STAZIONE FINLANDIA, di Luca Mozzachiodi

STAZIONE FINLANDIA: due parole sul comunismo ieri e oggi, di Luca Mozzachiodi.

    

    

La stazione di Pietrogrado che riceveva i treni in arrivo dalla Finlandia è il luogo della scena culminante del libro To the Finland Station: A Study in the Writing and Acting of History (1940) di Edmund Wilson, conosciuto in Italia come Stazione Finlandia[1], uno studio storico certo, di storia della cultura, ma anche quasi una sorta di grande romanzo del socialismo tra la Rivoluzione Francese e quella Russa, scritto attraverso il racconto dei protagonisti intellettuali e politici di quelle temperie: da Michelet a Marx, da Bakunin a Lenin e Trockij. La scena in questione è appunto l’arrivo di Lenin sul famoso vagone piombato del treno speciale che lo riportò in Russia attraverso la Germania alla vigilia della Rivoluzione. Si tratta, a maggior ragione se ricordiamo che Wilson pubblica il libro nel 1940, nel momento più buio della storia d’Europa con la vittoria dell’Asse che pareva imminente, di un grande racconto di speranza e di un saggio che afferma una verità non evidente: la storia procede a volte per sussulti e accelerazioni improvvise.

In quella fine sta però anche un inizio che Wilson non racconta e che forse toccherà a noi scrivere, è l’inizio delle società socialiste come realtà storica, l’Unione Sovietica prima di tutte, ma poi l’est Europa e la Cina, Cuba, il Vietnam, l’Africa sollevatasi contro la colonizzazione, il Cile, il Nicaragua, il Venezuela; se volessimo dunque, come su un accelerato in viaggio, continuare questo romanzo vedremmo un altro treno avanzare tra la neve e i colpi di cannone, il treno di Trockij, fondatore dell’Armata Rossa e suo condottiero durante la Guerra Civile e poi ancora un altro treno e un’altra Guerra Civile, nella povera e polverosa Spagna che i volontari delle Brigate internazionali si trovarono di fronte scendendo dai vagoni e ancora un andare e venire di treni verso l’Austria, la Germania, la Polonia e stazioni dove scendono impauriti e malmessi i prigionieri dell’Europa intera, almeno fino a che una bandiera già nota alle pagine più vecchie di questa storia non sventoli alta su Reichstag.

Vedremmo però anche treni per la Siberia, e autocarri per l’Ungheria e la Cecoslovacchia e li vedremmo proprio mentre scorgiamo a dorso di mulo o sul carro venire uomini verso le montagne del Sichuan o un treno carico di uomini a Santa Clara, fermato da un giovane che impareremo ad amare e la cui vita compendieremo tra uno scatto di Capa e un anonimo corpo disteso per lungo come un Cristo del Mantegna, il tutto mentre folle di studenti e operai manifestano per le strade di Parigi e gli operai di Danzica, i minatori scozzesi, i combattenti algerini e poi quelli angolani decidono in nome dei diritti del lavoro e della libertà di non fare arrivare i treni in orario o di non farli proprio arrivare, senza sapere che l’umorismo della storia avrebbe, negli adagia futuri, dato loro più di una ragione.

Venendo a casa nostra certamente vedremmo l’Italicus saltare in aria e la stazione di Bologna schiantare al suolo tra macerie e feriti, non sapremo, diciamo, chi e perché ma sapremo che in questa nostro romanzo anche quella era la mano dei nemici. Avvicinandoci ai capitoli conclusivi vedremo lentamente deporre le armi dopo il Tet, l’Afghanistan, Grenada, il Nicaragua, e osserveremo stupiti treni che vanno da Dresda ad Amburgo; infine, proprio vicino a dove tutto era cominciato, nella città che nel frattempo aveva preso il nome del rivoluzionario disceso dal vagone piombato, vedremo un incrociatore ammainare la bandiera rossa e innalzare il vecchio tricolore zarista.

Ecco tracciate le linee di questa ipotetica prosecuzione, davvero ci sarebbe da pensare che le promesse della prima parte siano in buona parte incompiute e che all’aurora abbia fatto seguito un sordido crepuscolo, ma che ne è della notte? È passato un quarto di secolo da quel cambio di bandiera e molti, incluso chi scrive, non l’hanno mai visto nemmeno in televisione eppure alcuni continuano a voler dire le stesse parole di un tempo.

Come spesso capita in compagnia si ride di tutte le cose serie e si prendono molto seriamente tutte le cose da ridere, è anche un’elementare forma di difesa contro la solitudine che le scelte serie impongono, quando un uomo decide di essere a favore o contro qualcosa, cioè un determinato modo di darsi della realtà, è sempre solo nell’atto di decidere. Così coloro che ancora scelgono il campo della rivoluzione sono sempre oggetto di un qualche scherno, simile a quello che si attirano i bonari vecchietti vestiti da granatieri imperiali che si dichiarano alle telecamere bonapartisti e vittorhughiani, e frequentemente non hanno possibilità di sostenere una reale conversazione con interlocutori troppo preoccupati di confermare i loro pregiudizi da sceneggiato Rai sul comunismo o vengono presi sottobraccio da quelli che, guardando lo stesso sceneggiato, tifavano per l’altra parte e li credono dei loro quando, manzonianamente, dicono di aver capito e in realtà non hanno capito niente.

Non è però tutta colpa loro, per venticinque anni da quando è finito il nostro romanzo si è attivata una pratica quasi scientifica di rimozione di tutto quell’arsenale di pensiero e di quell’universo di rappresentazione del quale Stazione Finlandia narrava la nascita eroica e l’avventuroso sviluppo. Sui posti di lavoro, nei programmi televisivi e nei film, sui giornali e nelle politiche editoriali, nelle scuole e nei libri di testo, nei calendari civili, è sparito accuratamente ogni riferimento o traccia di continuità con gli ideali del comunismo e del socialismo, il marxismo arretra negli studi culturali ridotto a mero intuizionismo sociologico, in tutta questa impressionante politica di rimozione deve pur essere sembrato plausibile a qualcuno, come fu più volte suggerito da Berlusconi, che in fondo in fondo i comunisti si fossero trincerati nelle procure e nei tribunali o che fossero, ormai ridotti alla disoccupazione, andati a fare una lunga vacanza a spese altrui in assolati paesi mediterranei.

Religione di profeti barbuti per alcuni, sistema dittatoriale per altri, buon senso borghese, moralità, immoralità, desiderio di giustizia o di vendetta, critica del perbenismo, perbenismo (mi è capitato di sentire che un tale non avrebbe potuto essere comunista avendo un’amante), attenta analisi economica o frutto di pressappochismo, è difficile pensare a quale concetto oltre il comunismo riunisca in sé la coincidentia oppositorum che tradisce la più perfetta e collettiva ignoranza circa un argomento. Oggi la rivoluzione è sbraitare in un teatro o attaccare un foglio al muro, o anche pulire un muro sporco e in questa nebulosa il pauperismo e la facile pietà paiono i più sicuri certificati di autentica militanza rivoluzionaria, ma quanto è infelice il secolo che scambia le rivolte, che hanno bisogno della repressione per compiere il loro senso, con le rivoluzioni!

Al meglio che possa capitare, quando si parla o si scrive di comunismo, viene in fretta improvvisato un tribunale speciale, e dico speciale perché funziona esattamente al contrario di un tribunale inquisitori tradizionale: si tratta di un tribunale di eterodossia nel quale l’imputato viene interrogato e ogni sua affermazione viene attentamente vagliata alla ricerca di una contraddizione che lo assolva, del tradimento che scagiona dalla pericolosa colpa dell’ortodossia marxista, magari anche per un singolo concetto, un solo elemento del quadro e per i più recidivi c’è al limite l’infermità mentale, oggi, parafrasando un famoso verso, non si può essere un comunista normale.

Bisogna però fare alcune distinzioni, si è forse troppo poco tenuto conto, anche nella riflessione marxista, dell’avvicendarsi delle generazioni, in realtà però, anche in virtù delle diverse esperienze di vita che sono diversi orizzonti di storia si avverte, e non dico, com’è ovvio, sul piano teoretico, ma su quello ideale e collettivo una profonda differenza tra il comunismo dei nonni, che è più o meno quello in bianco e nero dei treni e delle stazioni ricordato prima, il comunismo dei padri e quello dei figli oggi.

Il comunismo dei padri è una rievocazione nostalgica della loro gioventù, oppure la riproposizione perpetua di prassi fallimentari, ma che sono ormai entrate a far parte di una sorta di ontologia della persona e rappresentano l’unico termine conosciuto di relazione tra individuo e mondo, vedi almeno per mio conto le continue aggregazioni elettorali nate per essere sconfitte e frustrare le già magre forze a disposizione; fossero tutte qui le sue forme però non sarebbe un gran male, assai più insidiose sono le ritrattazioni, i rinsavimenti della mezza età e della posizione sociale raggiunta o il cinismo disinteressato a storia e politica con il rassicurante oblio al quale si abbandonano troppe delle verità che si sono credute o almeno sapute e viste in un altro tempo della vita. La più definitiva vittoria del nemico sta nell’aver reso il padre uguale al figlio nell’eterno presente e nella incapacità, che fu delle generazioni precedenti, di tramandare ideali, valori, conoscenze e significati della lotta per il socialismo ai propri figli, questo è, e non c’è altro termine per definirlo, il tradimento consumato ai danni della nostra generazione.

Il comunismo dei figli è, naturalmente, figlio di quello dei padri, ha istanze ribellistiche che hanno perso la loro già piccola forza eversiva per divenire mera ritualità: si vedono giovani del 2016 che ripetono le stesse parole d’ordine di cinquanta anni fa e vanno a formare quella ricca e variegata area di devianza orgogliosa di sé e quindi orgogliosa dello status quo, che è il palcoscenico grigio sul quale, in grazia del cielo, possono spiccare le arlecchinate. L’ultima generazione ha, avendone persa la dimensione storico sociale, completamente spiritualizzato o intellettualizzato il comunismo, così che da una parte vi sono quelli che, a fronte di padri che non si dichiarano più comunisti perché manca una concreta forza storica, percependo per loro stessi la forza storica come un unicorno blu intendono il comunismo come tensione al futuro attraverso l’azione presente, e in questo c’è più che un’ombra di messianismo rivoluzionario, e dall’altra stanno alcuni che con attitudine professorale concepiscono più o meno scopertamente il comunismo come un complesso di nozioni assimilabile con una buona bibliografia e un quadro interpretativo; costoro introiettano e attribuiscono alla loro funzione intellettuale lo stesso messianismo che gli altri pongono oltre la loro esistenza, sotto sotto i comunisti sono per loro solo quelli che leggono Marx, in tedesco naturalmente, e riesce davvero difficile immaginare come possano costituire la risorsa di un movimento di lavoratori verso i quali nutrono un intrinseco disprezzo, o al massimo un atteggiamento paternalistico.

È ben difficile immaginare dunque la prossima stazione del comunismo, accade forse oggi come in certi treni che cambiano codice identificativo nel percorso ma proseguono la tratta ed è probabile che l’ultima generazione tra qualche anno debba porsi in trincea combattendo sotto un nome diverso e diversa bandiera per conquistare la stessa posizione. Arriva un momento nella storia degli uomini in cui coloro che vengono dopo devono proseguire la lotta per ciò che coloro che sono venuti prima chiamavano con un altro nome.

Parla dunque uno che già troppo si è tradito parlando per sé di comunismo e a quelli che come me lo considerano una realtà irrinunciabile non posso che dire, se avete a cuore che le idee per le quali militate siano comprese, diffuse e raccolte parlate per riflessi ed enigmi e sarete sostegni migliori e darete più forza alla lotta futura. Occorre però tenere a mente, in questa nuova ora della storia che capovolge sinistramente molti dei significati che parevano certi, i versi che Miłosz scriveva nel ’46 parlando dei nemici allora appena sconfitti.

«Non menzionare la forza, per non essere sospettato
di professare in segreto dottrine fallite.».[2]

__________________________________________

[1] Così la definitiva edizione Rizzoli del 1974
[2] Da Ragazzo d’Europa in Poesie, Milano, Adelphi, 2009

                              

rosso 14-44x34.rimpianto-2006_risultato

One thought on “STAZIONE FINLANDIA, di Luca Mozzachiodi”

  1. complimenti all’autore : un’analisi accuratissima
    e dettagliata che ripercorre sentieri comuni a coloro
    che hanno sognato, sperato treni e rivoluzioni

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.

Dal 1 Febbraio 2023
il numero di VERSANTE RIPIDO con tema:
"RUMORE BIANCO - L'ILLUSIONE DELL'INFORMAZIONE"
    
IN VERSIONE CARTACEA
È DISPONIBILE PER L'ACQUISTO