Sulla buona poesia, ancora. Appunti per una lettura del testo poetico come immagine fotografica. Di Francesco Sassetto.
Questo intervento vuole essere il tentativo di ampliare e precisare una mia nota di commento al bell’articolo di Daniele Barbieri “La buona poesia, per noi” apparso nel numero di Settembre 2013 di “Versante Ripido”. Daniele, di fronte al problema di stabilire cosa sia una buona poesia – problema assai arduo e forse irrisolvibile – concludeva che per lui buona poesia è quella che regge a letture e riletture, che emoziona e commuove anche a distanza di anni, accende o riaccende emozioni e passioni. Insomma, la ”tenuta” di un testo poetico nel tempo gli sembrava la garanzia migliore per decidere la bontà o meno di una poesia, metro di giudizio, questo, che condivido pienamente e ritengo tanto valido da applicarlo ad ogni forma d’arte. Un quadro di Van Gogh, anche se lo guardo (in riproduzione fotografica, purtroppo!) per la centesima volta mi chiude sempre la gola e mi tocca profondamente.
Tuttavia tale criterio è assai soggettivo. E, d’altra parte, criteri “oggettivi” non ne vedo. Assumere a parametro di valutazione di una poesia il suo rispetto o meno delle “regole”, la sua adesione ai tradizionali (ormai inservibili) canoni metrico-stilistici (e linguistici) appare ancora più pericoloso e fuorviante. Ne verrebbe che una poesia scialba, che dice poco o niente, ma corretta dal punto di vista strutturale-formale, sarebbe una buona poesia. E sappiamo tutti, invece, quanti componimenti formalmente perfetti risultino insulsi e vuoti, privi di interesse e di risonanza emotiva. Oppure, al contrario, giudicare una poesia in base ad una sua presunta “originalità”, ad un sua preteso “sperimentalismo” mi sembra altrettanto pericoloso. Abbiamo visto quanti pseudosperimentalismi contemporanei (ché ogni vero poeta comunque “sperimenta”) si risolvono in un facile “giochetto” che maschera un vuoto ideativo (se non una vera e propria incapacità di scrivere versi) e partorisce testi oscuri e indecifrabili, ridicoli nella loro insulsa stramberia.
Volevo, quindi, proporre qui – essendo stato, anni fa, appassionato fotoamatore – di utilizzare anche per il testo poetico alcuni criteri di valutazione in uso nell’analisi e nel giudizio dell’immagine fotografica che consentono, credo, non certo di fornire strumenti infallibili e “oggettivi”, ma almeno di fissare qualche paletto non troppo esile sull’incerta linea di demarcazione tra la buona poesia e quella che tale non è. Nell’analisi di un’immagine si osservano, ad esempio, l’ambientazione, il punto di vista, il centro d’interesse, la sfocatura (intenzionale o no), le linee di costruzione, la morbidezza e/ o il contrasto ecc. Con tali strumenti è abbastanza agevole distinguere un’immagine fortemente espressiva da una debole (e le ragioni di tale debolezza: troppi centri d’interesse, poco contrasto, costruzione piatta, mancanza di punti di forza ecc.), la foto frutto di un lavoro meditato, finalizzato a comunicare un pensiero, un sentimento dallo scatto frettoloso e casuale del dilettante che “spara” a casaccio con la sua digitale (o, orrore, con la tavoletta!).
E’ naturale che non tutte le poesie si prestano a tale genere di analisi (sarebbe ben difficile valutare con tali parametri liriche come: “M’illumino/d’immenso” o altri testi dell’ermetismo o dell’orfismo), ma credo che per gran parte della poesia, antica e moderna, essa possa essere d’aiuto nel formulare un giudizio. I criteri di valutazione della bontà di un testo poetico che ora prenderò a prestito dalla fotografia sono tra loro intrecciati e interagenti e quindi le distinzioni tra l’uno e l’altro non vogliono essere per nulla rigide ma funzionali alla chiarezza del discorso.
Innanzitutto, l’ambientazione, la “geografia” di una poesia, cioè lo spazio e la sua caratterizzazione. L’ambiente è descritto con essenzialità e precisione o rimane vago e generico? Insomma, lo scenario, il fondale è un salotto o una camera da letto? Un discount o una pizzeria? Una città e quale luogo di quella città? Nella Commedia dantesca ad esempio, ogni episodio, ogni incontro, trae vigore e “senso di realtà” proprio dalla costante e attenta costruzione del poeta di un ambiente estremamente preciso e definito, che non costituisce un puro sfondo volto ad “abbellire” o “riempire”, ma, al contrario, è elemento costitutivo e necessario nel connotare, per sintonia o contrasto, il tono ed il senso stesso dell’episodio. E bastano spesso pochi tocchi, poche sicure “pennellate”. Si pensi alla selva dei suicidi, nel canto XIII dell’Inferno, subito descritta da Dante e su cui, più avanti, si accamperà il drammatico racconto di Pier delle Vigne: “ Non fronda verde, ma di color fosco;/non rami schietti, ma nodosi e ’nvolti; / non pomi v’eran, ma stecchi con tosco.” (vv. 4-6) ,. Tutta l’asprezza di quel peccato, la sua innaturalità e la condanna d’esso sono già presenti e tangibili in quel paesaggio desolato e “innaturale”.
Ogni poeta ha dunque a disposizione il linguaggio, il lessico, per costruire una “geografia” robusta che comunichi al lettore un senso di verità e concretezza. E molti poeti hanno scritto testi innovativi proprio agendo sull’allargamento lessicale nella descrizione dell’ambiente, da Dante a Pascoli a Pavese, Pagliarani, Pasolini ecc., spesso introducendo vocaboli prima di loro ritenuti indegni di figurare in poesia, termini d’uso quotidiano, tecnici, gergali, dialettali, per esprimere, già nel tratteggio dell’ambientazione, un pensiero, un sentimento, una visione del mondo. Basti pensare alla precisione lessicale di Montale nel descrivere il paesaggio ligure degli Ossi di seppia dove, ricorrendo ad una terminologia fortemente tecnica ed al riutilizzo di lemmi danteschi, pascoliani e dannunziani, il poeta disegna un ambiente che è già una formidabile metafora esistenziale.
Si potrebbe tuttavia osservare che ciò è valido soprattutto per poesie dove predomina l’elemento descrittivo-narrativo, e ciò in parte è vero, ma solo in parte. Ogni poesia – e su ciò ha giustamente insisitito Barbieri nei suoi saggi – contiene atteggiamenti diversi e tuttavia compresenti, ogni testo poetico fonde, in certo modo, aspetti narrativi, discorsivi, evocativi, argomentativi. E dunque l’ambientazione è sempre molto importante, anche in componimenti fortemente evocativi-allusivi, ed anche dall’efficacia della sua costruzione credo sia legittimo affermare la bontà o meno di una poesia. Nella lirica Lavandare, Pascoli, nei primi tre versi, crea un ambiente indefinito estremamente suggestivo, che poggia su tre elementi precisamente connotati e di immediato impatto visivo: “Nel campo mezzo grigio e mezzo nero/resta un aratro senza buoi che pare/dimenticato, tra il vapor leggero.” Con pochi tocchi, il campo, l’aratro, la nebbiolina, il poeta ha costruito un ambiente tanto concreto quanto metaforico e la grandezza di questa poesia è già tutta, a mio avviso, in questa terzina. Ed ancora, se volessimo, così per scherzo, togliere all’Infinito leopardiano i primi tre-quattro versi e far iniziare la lirica da “Interminati spazi di là da quella…”, sarebbe la stessa cosa? Senza l’”ermo colle” e la “siepe” appare evidente che la poesia si sfilaccerebbe in un impreciso affastellamento di sensazioni astratte, visto che proprio sulla condizione di solitudine e sull’impossibilità di non vedere si fonda tutta la costruzione dell’idillio. A Leopardi sono bastati un colle ed una siepe, un paesaggio appena accennato, ma indispensabile per esprimere poi un paesaggio dell’anima tra i più affascinanti di tutta la letteratura.
Un’ambientazione meditata, ben costruita, coincide con l’assenza (o la massima riduzione) di quelli che, in fotografia, vengono chiamati elementi di disturbo. Tutto ciò che è sovrabbondante, superfluo, che toglie essenzialità ed efficacia e distoglie l’attenzione dal centro di interesse, altro parametro importante nella valutazione dell’immagine, utilmente applicabile anche alla poesia. Va da sé che una fotografia – e un testo poetico – possono avere e spesso hanno più centri di interesse. Tutti sappiamo quanto un tema poetico alluda o evochi quasi sempre anche altro, e proprio nella sua polisemia risiede l’unicità ed il fascino del discorso poetico, ma anche una poesia deve avere, comunque, un “soggetto” centrale, magari apparente o metaforico, ma deve parlare di qualcosa! Anche nel celeberrimo sonetto Tanto gentile e tanto onesta pare, nel quale, benché tutto sia descritto in modo stilizzato e rarefatto, carico di significati allusivi e simbolici, Dante parla – e come ne parla! – di Beatrice che costituisce, è evidente, il principale centro di interesse.
In fotografia, per far risaltare il soggetto dallo sfondo o, al contrario, immergerlo nell’ambiente si utilizza la messa a fuoco, con vari gradi di sfocatura intenzionale: dal “tutto a fuoco” al soggetto che si staglia su di uno sfondo solo accennato e talvolta volutamente illeggibile. Ciò costituisce una scelta precisa a fini espressivi e, proprio dalla perizia della sua realizzazione, ne riesce un risultato valido o una fotografia debole ed incolore. Anche in poesia possiamo ragionare in termini di messa a fuoco, o meglio di scelta precisa e consapevole dell’autore di come e dove “mettere a fuoco” il soggetto, il tema. Nelle poesie pascoliane, ad esempio, vi è un sapiente utilizzo della messa a fuoco e della sfocatura che realizza liriche potenti sul piano visivo e, insieme, evocativo, ma il fuoco c’è sempre, eccome, e lo sfocato è voluto proprio per creare quell’effetto di vago e indistinto, di grande impatto emotivo. Ad esempio, nei versi della poesia prima ricordata, Lavandare, vi è, in termini fotografici, una visuale grandangolare dove ogni elemento è a fuoco, ma il centro di interesse e il punto esatto di messa a fuoco sono sull’”aratro senza buoi” che costituisce il dato ambientale, e metaforico-simbolico, più marcato.
Molte poesie di autori contemporanei peccano, a mio avviso, proprio nella mancanza di una precisa messa a fuoco del centro di interesse: tutto è indistinto, scialbo, non si capisce di cosa l’autore voglia parlare, il componimento è “sfocato” e la sfocatura non intenzionale è un errore e, dunque, il componimento che ne scaturisce è “sbagliato”. Non comunica, non coinvolge, non emoziona.
Mi piace chiudere questa riflessione ricordando una bellissima poesia di un importante autore contemporaneo e caro amico, Paolo Polvani, dove i tre elementi di cui ho discorso, ambientazione, centro di interesse, messa a fuoco, appaiono, invece, pienamente e felicemente realizzati. Si tratta della poesia “Buongiorno”, più volte pubblicata in Antologie e in Rete. Il centro di interesse è Aziz, ingegnere immigrato in Italia dove fa “il lavavetri a un incrocio/ai semafori di via regina Margherita” (vv.2-3), e qui l’ambientazione è già tracciata con un rapido, incisivo riferimento cittadino. Poi Polvani perfeziona progressivamente la messa a fuoco: Aziz è “abituato ai dinieghi…li scorge/oltre i parabrezza…” (vv. 4-5), nessuno sa che, nel suo Paese, è un ingegnere, ma questo “non è scritto/sulla bottiglia con l’acqua e con la schiuma/sul raschiello, sulle mani e nemmeno/sul viso in bilico tra il sorriso e la disperazione.” (vv. 9-12), versi in cui il fuoco è ormai puntato con decisione su quel “viso” sorridente e disperato, immagine di rara forza e intensità, che emoziona e commuove. Il “ritratto ambientato” di Aziz cui nessuno ha mai detto “Buongiorno ingegnere!” (v. 7) è ormai compiuto, senza un filo di retorica né una virgola di troppo, e può chiudersi con uno splendido, amarissimo distico finale: “Però nessuno gli ha neanche detto: Buongiorno Aziz!/A pensarci bene nessuno gli ha mai detto: Buongiorno.”.
L’ha ribloggato su Bugiardino Poetico.
Grazie infinite, Livio!
Questo breve saggio affronta in modo così originale la “poetica” che richiede un po’ di tempo di riflessione. Da tempo non restavo così suggestionata e scossa nelle condizioni per l’poriginale punto di vista.
Grazie, Francvesco
Grazie a te, Fattorina! Se questo mio intervento può essere utile come spunto di riflessione sul fare poetico, sulla “costruzione” di una poesia (chè poi ognuno ha giustamente il proprio modo) non posso che essere più che soddisfatto. Non esistono “regole” rigide nè “ricette” valide per tutti. Io ho proposto un modo, una possibilità. Grazie ancora a tutti!
Davvero interessante e a mio avviso ben riuscita quest’analisi di paragone tra imago e poesia.D’altronde, non si usa dire di una bella poesia che è ricca di immagini?Come ogni buon poeta sa, in fondo la poesia è solo un susseguirsi di flash d’immagini e la bravura consiste, nel saperle riportare sul foglio sotto forma di parole o meglio ancora di lettere armonicamente legate tra loro.