Stranieri – cosa possono fare i poeti? editoriale di Maria Grazia Calandrone

Stranieri – cosa possono fare i poeti? editoriale di Maria Grazia Calandrone.

    

     

I poeti, a mio parere, possono e devono smetterla di fare l’arte per l’arte, non è più tempo: il mondo chiama, la realtà s’impone. La geografia del mondo sta cambiando sotto i nostri occhi e la poesia deve cambiare di conseguenza. Sul concetto di “straniero”, “estraneo”, “diverso”, la prima e la terza delle poesie che vi propongo in questo stesso numero di Versante ripido risponderanno meglio di qualunque mia prosa.

Approfitto di questa prima affermazione per affermare un secondo pensiero, che può sembrare una provocazione, ma non lo è: la poesia si capisce meglio della prosa, al contrario di quello che si pensa, perché ci raggiunge più immediatamente e più in profondità, adopera nello stesso tempo molti canali di comunicazione: la musica, il rapimento emotivo e, insieme, il lusso di una doppia intelligenza, etimologica e dotta insieme.
I poeti producono questo effetto multiplo avvalendosi del silenzio e dei salti logici, mentre la prosa, per come comunemente la intendiamo, non suggestiona ma racconta, dunque lavora sulla consequenzialità del pensiero e del pensiero sintattico. Il pensiero poetico, anche quello espresso in forma argomentativa filosofica, è comunque pensiero cantato e circondato da un luogo muto, l’aria messa nel bianco intorno alle parole.

Se è vero che i poeti sono creature sensibili, al mondo contemporaneo non basta che dedichino la propria sensibilità esclusivamente alla lingua – non basta che siano i custodi dell’identità linguistica del paese, anche perché l’identità linguistica del paese è prossima a cambiare: secondo i demografi, alla fine del Secolo Ventunesimo tutto il mondo sarà abitato da cittadini creoli, proprio come avvenne nell’Alto Medioevo, l’epoca “devastata dai barbari”, dalla quale, però, è nata l’Europa.
Ora siamo in un nuovo mutamento epocale e sarebbe utilissimo al mondo se tutti ci mostrassimo disponibili a formare una coscienza mondialista, se ci preparassimo con serenità al meticciato, della lingua e del sangue (ammesso che tra lingua e sangue ci sia differenza).
Mescolarsi non significa perdere la propria identità, significa aumentarla, aggiungere qualcosa a quello che già si è, come avviene ogni volta che si impara.

Riporto, a questo proposito, le parole della scrittrice somalo-italiana Ùbax Cristina Àli Fàrah che, nella sua breve introduzione ai propri testi, descrive con parole illuminanti la confluenza di esperienza e suono nella lingua adottata, l’italiano:
“Scrivere e utilizzare l’italiano nel tentativo di conciliare un linguaggio solamente letto con le sonorità e le strutture del somalo, è stato un reiventarmi un mondo al quale sentivo finalmente di appartenere, un riappropriarmi di tutto ciò che nella realtà non poteva coesistere…”

Far confluire in sé i molti aspetti della propria vita, dunque, attraverso la scelta della lingua nella quale scrivere. Un’operazione che ha a che fare con la cosiddetta realtà e con la nostra propria biologia.

E infine: in quanto partecipante al progetto “La Frontiera”, ideato da Elena Stancanelli e Alessandro Leogrande, e come componente dell’Associazione “Piccoli Maestri” (lettori volontari di libri altrui nelle scuole), ho posto alla linguista Valeria Della Valle una domanda a proposito della prossima possibile contaminazione del nostro italiano, che provocatoriamente definivo “asfittico e letterario”, con le lingue arabe e africane – e la domanda ha indotto Della Valle a una riflessione utilissima a tutti: a parte “kebab”, tutte le parole arabe che sono entrate nel suo e nel nostro uso (“jihad”, “burqa”), sono parole negative.
Questo processo va radicalmente invertito.

           

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Misericordia – opera di Maurizio Caruso

7 thoughts on “Stranieri – cosa possono fare i poeti? editoriale di Maria Grazia Calandrone”

  1. Osservazioni importantissime e illuminanti che condivido in pieno. Da riflettere e tradurre in attività scrittoria. Grazie per aver ribadito con fermezza e chiarezza il nostro compito. Un caro saluto e complimenti!

  2. Benché il rapporto fra tradizione e innovazione in poesia sia probabilmente più complesso (cioè non riducibile a una semplice propensione al meticciato) sono sostanzialmente d’accordo con le osservazioni di M.G. Calandrone. Con un ulteriore distinguo: il linguaggio poetico oltre a essere intrinsecamente “cantato” è anche “danzato”. Cioè contiene in sé indicazioni agogiche per la eventuale, indispensabile performance.

  3. Molto interessante. Personalmente ho dei dubbi sul pensiero che apre l’articolo: “i poeti devono smetterla di fare arte per l’arte”. Non mi convince l’idea di fare arte per uno “scopo”, sia pure una causa importante.

    1. Paolo, comprendo la sua obiezione. La mia è una provocazione, ma sincera. Credo che, almeno per qualche tempo, finché non saremo tornati a sentirci una società, il compito dei poeti sia quello di intervenire affinché, appunto, la società si riformi. Poi, potremo tornare alle nostre scrivanie

  4. Complimenti per l’inziativa che appoggio come poeta e cittadino e che mi piacerebbe sostenere!
    Visto che avete citato il Medioevo, sarebbe bene segnalare che sono 1000 anni che sono stati spazzati via dalle nostre scuole (non a caso quest’anno è uscito ancora Aristotele) da una cultura tecnocratica e ovviamente anti-cristiana il cui prodotto “migliore” è il governo a cui assistiamo inebetiti.

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