Stranieri. Riflessioni di Francesco Sassetto.
La proposta di scrivere sul tema “RESISTERE” mi ha affascinato e intimorito al tempo stesso. L’intenzione poi di proporre qualche riflessione sugli “stranieri”, frutto della mia esperienza di insegnante di italiano agli immigrati ha accresciuto il mio timore di cadere nel banale o nel patetico, o di ripetere cose arcinote. L’argomento è tuttavia di tale importanza che accetto volentieri di correre questo rischio.
Molta poesia contemporanea, in verità, si sta occupando degli immigrati (mi piace ricordare, a titolo d’esempio, lo splendido libro di Erri de Luca Solo andata), e le migrazioni di massa hanno avuto anche in passato l’attenzione dei poeti, specie quando furono gli italiani ad emigrare (ne hanno scritto, com’è noto, Pascoli, Campana, De Amicis, Rodari, Pasolini e molti altri, nei modi più vari, dedicando a tale tragedia versi animati da un commosso filantropismo o, al contrario, da pulsioni ideologiche di stampo nazionalistico). Dico subito questo perché credo che il pericolo maggiore si annidi proprio nella visione ideologica – di qualsiasi natura – o comunque “politica” del fenomeno, facilmente strumentalizzabile e riducibile a generiche, superficiali spiegazioni e “soluzioni”, senza un reale interesse per la comprensione di esso, per la conoscenza della sua complessità.
Compito della poesia penso sia esattamente l’opposto. Il poeta dovrebbe innanzitutto essere “sentinella”, come ci ha più volte indicato il compianto Gianmario Lucini, farsi “vedetta” attenta e sensibile ai drammi del tempo in cui vive. E sull’immigrazione odierna ho la fortuna di poter dire da un “osservatorio” privilegiato, dato che da tre anni insegno italiano, storia e geografia a stranieri
di ogni età e paese presso il Ctp (Centro Territoriale permanente per l’Educazione in età adulta) di Mestre, strutture istituite nel 1997 per il conseguimento della Licenza Media attraverso un percorso abbreviato. E gli immigrati, provenienti da vari Paesi europei, africani ed asiatici ed appartenenti a diverse culture, etnie, religioni, costituiscono oggi più del 90% dell’utenza dei Ctp.
Vivendo quotidianamente il rapporto con lo “straniero” ho modo di toccarne “con mano” la difficoltà e complessità. E cercare di fare ciò che posso fare, cioè scrivere poesia. Poesia – la si voglia chiamare civile o in altro modo poco importa – che deve muoversi con estrema cautela, evitando i pericoli di cui dicevo all’inizio, che, soprattutto, non deve giudicare e nemmeno “spiegare” . Suo compito è, a mio avviso, osservare, testimoniare, raccontare ciò che vede e vive giorno dopo giorno. Deve tentare di ridestare coscienze assopite e rimbambite dal menefreghismo e dall’opportunismo idiota e superficiale dispensato dai massmedia, risvegliarle da una sorta di ottundimento della sensibilità in cui rischiamo tutti di cadere ed, al tempo stesso, mostrare l’inconsistenza, la superficialità, la vuotezza dei molti stereotipi, dei luoghi comuni, dei pregiudizi attraverso le quali lo “straniero” è spesso visto e giudicato. E’ proprio qui che la poesia può far sentire la propria forza, ed alzare la voce. E’ in questa tensione che può diventare strumento per “RESISTERE”, opponendo la propria capacità di verità, di umanità, di pietas, di reale attenzione alla superficialità cialtrona e colpevole che purtroppo oggi sembra impregnare l’aria stessa che respiriamo.
I testi che propongo in un separato articolo in questo stesso numero sono nati proprio da tale esperienza e sono tratti da una mia raccolta omonima che verrà pubblicata da Valentina editrice a cura dell’amico Stefano Valentini.
Queste poesie costituiscono quindi il tentativo di esprimere in versi aspetti e momenti – anche contrastanti, stridenti e contradditori – di quella che a me appare la problematica realtà del fenomeno migratorio in atto, destinato inevitabilmente a crescere nel prossimo futuro.
Cosa può fare un poeta se non farlo conoscere e porre implicitamente delle domande? Non è anche questo un modo per essere presente, intervenire, “resistere” alle diverse spinte che provengono da più parti su tale drammatico problema? Resistere alla demagogia dell’accoglienza indiscriminata, al buonismo a buon mercato che evita di affrontare veramente il fenomeno, di costruire un progetto – certamente assai difficile ma necessario – di intervento e gestione, come pure resistere agli atteggiamenti e comportamenti di chiusura egoistica e preconcetta, agli sterili slogan del “paroni a casa nostra”?
In tre anni ho visto e ascoltato decine e decine di vicende, ho intessuto rapporti profondi e vissuto situazioni difficili, tensioni, scontri verbali e persino risse tra studenti di diversi paesi o etnìe (con conseguente intervento della polizia, interrogatori, stesura di verbali ecc.). Ho pensato che il mio compito primo fosse quello di costruire relazioni e, quindi, ascoltare, discutere, meditare con loro sulle loro esperienze e la loro condizione presente, la loro vita fatta di tragedie e speranze, burocrazia spesso insensata e incomprensibile, sfruttamento lavorativo, solitudini e nostalgie, ma anche coraggio, sogni, volontà di resistere, continuare nella ricerca di un’esistenza migliore. Ho vissuto le molte contraddizioni, le loro finzioni, le furbizie, le intolleranze etniche, culturali e religiose, le loro prepotenze e le loro fragilità.
Mi sono quotidianamente confrontato con le cosiddette “diversità” culturali, a volte davvero inaccettabili per noi europei, figli dell’Illuminismo, impastati delle idee di libertà e uguaglianza delle persone. La mentalità islamica – anche se “moderata” ed estranea all’integralismo – è tuttavia in netto contrasto con la cultura occidentale che non può ammettere la pressochè totale subordinazione della donna alle figure maschili, una donna che non può fare nulla, nemmeno parlare, se non previo assenso del padre o del marito.
Ho soprattutto, ripeto, ascoltato molte storie e scritto dei versi su di esse, sperando di riuscire a trasmettere esperienze e sentimenti profondamente umani, a svelare e dare una voce a crepe, ferite, abissi e silenzi. Storie che raccontano difficoltà e durezze della loro vita quotidiana, ma anche furbizie, aggressività e violenze, una realtà multiforme, magmatica, che suscita commozione e compassione (nel senso etimologico), ma anche sdegno e rifiuto. Ho voluto mettere in guardia dalla riluttanza – antico vizio italiano spesso causa di successive catastrofi – della classe politica a prendere decisioni ed assumersi responsabilità, in genere ben più propensa a discutibili e pilatesche concessioni in nome di un’astratta e fumosa “integrazione”, più facile da invocare che da saper e voler concretamente realizzare.
Ho cercato di trasmettere emozioni attraverso poesie che scuotano, che spingano a pensare, ad accendere reazioni e riflessioni, senza temere di dire cose sgradite, senza alcun ossequio al politically correct. Perché credo sia questo un dovere della poesia. Esporsi, rischiare, essere voce “fuori dal coro” che non cerca ad ogni costo l’approvazione, il consenso, l’applauso.
E possa essere, in questo senso, buona poesia. O, almeno, una poesia onesta.