanti solo con lo schianto di Davide Rondoni, Whitefly Press ed. 2013.
Cosa si chiede alla poesia? Emozione? Conoscenza? Evasione, sospiri, trasalimenti, colpi di luce o di maglio? O semplicemente lo spirito del tempo, il sentimento di un’epoca, una traccia di quella storia anomica che non si legge sui quotidiani, nei libri accademici; che non è raccontata dalle news spacciate da mezzibusti sapientemente truccati e omologati; che non narra le lacrime e sangue nell’enumerazione disumanizzata delle fluttuazioni di Borsa, negli abissi genocidari delle voragini mai sazie del moloch-PIL? E allora, se la poesia è ancora racconto ontologicamente umano, se è ancora parola radicata nelle profondità originarie di quel tempio incistato nella testa che è la psiche dell’uomo; se è tale ancora, al netto di ormai stanche purezze estetiche ed estetizzanti, di tentazioni centrifughe verso vuote trascendenze e metafisiche speculativamente rarefatte o, peggio ancora, verso nascondimenti autoreferenziali nelle trame oscure di sintassi misteriche e anarchie grammaticali, è al testo poetico che bisogna di nuovo guardare, e forse farvi ritorno, con lo spirito e la disposizione interiore di chi si affida a un ultimo viaggio, a un viaggio estremo della speranza.
Ed è così che può anche capitare di imbattersi in un compagno di strada – Davide Rondoni – e in un libro – “Si tira avanti solo con lo schianto” – che attenuano in qualche modo quel senso di feroce solitudine, di disperata speranza che, fra secondo e terzo millennio, globalizzazione, new economy, tecnologia, hanno marchiato nel profondo della nostra sensibilità occidentale e postmoderna.
Davide Rondoni li intuisce e li conosce i guasti del tempo storico di questa nostra Età: è “il professore” (la tecnocrazia) a cui senza mezzi termini ingiunge: “Se mi programmi, bruciando/la pupilla nell’azzurro/elettronico dei vetrini, se nella acida/festa del tuo laboratorio preveggente/sarai di me[…] Ti chiamerò/in giudizio, e tutte le bestemmie/riservate a Dio le scaricherò,/mai sazio, su di te.”; oppure le “professoresse oh sì esperte” ma ree di un’educazione cristallizzata in “pratiche di cent’anni fa”, pietrificate nell’esercizio di un sapere umanistico e poetico sacrificato al formalismo di una trasmissione formativa vuotamente scolastica e non più capace di offrire “con cura il fuoco/più buio più chiaro”. O anche le legioni dei “nuovi credenti”, quelli che senza più Dio vagano fra i luoghi e gli stereotipi di una neo-apocalisse: “la sala bingo…la fortuna…le rivendite di infinite lotterie…i biglietti a grandi cifre…”. E infine loro, quelli a cui non viene risparmiato un liberatorio “vaffanculo gli altri che comandano”, la testa del serpente, la stirpe dei contraffattori del senso della conoscenza e dello stesso senso della vita.
Ma non si vuole, qui, indurre verso un errore di prospettiva e di lettura. La poesia di Davide Rondoni non è una poesia a vocazione politica o, più generalmente, civile (sebbene la parola poetica possa rappresentare, in ultima analisi, il grado massimo di raffinazione per qualsiasi civiltà); è invece una poesia pluriversa, trasversale, capace di andate e ritorni, elevazioni e cadute, dalla terra al cielo e dal cielo all’abisso. Una poesia lucidamente consapevole, irrevocabilmente conscia che “Il rischio è cominciare da vivi/il viaggio dei morti.”; è sapere fin da subito l’itinerario esistenziale umano la cui meta, fra “schianti” di cuore, bellezza, amore ed eros, pietas e crudeltà, solitudine dell’Io ed empatia cosmica, è l’ “Inevitabile”, quella spietata ovvietà, quello spesso taciuto luogo comune che è la morte ovvero l’ “andare…solo da quella parte” perché -inutile celarlo- “La morte circonda la vita”.
Una poesia dunque senza soluzioni, aperture? Schiacciata contro il muro invalicabile di una fatalità tragica non eludibile? Un ulteriore omaggio autosacrificale alle novecentesche filosofie del negativo? Una dismissione dell’ottimismo della volontà? Nient’affatto. Chi conosce la poesia di Davide Rondoni, ne conosce contestualmente la vitalità -fino al vitalismo più cocciuto- che attraversa il suo universo poetico, la sua visione del mondo; ne conosce il “cuore”, tanto che la stessa parola “cuore”, mondata dalle melense e patetiche incrostazioni a cui canzonette e soap opere l’hanno esposta, è la più ricorrente di questa silloge; sa quanto sangue, anima, respiro, ha da mettere in campo prima che sia decretata l’ultima parola. Una parola tragica certo, ma non fragile, non disarmata, anzi. Rondoni le sente “le scapole in fiamme”, “nella schiena…il fuoco/di ali bruciate”, ma non recita mai il requiem dell’uomo battuto, dell’ inetto alla vita; egli sa fino alla fede più viscerale, che all’ombra si oppone l’incoercibile luce, al male il “cuore” che pulsa ostinato, all’orrore il sublime che coglie inaspettato; sa che deve “cercare la tortora/ di fuoco, il doppio sguardo//mirare/a una felicità micidiale.//E non temere il crepacuore.”.
E se doppio sguardo, felicità micidiale, l’ “irripetibile bellezza” di una ragazza seduta sul ciglio di una strada di Roma, la dea americana incontrata per caso e che svanisce fra la 103 e la 86 della linea rossa A di New York, la violenta allegria di Lilì (una giovane donna brasiliana), non dovessero bastare a dire questo straordinario prodigio che è vivere il mondo e nel mondo, lo stare quaggiù dove lo “schianto” è sempre possibile, è esperienza irripetibile eppure sempre ripetibile, e dove -sincronicamente, a volerlo credere- è persino “annunciazione” nel suo alto significato religioso; allora non rimane che un’ ultima raccomandazione, un ammaestramento terminale, il fondo estremo di una preghiera colma di fede: “è stato tutto così il tuo breve/tempo nell’universo//hai amato, ti sei/perso, ma ti ha artigliato Dio.”. E Davide a Dio ci crede, così come crede all’Uomo, alla Terra, al Creato, che neppure per un momento rinnega, nemmeno quando Dio assume il volto di pietra di tanti compagni di fede che Dio l’hanno posto sulle labbra ma non nel loro cuore. Che di certo non è il cuore grande e umanissimo di Davide. Della poesia di Davide. Rondoni.
***
Il rischio è cominciare da vivi
il viaggio dei morti.
Ma si era detto: andiamo, e
si poteva andare, se vuol dire
qualcosa, solo da quella parte.
La morte circonda la vita
ma è come una giostra rotta.
Non si tratta di avere molto coraggio
né di essere saggi. Ma cercare la tortora
di fuoco, il doppio sguardo
mirare
a una felicità micidiale.
E non temere il crepacuore.