Tutte le cose sono uno di Lella De Marchi, recensione di Maria Lenti

Tutte le cose sono uno di Lella De Marchi, Prospettiva ed. 2015, recensione di Maria Lenti.

    

   

Che cos’è l’uno in cui confluiscono tutte le cose (Eraclito, la citazione del titolo)? L’amore. La presenza a sé. La solitudine. I passi: interrotti su un mancamento e-o su un incontro senza ritorno e dai contorni imprecisi. L’assenza dell’altro, di quel “tu” (non necessariamente amoroso, ma certamente dell’amore a largo raggio per una condivisione di stato, di habitus, di emozioni) verso cui Lella De Marchi, in terza o in prima persona, chiede appigli, nega sostegni, adombra o descrive giornate. Vissute dove? Può essere Parigi o il Giappone o l’Olanda o Genova o un luogo innominato perché vicino e riconoscibile, Babele per esempio o una stazione. Cioè, il quotidiano confuso nel suo intento, chiaro nella sua dinamica.
Bei racconti. Una prosa singolare, a scatti si direbbe come il camminare procedendo su terreni accidentati o non piani. (Scatto è parola significante: «…il punto in cui tutte le cose sono uno. Lo scatto unico. Dove ancora esisti. Il tuo principio e la tua fine»). E un’atmosfera di sospensione nella quale non si sa bene se il narrato sia un effetto o una causa o sia un andirivieni onirico, un flatus della probabilità, un desiderio. Caratteristiche che danno alle pagine lo spessore di un sentire in cui il pensato e il desiderato, l’accaduto e il prefigurato, il disegno o la realizzazione si mescolano talmente bene che alla fine si vive dentro vicende improbabili perché vere o vere perché improbabili, ma certamente avvolte in una solitarietà che a me richiama il vivere da monadi attuale, in un contesto non più tale perché non ci comprende più pur essendone canali di contenimento, artefici di questi canali.
Per una lettrice come me, che cerca i contatti ieri-oggi non per sottolineare forzate quanto assurde continuità (benché le pareti stagne sbandierate da molti siano solo un fumus, una velleità: ciascuno porta il suo passato formativo – pur nella distanza temporale, nello spostamento di obiettivi, nella sottrazione di parole, nell’asciugatura dei periodi, nella riduzione dell’afflato e del pathos, ecc. –), né d’altronde per vedervi cesure ad ogni costo (nessuno ricomincia da capo), rotture di soluzioni già adottate in letteratura, leggere un libro, nel caso i racconti di Lella De Marchi, vuol dire cercarvi analogie di antecedenti ma non catene sinonimiche, legami con i contemporanei, insieme allo “scatto” della individualità. Nel caso dell’autrice pesarese, una ricerca anche tra la pagina della prosa e quella della poesia.
Tutte le cose sono uno si apre ad una sorta di regard non di scuola, ad una asciuttezza da un lato di stampo esistenzialistico dall’altro di necessaria contrattura. E, mentre si potrebbe ricondurre la scrittura a prove già intraviste o scorse (la letteratura francese, per esempio), si nota, invece, un’estrema aderenza alla concisione – sentimentale, soprattutto – che riduce le distanze tra la sensazione e la sua razionalizzazione in una modalità diffusa nella narrativa odierna (e nel dialogo a due, a tre, a quattro che divide la brevità del tempo trascorso in un apparente “insieme”).

C’è, la seconda mia domanda, una rispondenza tra la poesia di De Marchi e questo libro in prosa? La ravviso nello “stacco”. In quell’ordito lasciato in sospensione, nella vicenda inagibile, persa, alla conclusione. Nemmeno perché tutto avrebbe potuto essere o potrebbe essere, ma perché non se ne sa l’inizio, non si conosce la fine. Solo, in parte e forse nella propria interiorità, si cattura lo svolgimento. Semplicemente. E, aggiungo di mio, drammaticamente in questo sentirsi soli, inascoltati, nella reiterazione del passo che avanza, si ferma, riparte, di nuovo si arresta. A Parigi, in Giappone, in Olanda, a Genova.

immagine in apertura: Branciforte, "Le ore", 2013, smalti su tavola
immagine in apertura: Branciforte, “Le ore”, 2013, smalti su tavola

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