Tempo di riserva di Silvia Rosa, recensione di Fabrizio Bregoli

Tempo di riserva di Silvia Rosa, Giuliano Ladolfi Ed., 2018, recensione di Fabrizio Bregoli.

    

    

La poesia di Silvia Rosa, che giunge a questo “Tempo di riserva” dopo alcune raccolte che hanno contribuito a renderla nota fra i fedeli della poesia, prosegue in completo accordo alla linea poetica tracciata nel corso del suo sviluppo autoriale: una poesia forte, che non teme di ammettere e rivendicare la centralità di un io poetico che parla di sé, s’interroga sulla ragione delle cose e coraggiosamente sottolinea il proprio essere donna, la specificità e la ricchezza del proprio genere. Non cadiamo mai, però, tantomeno in questo ultimo lavoro, in una poesia di genere, o una poesia intimistica e confidenziale fine a sé stessa, ma la poesia di Silvia Rosa è forte interrogazione sulla vita, con la precisa volontà di veicolare un sentire denso e traumatico, quello che è proprio di ogni essere umano al di là della specifica appartenenza di genere.

Come dice in una, secondo noi, delle migliori poesie della silloge il suo è “nome docile” che la obbliga a muoversi, anche nel dire poetico, “portando a spasso tutti gli spigoli / delle mie vocali”, quello di una donna che si sa porre senza compromessi, con quel nome ingombrante di ascendenza leopardiana, ma per il resto per lo più disertato da poeti e cantautori – come dice ironicamente – quel nome che si riassume ne “l’insistente vocazione / al sì con tanto d’eco” sempre in bilico fra l’intenzione di dire e la “paura / di cadere intera sull’ultima lettera aperta / come una bocca d’aria piena, prima dello schianto”. Basterebbe questo autoritratto a capire la temperie dell’intera raccolta, dove non si teme di ammettere che è necessario “smettere l’ermeneutica dei sospiri / la litania dei sentimentalismi, la mistica del senso a ogni costo” (e si noti la misura spregiudicatamente lunga dei versi, con preciso intento meditativo e ragionativo, perché alla matrice lirica preponderante in questa poesia occorre arginare compensando con l’adagio del pensiero).

Così, insieme alle immagini e alle parole rassicuranti di un’anima che si sa mettere a nudo con delicatezza e profondità interiore, Rosa ci sa sorprendere con improvvisi testacoda, di quelli che si fanno sull’asfalto gelato tirando decisi il freno a mano, e ci sa provvidenzialmente sconvolgere con testi crudi come lo splendido “Nemmeno”. Qui a dare l’avvio alla scena è un filmato pornografico, tutta la falsità di quel “attimo di godimento / che sopraggiunge asincrono, quel doppiaggio sfasato “tomba / dell’orgasmo in differita”, tutto quel mondo che non sa colmare la noia indotta da un vuoto affettivo, “nemmeno niente mi basta a qualcosa che / non so nemmeno io” (con una nota che richiama forse volutamente “Intervista a un suicida” di Sereni), mentre invece basterebbe un “mantra” minutissimo, un “ti amo” con la sua disarmante chiarezza a ristabilire la giusta gerarchia: si penserebbe dunque a un esito alla maniera del classico lieto fine, e invece Silvia Rosa sa ancora controsterzare e così chiude questa audace e originalissima poesia

del resto non è nemmeno troppo tardi per farsi
di silenzio, senza posticci desideri sulle labbra
e nelle mutande miti falsi, per imparare l’arte autentica
– scopare seriamente.

Abbiamo citato questi testi che più di altri ci hanno colpito, ma tutta la silloge è attraversata dall’idea di un tempo precario che si ripete con una ciclicità sorda all’uomo e che conduce sempre all’esito di un addio irrimediabile, da tutto ciò che ci è più caro e che si è destinati inevitabilmente a perdere; a dominare è il senso della frattura che l’autrice ha voluto ribadire sovvertendo l’ordine convenzionale con cui ci si aspetterebbe di confrontarsi con le stagioni, con una logica “antistagionale” come sottolinea la brava Gabriella Montanari nella sua anti-accademica e sincera prefazione. Si parte dunque dall’inverno, per finire con l’autunno dove nell’ultima poesia si parla di “tutte le stagioni in una metà di giorno”, quasi a voler condensare il senso della vita in un attimo in cui tutte le stagioni sanno riassumersi e implodere, fino a “credere possibile che ogni / desiderio attraversi la litania a memoria / delle stagioni”, tutto si ricombini in un assurdo necessario ma praticabile, “la sicurezza che domani piova anche se c’è il sole”A conferma della anti-stagionalità, conviene inoltre sottolineare come nella sezione “Estate” siano raccolti soprattutto testi drammatici incentrati sulla perdita, ossia l’esatto opposto di ciò che si attenderebbe da questa stagione. Insomma, domina il senso di un dramma incompiuto come negli splendidi versi che confermano questo sovvertimento dell’ordine del tempo, meravigliosamente tra parentesi:

(ma quel tempo deve ancora arrivare,
è un futuro anteriore, passato per sempre)

La lezione evidente è quella della grande letteratura soprattutto internazionale, in primis a nostro giudizio di Anne Sexton (di cui sentiamo la lezione in versi , pur originali ed efficaci,  come “la tua Penelope schizofrenica / che scopa con i Proci”, “l’eco del piacere che non sai darmi ti cullerà / una nenia perché ti senta uomo”, “un dado nero nell’azzardo dei giorni / da cui usciamo persi a vita”) e di Sylvia Plath, prodigiosamente omonima “d’arte” dell’autrice (che ci pare di indovinare in versi come “nera impronta di un addio”, “ombre da imparare a memoria”, e molti altri); la stessa versificazione lunga e lunghissima che spesso ricorre è ascrivibile a certa ascendenza anglo-sassone e in particolare whitmaniana, ma ci piace leggere anche alcune suggestioni più intimistiche da Nadia Campana e Antonia Pozzi: quella sensibilità tutta nostra, italiana, mediterranea.

Il linguaggio è sempre strutturato in ampie partiture sintattiche – talvolta forse avrebbe potuto giovare una maggiore semplificazione della ipotassi per concentrare il focus del lettore, ma questo vuole essere solo un bonario consiglio, legato a un gusto strettamente personale – ma con una sempre calzante scelta terminologica, l’iterazione ricorsiva di metafore chiave che si inseguono a creare organicità nella raccolta, controllo della dizione e della versificazione pur nella alternanza di versi brevi e altri più a misura narrativa – un valore quest’ultimo per evitare una certa melopea stucchevole.

Possiamo dunque parlare di un lavoro coeso, convincente, di una scrittura adulta e versatile nei movimenti, mai clone di se stessa.

Mi piace allora chiudere questa sincera recensione, in cui il recensore spera di avere scritto il meno possibile di sé, molto sull’autrice, lasciando spazio alla poesia con questi versi tratti dal testo eponimo, in cui rivendicare a sé la propria vita è il messaggio forte che vi leggiamo, l’unica possibilità per ricostituire quel “Tempo di riserva” a cui Silvia Rosa ci invita.

Qui è dove il tempo
ci ha costretti
a un sogno in miniatura
ad abbandonare la dorsale
incerta del domani
a procedere occhi a terra
respiro breve – soli –

Dicevi del coraggio,
è vero, ma anche l’odio,
sai, è un pungolo
la spinta propulsiva
a non demordere
– finché c’è odio c’è speranza –
a non dimenticare,
basta sostituire la parola amore
logora e blasfema
a questo doppio girotondo
di vocali, un cerchio, un cappio
ripetuto fino all’io 

ed è da questo tempo di riserva,
e con la stessa intensità di prima,
che adesso esercito la cura:
odiarti, deluderti con gioia (la mia),
lasciarti prigioniero del presente
identico a te stesso, immobile,
negarti infine e ancora al mio futuro.

*

cop 1- Tempo di riserva - Silvia Rosa
in apertura Lussia di Uanis, “Depressione”

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