Super flumina Babylonis, editoriale di Luca Mozzachiodi.
Piccola meditazione antropologica di ieri e di oggi.
Questo non è un saggio, non è neanche un racconto, meno che mai è un poema in prosa o una prosa poetica, che è il nome oggi abusato che si dà alla cattiva prosa di chi non sa scrivere buoni versi, questa è una prosa di meditazione, genere che si è perduto assieme all’attitudine a meditare e del quale tracciare una storia e una tradizione sarebbe difficile, viene da pensare che oggi la cosa che gli si avvicina di più siano i mai troppo santificati pensierini delle scuole elementari; servivano, oggi che stanno sparendo lo capisco di più, non ad insegnare a scrivere, ma a dare l’occasione di pensare ai bambini. Forse è dunque giusto partire proprio da lì, dai pensierini di scuola, perché fare un ragionamento sui fiumi significa ragionare, magari a ritroso come faremo o dalla sorgente alla foce, sull’intera civiltà e sulla storia umana, ed è proprio su quei libri stampati con foto a colori e disegni e linee del tempo, parenti strette del fiume nel loro scorrere ordinato concepito dalla nostra cultura occidentale, che abbiamo avuto la prima percezione della storia.
Le civiltà nascono vicino ai fiumi, il Tigri e l’Eufrate eroi del nostro libro immaginario di storia, il Nilo, il Gange, l’Indo e con le civiltà si sviluppano le città, che possono garantirsi acqua in abbondanza, si stratificano e si modellano le strutture sociali, nascono gli istituti politici, le comunità, il senso della proprietà della terra, essenzialmente per ripartire in qualche modo i terreni resi fertili dalle inondazioni fluviali e similmente le religioni; il Nilo ma anche tutti i fiumi toccati dalla civiltà ellenica e molti di quelli della vecchia Gallia, della Germania e delle isole Britanniche oltreché dell’antica India e della Cina erano divinizzati. Il Nilo è però più importante perché in esso fluisce, per così dire, il germe del monoteismo: Faraone e Nilo hanno in alcuni momenti della storia d’Egitto un rapporto spirituale e quasi mistico, quando non addirittura di parentela simbolica, al sovrano spetta intercedere perché il fiume esondi e renda ricco il suolo ristabilendo ancora una volta ordine e prosperità, confermando la vita sulla terra. Ciò che gli uomini vivono con il fiume è infatti una sorta di dramma cosmico, un’attesa del sacro che regola la loro esistenza:
«Non c’è viaggio di barche, non lo si arresta quando avanza, non c’è chi lo diriga.
Lo servono le generazioni dei suoi figli e è salutato come re;
è lui che è saldo di leggi, che esce nel suo tempo,
sicché è inondato l’alto e basso Egitto:
in lui è bevuta l’acqua da ognuno.
E’ lui che dà sovrabbondanza di ogni cosa buona:
chi era triste diventa gioioso e tutti sono lieti.»[1]
Recitano così alcuni versi di un inno in suo onore, ma vale la pena, contro ogni innamoramento poetico e nostalgia del mondo grande e pieno di dei, come Aristotele scrive lo vedesse Talete che secondo la leggenda aveva viaggiato in Egitto e poneva alla radice dell’esistenza naturale l’acqua, ricordare che questo è anzitutto un rapporto di morte, una signoria completa sulla vita, come quella di un sovrano assoluto o di un dio sul suo popolo, e lo specchio di un mondo primitivo in balia della miseria e della fame.
Proprio la vicinanza ai fiumi, la possibilità di sfruttare l’energia idraulica per i mulini, l’irrigazione, l’impulso dato alla prima rivoluzione industriale costituisce uno dei fattori essenziali per uscire da quella antica povertà, l’uomo che umanizza la natura ora umanizza anche i fiumi dopo averli divinizzati, ma nel corso del secolare cammino dell’umanità diverse sono le simbologie fluviali e i mondi che esse evocano: ci sono appunto i fiumi sacri, come detto, e quelli che sono sacri anche oggi, come il Gange, ci sono fiumi mitologici oltremondani, come il Cocito, lo Stige o gli Élivágar, fiumi velenosi che scorrono nei molti mondi della mitologia norrena, e che hanno spesso la funzione di rappresentare un confine tra la vita e la morte, vi sono altri fiumi connessi all’immaginario del confine ma per ragioni storiche, come il Rubicone, il Guadalquivir o in tempi più recenti l’Hudson, il Piave e l’Ebro, tutti questi vengono concepiti essenzialmente in funzione delle opposte sponde, è la terra a dare senso all’acqua, ma ve ne sono altri che più spesso esistono, nella mente degli uomini, come acqua che scorre e bagnando terre anche lontane le apparenta culturalmente e potremmo dire in spirito, sono fiumi come questi il Volga, l’Orinoco, la Moldava, che possiamo sentire scorrere e sbattere sugli argini rocciosi nelle note di Smetana, il Danubio, che ha il suo poeta e cantore in Claudio Magris e che evoca ed informa tutta la cultura mitteleuropea, il Mississippi e il molto più piccolo ma italicamente nobile Arno.
Molti poeti e artisti ci mostrano quanto possa essere radicata e costante negli uomini l’associazione tra un fiume e un popolo, una cultura conscia della propria identità, come questi versi di Manzoni, (che stanno idealmente nel libro delle elementari qualche decina di pagine dopo il Tigri e l’Eufrate)
Chi potrà della gemina Dora,
Della Bormida al Tanaro sposa,
Del Ticino e dell’Orba selvosa
Scerner l’onde confuse nel Po;
Chi stornargli del rapido Mella
E dell’Oglio le miste correnti,
Chi ritorgliergli i mille torrenti
Che la foce dell’Adda versò?
Gli uomini e le loro stirpi si fanno terra e acqua, ancora dopo secoli da quando Serse chiedeva precisamente questo come atto di sottomissione, e ancora nel Novecento Neruda, nella sua grande epopea culturale e fondativa dell’identità Sudamericana, il Canto General, canta i fiumi come forza primordiale generatrice del continente e motrice irrazionale della storia e tra tutti il Rio delle Amazzoni che viene innalzato a rango di fiume originario, come il fiume edenico del libro Genesi dal quale sgorgano i fiumi del mondo inclusi Tigri ed Eufrate. Altro fiume che condivide la riconoscibilità culturale con la potenza generatrice è il Giordano, nel quale si rinasce attraverso il battesimo, un battesimo per acqua che seppure inferiore a quello con il fuoco non è meno essenziale né meno presente nel nostro immaginario e che nel famoso coro verdiano il pensiero dell’esiliato ebreo saluta ancora prima delle torri di Sionne, al risuonare del nome di queste acque al teatro dell’Opera israeliana di Tel-Aviv gli applausi rischiarono di danneggiare la struttura.
Siamo dunque venuti al titolo di questa meditazione che, immedesimandosi con il suo oggetto, scorre con anse e lunghe deviazioni ma lenta e costante. Il dio di Israele pare muovere la storia del suo popolo da un fiume all’altro, comincia sul Nilo, dal quale viene portato alla vita Mosè, il legislatore e la guida verso la terra di Canaan ma anche l’egiziano che uccide l’egiziano, dal seme di una civiltà perita ne nasce un’altra, come dal Nilo trasformato in sangue e dalla morte dei primogeniti incomincia la libertà del popolo di Israele. Nella Bibbia, per dirlo in un modo poco sofisticato ma efficace, possiamo leggere come per mano di Yahweh il Nilo si secchi e il Tigri e l’Eufrate esondino distruttivamente un giorno sì e l’altro pure, ma ben lungi dal trattarsi di un particolare poetico o di un semplice potere di controllo sulla natura è un segno di supremazia divina: Yahweh è il dio più potente (io sono il più forte, e con il vostro dio fiume farò quello che voglio, come voglio, quando voglio, anzi il suo pervertimento sarà l’inizio della realizzazione del mio disegno diremmo noi oggi) e sconfigge divinità inferiori.
Qui debbo chiedere scusa al lettore italiano, per avergli finora propinato niente più che ricordi di scuola e storie bibliche notissime, al quale domando di tenere presente che il destinatario ideale di questo scritto è un cittadino thailandese qualunque che con la nostra cultura ha poca familiarità e magari non avrà mai aperto una Bibbia o letto un libro di storia da cima a fondo, non essendo nato in un paese occidentale, cristiano e storicista nel profondo come la nostra Italia, il lettore italiano, che conosce a fondo la sua tradizione, la geografia e la storia può saltare la parte noiosa, le meditazioni non sono sempre divertenti, all’ultimo paragrafo troverà un apologo brillante che stuzzicherà la sua anima fine.
Eccoci dunque al salmo del titolo, il 137.
- Sui fiumi di Babilonia,
là sedevamo piangendo
al ricordo di Sion. - Ai salici di quella terra
appendemmo le nostre cetre. - Là ci chiedevano parole di canto
coloro che ci avevano deportato,
canzoni di gioia, i nostri oppressori:
«Cantateci i canti di Sion!». - Come cantare i canti del Signore
in terra straniera? - Se ti dimentico, Gerusalemme,
si paralizzi la mia destra; - mi si attacchi la lingua al palato,
se lascio cadere il tuo ricordo,
se non metto Gerusalemme
al di sopra di ogni mia gioia. - Ricordati, Signore, dei figli di Edom,
che nel giorno di Gerusalemme,
dicevano: «Distruggete, distruggete
anche le sue fondamenta». - Figlia di Babilonia devastatrice,
beato chi ti renderà quanto ci hai fatto. - Beato chi afferrerà i tuoi piccoli
e li sbatterà contro la pietra.
Si tratta della cattività babilonese del 587 a. C. a seguito dell’assedio di Gerusalemme da parte di Nabucodonosor II (Nabucco) ma ora possiamo finalmente chiudere il libro immaginario e riflettere, perché no? Anche un po’ come dei bambini, sul significato di questi versi: i fiumi qui oltre che indicazione geografica precisa sono anche una sorta di luogo dell’animo riservato alla tristezza; oggi, nella società della contentezza a tutti i costi, della permissione totale e dell’edonismo come principio di esistenze da dover rendere irripetibili e dal godimento senza limiti, la tristezza, soprattutto se continua, appare come una malattia o uno scandalo; bisogna cantare sempre canzoni di gioia, ce lo comandano oppressori che non siamo più in grado nemmeno di scorgere con chiarezza, ai poeti e agli artisti poi vengono chieste ancora “parole di canto” ma quel canto o è ammaestrato, o si perde in uno stridulo vociare, chi vorrebbe cantare la verità desidera farlo perché vive nella menzogna, chi canta la giustizia è perché ha vissuto l’ingiustizia, chi canta davvero la gioia ha conosciuto il dolore, la grande poesia è poesia dell’assenza e ogni persona che accetta lo scandalo di questa tristezza è un esiliato che porta in cuore una sorta di ricordo futuro di una sua patria dove diversa è la vita e altre le relazioni tra gli uomini, simili individui non sono mai realmente a casa, e i loro canti restano quasi sempre nella penna e nel silenzio, è difficile venderli ai padroni, quanto alla loro terra desiderata e nel desiderio in una qualche misura già vissuta nel presente possiamo darle infiniti nomi, ma la chiameremo Gerusalemme.
Devo ancora trovare chi non abbia ascoltato cantare un canto di questa città e non ne serbi un ricordo o un disegno anche vago e impreciso. Nell’esilio della tristezza è comunque possibile, vivere, agire in diverso modo, avere attese e ambizioni, stringere relazioni, insomma condurre l’esistenza e ciò non può essere compreso da quanti ritengono la tristezza un’anomalia o una malattia invece che una condizione, prontamente confusa appunto con la patologica depressione; certo esistono poi condizioni di esilio materiali anche oggi, non a caso immagini prese da questo salmo si trovano in molti autori per narrare il sentimento della storia di un secolo da Quasimodo a Rafael Alberti, e bisogna davvero chiosare, anche se non si legge in questo modo un testo arcaico e gli slittamenti al presente non mi sono mai piaciuti, che quando cerchiamo di inserire a viva forza migranti in progetti di multiculturalità, con tanto di cibi, danze e musica etnica, come si dice, bisognerebbe forse dimenticarsi per un attimo del politicamente corretto e delle manie del progressismo spicciolo e riportare alla mente la saggezza di questi antichi versi. Spesso è più saggio rispettare la sofferenza che volerla tramutare in gioia.
Questa digressione ci porta a considerare il fiume non più ora come elemento geografico, storico e culturale, ma nel suo aspetto metaforico: se da una parte infatti possiamo tenere presente l’importanza materiale dei fiumi per l’uomo non si può dimenticare che l’uomo stesso, essere che si esprime per simboli li ha, forse proprio in virtù della loro importanza materiale, investiti di una tale potenza di significare da renderli sue proprie figurazioni allegorico, soprattutto in quanto, con il loro scorrere e mutare rendono alla coscienza dell’uomo vivido e quasi visibile il sentimento del tempo e del mutamento in successione. Tutto ciò era noto ad Eraclito che scriveva «Non si può discendere due volte nel medesimo fiume e non si può toccare due volte una sostanza mortale nel medesimo stato, ma a causa dell’impetuosità e della velocità del mutamento si disperde e si raccoglie, viene e va»[2] come lo sarà dopo a Bergson e ai teorici e narratori dello stream of consciousness da Joyce in giù, la parola stream indica infatti proprio il fiume come flusso di acque, e Il fiume dei pensieri, solo a riprova di quanto questa associazione simbolica non sia un filosofema divenuto corrente ma sia radicata nella mente umana fin dall’infanzia, si intitolava anche un mio insignificante fascicolo di acerbi versi da adolescente; ben diversamente dal ragazzino ai primi scarabocchi era il poeta al quale Dante chiede «Or se’ tu quel Virgilio e quella fonte/che spandi di parlar sì largo fiume?» e diversi ancora i narratori dei cosiddetti romanzi fiume, ma gli ultimi due sono accomunati, i simboli potenti infatti non distinguono tra grandi scrittori e merciaioli come un grilletto fa partire il colpo in canna sia dalla mano di un bimbo che da quella di un tiratore scelto, dal medesimo uso dell’immagine fiume, concatenazione sequenziale non più solo di pensieri, ma di parole talora anche sotto forma di inchiostro.
La più suggestiva però, a mio giudizio, tra tutte le analogie che l’uomo ha fatto sue intorno al fiume è quella che stabilisce un rispecchiamento tra il fiume come lunghezza finita e non statica e vita dell’uomo; la troviamo ad esempio nella celeberrima poesia di Ungaretti I fiumi “conta” i suoi fiumi nell’Isonzo, coniugando così il significato culturale e storico con quello personale e metaforico della propria esistenza o nel bellissimo epitaffio di Gregory Corso al cimitero Acattolico di Roma.
Spirit
is Life
It flows thru
the death of me
endlessly
like a river
unafraid
of becoming
the sea
Come il fiume sfocia nel mare, la vita sfocia nella morte, cioè nella più vasta vita del non cosciente; l’uomo ha forse da sempre cercato di dire, attraverso il fiume, la tensione di finito ed infinito che avvertiva nella sua mortalità.
Dovendo infine dire cosa sia oggi di questa relazione tra uomo e fiume credo sia illuminante una paginetta scritta da Czesław Miłosz alla fine dei suoi appunti tardi o, secondo una visione più romantica, del suo testamento spirituale Il cagnolino sulla strada. In una nota dal titolo I Fiumi ci ricorda tra l’altro che
«Passano le tribù, i popoli, le civiltà, [gli dei possono aggiungere i miscredenti] e il fiume c’è sempre, ovvero c’è e non c’è, poiché l’acqua non è la stessa, ne permangono solo la sede e il nome, come metafora di una forma costante e di un contenuto mutevole»[3];
colpito dunque dalla più che millenaria esistenza dei fiumi, che ne ribalta radicalmente la pretesa analogia con la vita umana, come un inganno poetico della coscienza, ci porta a pensarli quali immagini del tempo stratificato, ma di un tempo avvelenato, come avvelenati oggi abbiamo reso i fiumi.
Venuto dunque un nuovo tempo dobbiamo tornare a fare come il cinese del proverbio, si dice che dopo che aveva passato anni ad attendere che passasse il cadavere del nemico lungo il fiume qualcuno gli abbia chiesto perché attendesse ancora, nonostante la sconfitta e la vita che procedeva indifferente, osservando ogni secondo la corrente ed abbia risposto “Sono diventato saggio, guardo con più attenzione perché tra queste acque avvelenate non passi, in un momento di distrazione non visto, il cadavere di un amico”.
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[1] In Letteratura e poesia dell’antico Egitto, Torino, Einaudi 2007
[2] Fr. 91 DK
[3] I fiumi in il cagnolino sulla strada, Czesław Miłosz, Adelphi 2002 p. 359
