Una pagina per Pavese e per le donne di Narda Fattori.
La coscienza esiste, ma non è come dicono il cristallino assoluto che ci sorveglia: è la protesta dello nostro amor proprio che sa come in avvenire noi stessi giudicheremo un nostro atto ….
( giugno ’38)
In questi tempi di femminicidio , vorrei riproporre Pavese per la sua grazia verso le donne, verso il femminile: accogliente e diverso e proprio per questo inappartenente. L’uomo che non accetta di sentirsi rifiutato, non si toglie di mezzo, rispettosamente e dolorante, ma si arma, trucida, dimentica l’amore. La convivenza con la propria coscienza, in tempi di mercantilismo servile e asservito, desta inquietudine e si risolve in una irrequietezza mentale ed esistenziale che non concede tregua e rilassatezza. Ovunque si spinga lo sguardo vedo armonia di creato sul quale l’uomo è intervenuto spesso con mano pesante per soddisfare non solo bisogni ma anche un suo personale concetto estetico. Non c’è niente di scandaloso a non pensarla come il Padreterno e che erbacce e fastidiose bestioline meritino di essere estirpate e sterminate: non se ne vede che il fastidio estetico e fisico che producono. Se hanno una ragione per esistere non la conosciamo, forse non l’abbiamo cercata. Anche fra noi ci si comporta in questo modo. Certo non ci è mai uscito di mente la regalia originaria: tutto ci appartiene al costo di insopprimibili e eternanti sofferenze. L’astuzia e anche l’intelligenza dell’uomo ha molto lavorato per ottundere il dolore: viaggiamo con il Prozac a portata di mano, l’ansiolitico sul comodino ( a volte in borsetta , magari di Gucci), ricerchiamo le endorfine, ci stordiamo di alcool , di sesso, di cocaina , di lavoro perfino, come se tutto ciò potesse tutelarci da una ferita non rimarginabile. Non so a quando risalga questa ferita: se alla spada fiammeggiante dell’angelo che scacciò la prima coppia dal Paradiso Terrestre, se invece dalla separazione violenta dall’utero alla nascita, se, più semplicemente, dalla constatazione che il desiderio ha unghie lunghissime e ci stria la mente di irraggiungibili traguardi e di sempre altri ancora, se uno fosse raggiunto sarebbe comunque una corsa folle verso un nulla che trabocca. Ci manca l’umiltà di vedere l’armonia del piccolo e del nostro minimo, ci manca l’etica di essere orgogliosi di un lavoro ben fatto, di un incontro che non sia stato di sopraffazione. Ci manca la pazienza di stare sulla riva del fiume a godere dell’argenteo dorso delle trote in salto per godere di luce. Ci mancano l’innocenza del gioco, la freschezza del giudizio incontaminato, la fragranza delle mani disarmate, la luce dello sguardo terso. Non abbiamo perduto nulla dagli albori ad oggi, siamo sempre stati usurpatori, malfidati, invidiosi e assassini. Caino docet. E la nostra coscienza irrequieta , confusa e riottosa non vuole riconoscere il cristallino che forse c’è ma che non vogliamo scorgere per non dilaniare la ferita del nostro amor proprio, inquinato e non proprio cristallino. “Soffrire è dunque una debolezza” diceva Pavese; già una stramaledetta debolezza che deve fortificarci.
Lui non ce l’ha fatta: vivere aveva un prezzo esoso, troppo e non si poteva calamitare sulle proprie sofferenze la ragione di una vita.
E se il mestiere di vivere non l’aveva gratificato, ugualmente ci ha fatto dono della sua poesia e della sua visione:
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi –
questa morte che ci accompagna
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno una vana parola,
un grido taciuto, un silenzio.
Così li vedi ogni mattina
quando su te sola ti pieghi
nello specchio. O cara speranza,
quel giorno sapremo anche noi
che sei la vita e sei il nulla.
Fra la vita e il nulla si insinua la vana speranza; non è la disperanza leopardiana, matrigna e maligna; è il materiale di cui riempiamo un vuoto, un materiale che appartiene al sogno, all’illusione, all’adolescenza. Fra donna e terra, fra amore e vita , Pavese crea un’insolita analogia: tutto è sfuggente anche quando lo stringi e lo calpesti, nulla meno appartiene di ciò che è sfuggito.
Vorrei che proprio in questi cupi momenti per le donne, che rileggessimo un “classico”: Pavese, il mite, il discreto, l’inappartenente e non appartenuto, ci dice cose importanti che scaldano il cuore, ci scuote dal torpore, ci fossimo cadute.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Ancora cadrà la pioggia
sui tuoi dolci selciati,
una pioggia leggera
come un alito o un passo.
Ancora la brezza e l’alba
fioriranno leggere
come sotto il tuo passo,
quando tu rientrerai.
Tra fieri e davanzali
i gatti lo sapranno.
The cats will Know
Ci saranno altri giorni,
ci saranno altre voci.
Sorriderai da sola.
I gatti 1o sapranno.
Udrai parole antiche,
parole stanche e vane
come i costumi smessi
delle teste di ieri.
Farai gesti anche tu.
Risponderai parole –
viso di primavera,
farai gesti anche tu.
I gatti lo sapranno,
vi so di primavera;
e la pioggia leggera,
l’alba color giacinto,
che dilaniano il cuore
di chi pili non ti spera,
sono il triste sorriso
che sorridi da sola.
Ci saranno altri giorni,
altre voci e risvegli.
Soffriremo nell’alba,
viso di primavera
Mi piace molto che tu abbia riportato alla nostra memoria Pavese ed il rispetto religioso per la donna, che ha caratterizzato la sua vita e la sua poesia. Bravissima !!!!
Che belle, una dolcezza dimenticata che fa tanto bene.
Grazie