La società dello spettacolo, editoriale di Emanuela Rambaldi
Procreare è un’abitudine antica quanto il mondo. Lo si fa da sempre. Per istinto di sopravvivenza, per perpetuare la specie Per necessità. Per convenzione, perché è così che si fa. Per caso, per errore, per desiderio. A volte non accade. In altre epoche, in altre latitudini si trattava di destino. Oggi si tratta di scelte. Ed è una conquista.
Ma per il mercato ogni desiderio è merce. Ed è qui che termina la libertà. Quando essere madri e padri diventa un bisogno la cui negazione è inaccettabile, quando è attraverso l’essere genitori che si realizza l’essere, in una società che mercifica anche la natura.
Quando del desiderio si impadronisce il mercato, si diventa consumatori. E se le regole le detta il mercato, si tratta sempre di possibilità economiche. Fanno la differenza tra la realizzazione di un sogno e la sua frustrazione.
Ogni parto è uno spettacolo. Ogni bambino un affare.
Libri, programmi TV, reality show, corsi pre e post parto, massaggi, musica, moderni sciamani conducono uomini e donne verso la piena consapevolezza dell’essere genitori.
La nascita è sicuramente la più potente delle simbologie. Ci rende simili agli dei. La trasformazione di un fatto biologico in atto culturale.
Per vendere, per creare audience, nella società della rappresentazione, ogni nascita deve essere speciale. Ogni genitore unico.
E dato che bisogna essere adeguati, bisogna prepararsi. E per essere pronto, ogni genitore deve rincorrere l’immagine che il consumismo gli ha ritagliato addosso. Per aderirvi, perché la sua prole vi aderisca, per curarsi dalle piccole sbavature della mediocrità, basta procedere con gli acquisti. Il mercato è pieno di soluzioni.
Nessuno che parli di quanto sia normale la nascita, di come sia il fatto più naturale del mondo, di come non ci sia niente di assoluto, neppure la maternità e la paternità. Nessuno lo fa perché ci riporterebbe alla finitezza, alla coscienza dei limiti. In poche parole, all’essere mortali.
Nessuno che dica cosa sia il pensiero di essere responsabili di un’altra vita di cui prendersi cura, una vita da proteggere. Un concetto così spaventoso che non si sa se assomigli di più alla felicità o alla disperazione.
Nessuno che sveli come essere genitori non metta al riparo. Non salvi i rapporti. Di come, la famiglia sia spesso un luogo rischioso. E la pazzia, semmai, venga alla luce, una volta per tutte.
Nessuno che dica di come bisognerebbe reimparare ad essere donne e uomini e persone e poi, solo dopo, madri e padri.
Perché non ci si realizza attraverso i figli ma solo attraverso se stessi.
Questo numero è dedicato alle madri e ai padri che, nel mondo, cercano i loro figli scomparsi, i loro figli trucidati. O almeno la verità su di loro.
Si chiamino essi Angel, Raul. O Giulio.
La famiglia è un luogo pericolosissimo e le immagini tratte da ” Shining” sono appropriate. La famiglia è attraversata da onde mitico-simboliche ben più pericolose di quelle elettromagnetiche. Bisognerebbe cercare di scrostare i ruoli familiari da tutte le stratificazioni che si sono accumulati nella storia o almeno in quella borghese e neoborghese. Sono le famiglie senza speranza di Cechov, di Strindberg sino all’irrisione disperata al di là del tempo dei nuclei disarticolati di Beckett. Padre, madre, figlio sono parole che mi hanno sempre preoccupato e fatto paura. E’ sul loro istituto che prolifera l’industria del consumismo e dello spettacolo: o famigliole felici che sorridono di fronte ai beni più assurdi e futili, o famiglie che si sfasciano nel dolore delle relazioni viscerali. Essere genitore non dovrebbe prevedere più che altro un richiamo forte alla riproduzione, alla generazione di vita, rinunciando a qualsiasi altra pianificazione, ad ogni altro gioco di ruolo? Stare insieme da generatori e da generati deve per forza precludere ad una consacrazione sociale ? Non si può far prevalere il biologico? Non si può stare insieme solo perché si ritrova nell’altro consonanza, fiducia, stesso sguardo, stessa strada, non ci si può voler bene nel flusso della vita rinunciando all’istituzionalità del paterno, del materno e del filiale? Il possesso dei sentimenti si rispecchia oggi nel possesso dei beni e degli oggetti. Il più grande sforzo di educazione alla differenza dovrebbe iniziare paradossalmente proprio dalla famiglia.
Sono completamente d’accordo.
E’ la minaccia dei sistemi chiusi, luoghi di tensioni e pulsioni dove tutto può accadere senza che trapeli all’esterno.
Con l’aggravante che, dall’esterno, il consumismo impone a quel sistema modelli che ne aumentano le pressioni, fino a che la famiglia, semplicemente, implode.
Se la rivoluzione è prima di tutto libertà dagli schemi, deve per forza cominciare da un modo diverso di essere madri, padri, figli.
Emanuela