Straniero tu che non mi accogli l’anima, di Marisa Cecchetti.
da Straniero tu che non mi accogli l’anima, ed. Del Cerro 2004
I
Profumava di bosco la tua strada
nella sera mite
di mezz’estate e c’era
tua figlia ad aspettarci sulla porta
un po’ più scesa della strada,
contenuta nel gesto e la postura,
ma esplosiva negli occhi e nel sorriso.
II
In casa tua si apre sull’ingresso
la cucina e, piccolo, a divani
il salotto dalla parte opposta.
C’erano scarpe sulla soglia
e zoccoletti estivi, abbiamo fatto il gesto
di sfilare anche i nostri,
ma tu hai sorriso ed hai fermato il gesto.
Gli adulti erano in cerchio sui divani
una nipote dai capelli biondi,
piccola, zizzagava tra la mamma
e le ignote presenze, gli altri, i tuoi ragazzi
alla TV, in cucina.
III
Ti sei raccolto nella tua poltrona
incrociando le gambe, era il tuo viso
di cartapesta bruna, era il tuo corpo
asciutto di lavoro, erano gli occhi
di ossidiana, era il tuo gesto
corrispondente al cuore, offeso.
IV
Era l’offesa che hai provato quando
ti sei sentito trattare da Albanese,
forse per noncuranza o per nontempo
o insensibilità
italiana, e il tuo era un bisogno
di riscatto, quello che dicevano
le tue mani nervose,
dagli errori di chi ti ha preceduto,
marchio d’appartenenza e di vergogna
da cancellare dalla fronte
dei tuoi figli e la tua.
V
Ho visto l’amarezza in quel momento
nel volto di tua figlia e i suoi occhi
che erano stati guida sulla porta
e il suo sorriso
che aveva rotto il buio della strada,
spenti.
VI
Non ho capito bene o forse
non volevo capire, quando hai detto
delle vacanze vostre in Albania
per rivedere i parenti di tua moglie.
Mi mancano elementi per capire
-ho solo la letteratura e la
cinematografia impegnata-
l’invidia del povero di fronte
a chi è fuggito e poi ritorna
modesto ancora ma con tanti segni
di uno stato diverso che un po’ affranca
e rende
meno feroci.
VII
Ma ho capito l’invidia che si fa serpente
anche nei gruppi dei parenti e attenta
alle altrui sicurezze, mors tua semper.
Ho capito perché ti fa paura
tornare in Albania,
coi ragazzi cresciuti e ben vestiti,
-lo paga il lavoro tirato fino a notte
e le domeniche e ogni giorno festivo
e non esiste il sabato
neanche musulmano-
VIII
Lo paga il silenzio laborioso
della tua compagna
e la fabbrica e l’orto,
lo paga il lavoro dei ragazzi
-e pur lo sai che è diritto, per loro,
il gioco- e ti si allarga il cuore,
quando li vedi ridere e giocare.
Lo pagano le vostre mani
spaccate di fatica.
IX
-Meglio il carcere qui che l’Albania-
mi hai sempre detto – dormire sotto un ponte,
ma non tornare là coi miei figlioli-
E raccontavi che il ritorno breve
per le vacanze deve esser dimesso
e la tua auto
pagata a rate con l’aiuto dei fratelli,
sporca,
per non essere notata
da invidia e da violenza.
X
Brillavano i tuoi occhi d’ossidiana,
ti facevi più piccolo in poltrona
-poltrone vecchie, regalate,
rinnovate dalle mani sapienti
della tua compagna-
come a cercare sicurezza qui
mentre Lei taceva, immobile e maestosa
alle parole del suo uomo
e lacrime scivolavano lente
e laghi d’ombra ormai
gli occhi e il sorriso
di tua figlia.
XI
Vuoi gli studi per lei,
tu cresciuto a leggi inique,
ai rigori della povera gente,
tu che paventi il regime dei rossi
che umiliò le persone e le cose,
tu che paventi l’anarchia del dopo
e il farsi giustizia da soli
tu che sai che è frequente
che un uomo da voi
porti l’arma con sé.
XII
Quel giorno che ci siamo conosciuti
-era alla scuola- poche le parole
del tuo Italiano
tante quelle degli occhi e del cuore
-Non mi vergogno- hai detto
di essere aiutato,
solo il furto è vergogna-
Tu che mi hai rivelato del gommone
e di ciò che si rischia
sapendo di rischiare- vita altrove
o la morte- e delle donne oggetto
dei mercanti e delle rapide
virate e bimbi e madri
buttati a mare, tutti.
XIII
E’ ancora duro il tuo Italiano
ma si dilata il tuo vocabolario
con la speranza
di rimanere qui con il progettosogno
per i tuoi figli. Per te no. Per te e Lei
tu pensi, sicuri altrove i figli,
al tuo rimpatrio –odi et amo-
e di morire insieme a Lei
ma con Lei sempre.
XIV
Mia figlia era piegata
sopra le tue parole, avrei potuto
contarne i battiti del cuore
tumultuato ed impotente insieme,
capace solo di ascoltare ed essere.
E lei ti ha offerto le parole chiare
e piane e sorridenti e blande
come carezze sopra una ferita.
XV
Ho servito il gelato che ho comprato
per strada, dove so che è più buono,
ma la crema e il cacao e i frutti tutti
dell’estate
erano polvere
sulle tue ferite.
XVI
Per fortuna, tornati sulla strada
che profuma di muschio,
quella che corre accanto alla villa
con parco e le fontane,
per fortuna ci ha raggiunto
la risata di mia figlia e la tua,
risate buone,
vicine e complici e sorelle
con tante cose
da raccontarsi,
risate giovani
come si dev’essere
sempre nel cuore.