Tilo, editoriale di Franco Buffoni

Tilo, editoriale di Franco Buffoni.

    

    

Sono nato e cresciuto a Gallarate. Ma dai diciotto anni in poi, per via dell’università, dapprima come studente a Milano e a Edimburgo, quindi come insegnante – per sette anni a Parma, poi a Trieste, Bergamo, Torino e dagli anni novanta a Roma – mi sono fisicamente allontanato dalla provincia di Varese. Fisicamente ma non psicologicamente. Me ne rendo conto dai sogni che faccio e dal lessico a cui ricorro traducendo i poeti romantici inglesi.
Recentemente, per esempio, mi sono imbattuto in questo conturbante frammento di P.B. Shelley

The Deserts of Dim Sleep

I went into the deserts of dim sleep—
That world which, like an unknown wilderness,
Bounds this with its recesses wide and deep—

e la mia psiche non ha saputo fare di meglio se non tornare alla brughiera della Malpensa, lì ambientando I deserti del sonno tenebroso dell’autore di Prometheus Unbound:

Entrai nei deserti del sonno tenebroso…
In quel mondo che
– Come una brughiera sconosciuta –
Fa da confine al nostro
Coi suoi recessi ampi e profondi…

Questo a conferma di quanto scrisse Ludwig Wittgenstein, ispirando a Vittorio Sereni la necessità di scavare sempre, e sempre più in profondità, nei propri immediati dintorni.
Gallarate, nella Lombardia occidentale, è un antico nodo ferroviario, fondamentale perché da lì si dipartono ben tre linee provenienti congiunte da Milano: quella principale del Sempione che porta a Ginevra; e le due innervature “secondarie”: verso il lago Maggiore, sponda orientale, fino a Laveno e Luino, la prima; e verso Varese e Porto Ceresio la seconda.
Vedere quei binari che a un tratto cominciano a separarsi, come i petali di un enorme fiore, fino a raggiungere tre diversi “ponti della ferrovia” – quello di corso Sempione (dove sono cresciuto), quello di via Volta (dove era la casa dei miei nonni) e quello di viale dei Tigli, dove sorge il liceo – era uno spettacolo che mi affascinava da bambino, e che continua a turbarmi…
Ci vuole l’orgoglio per far certe cose, e in quel posto che sa di patria e sa di gloria (scuole serali, biblioteche popolari, alle pareti profili di cosmografi e geometri antichi) voi – che domani sarete medici e avvocati – staccherete denti d’oro ritti con lo scalpello, proprio nel punto là dove si dividono le ferrovie, nella casuale bestialità delle montagne.

Ferrovie treni deportazioni Lager. Io appresi della guerra, delle deportazioni e dei Lager da bambino, mentre guardavo i treni passare. Li guardavo e basta, perché mio padre ricorreva sempre all’auto per portarci in gita o in vacanza. Mio padre – spostato in carro bestiame tra diversi “campi” sparsi tra la Polonia e il confine con l’Olanda (Moosburg, Oberlangen, Deblin, Meppen, Sandbostel) – non prese più un treno per tutto il resto della vita. Morì nel 1980.
Così, quando da adolescente cominciai a conquistarmi i primi spazi di autonomia, il treno fu per me una conquista. In treno mi recavo a fare atletica all’Arena di Milano. Il “nuovo” mezzo, con quella sua strana commistione tra isolamento e promiscuità, mi affascinava e al contempo mi respingeva: mentre le ragazze si potevano baciare dappertutto, in treno fui baciato per la prima volta da un ragazzo.
Quale fu dunque la mia sorpresa, qualche anno fa, quando in un ritorno nella casa di famiglia (ormai viva solo se io sono presente), in stazione a Gallarate ebbi la visione di un lindo Tilo (Ticino-Lombardia) in sosta. Un Tilo ormai attivo nel collegare i toponimi della mia crescita, da Malpensa a Bellinzona. Quella Bellinzona raggiunta con la millecento famigliare nel 1959 in una mattina d’agosto, per poi arrancare fino in vetta al Gottardo e parcheggiare nella nebbia casualmente a un metro dal laghetto senza alcuna protezione.
Dopo quella epifanica visione del Tilo (una specie di Rex felliniano, a proposito di nebbia), devo proprio averci preso gusto: in mezz’ora di Tilo sono a Laveno e da lì posso salire in ovovia fino alla vetta del monte Sasso del Ferro per le gare di deltaplano; oppure in battello raggiungere l’incantevole eremo di Santa Caterina del Sasso. Ma ancor più il pensiero che dall’archivio Sereni custodito a Luino mi separa solo un’ora di Tilo è per me sempre fonte di un piccolo brivido…
Certo, il Tilo collega la Svizzera con Malpensa: è moderno e necessario. Ma quale strana emozione d’antan quando nelle stazioncine di Ternate o di Comabbio ti rendi conto che si viaggia a binario unico, e che si sta lì sul diverticolo in stazione anche molti minuti in attesa che finalmente scorra l’altro Tilo in senso opposto!
Qualche problema col biglietto magari si può averlo a Cadenazzo: perché solitaria si presenta, abbandonata, l’antica postazione di biglietteria. Certo, il biglietto bisognerebbe farlo prima; ma a Gallarate in stazione lo fanno solo fino a Luino, e il sito delle ferrovie al computer sembra proprio non volersi concedere all’espatrio ticinese…
Dovevo andare a Babel per l’annuale festival di letteratura in traduzione che si svolge all’ombra dei tre castelli bellinzonesi. E con me nel Tilo, col biglietto solo fino a Luino, c’erano due autori africani. Coniugando Babele a Bellinzona, sorrisi alla controllora con tutta l’intensità del poeta-traduttore, chiedendo ai due colleghi africani di fare altrettanto. Ormai, dopo soli cinque minuti di tragitto da Cadenazzo, andava profilandosi la stazione di Bellinzona. E l’arcigna signora scosse il capo bofonchiando qualcosa che mi sembrò un “Das ist sehr unmoralisch”.
In compenso al ritorno, col biglietto giusto per Gallarate comprato a Bellinzona, incappai in una domenica di sciopero improvviso delle ferrovie italiane. Superato baldanzosamente il confine, il Tilo cominciò a tossicchiare fino ad arrestarsi irreversibilmente nella stazione di Luino. “Non ci sono mezzi sostitutivi”, disse sgarbatamente un uomo piuttosto trasandato, certamente non in divisa, prima di rinchiudersi inderogabilmente in un ufficio dai vetri sporchi schermati. Mi avviai pertanto coi miei avverbi maltradotti nel borsone da viaggio a tracolla verso il lungolago, espletando qualche infruttuoso tentativo di autostop.
Biascicando tra me col tono della controllora di due giorni prima “Non hai più l’età per l’autostop, vedi di ammetterlo!”, mi sedetti su una panchina rossa e chiamai al cellulare mio nipote Paolo, che essendo domenica era a casa con la fidanzata. Mi raggiunsero insieme dopo una mezzora, ed evidentemente l’sms zio in attesa su panchina rossa al lungolago deve averli colpiti molto, se su una cartolina iperrealista dalla Grecia di poche settimane fa trovo scritto: “Caro zio, vedendo questa cartolina colorata, ci sei venuto in mente tu tre anni fa sulla panchina rossa di Luino, quando arrivando da Bellinzona trovasti lo sciopero dei treni. A presto. Paolo e Giorgia”.

                                  

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One thought on “Tilo, editoriale di Franco Buffoni”

  1. Bellissimo articolo, vivo, tra storia, attualità e memoria: riassume i molti interessi culturali del poeta –dal paesaggio insubrico all’amore per V. Sereni- che non si smentisce neppure quando parla di vicissitudini tipicamente italiane, treni stazioni e scioperi che mai si scordano

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