Una triade poetica: una terra mai detta. Sfogliando Cesare Pavese, di Margherita Lollini.
Primavera sta tornando e la mente migra a quei versi più volte riletti, sempre con vivida impressione, dove Cesare Pavese descrive la terra: una terra che è la sua, anche la nostra forse; una terra che somiglia ad una donna, che è una donna. Ed ecco che la natura della vita appare nella sua accezione più estesa: il grembo terrigeno, la donna generatrice di vita e d’amore. Un canto disperato o tragico, ma anche dolce e delicato. Tutto si ricongiunge con un tratto decisivo: l’amore o il sentimento, il desiderio di vita, di rinnovamento. Forte è l’impeto del poeta: sentite le immagini, come non mai.
Le poesie qui ricordate appartengono al gruppo La terra e la morte e furono scritte a Roma, nel ’45: a queste seguono, naturalmente, quelle del gruppo Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, compimento ed apice della poetica pavesiana. La prima cui ci riferiamo è: “Terra rossa terra nera, / tu vieni dal mare, /dal verde riarso, /dove sono parole /antiche e fatica sanguigna / e gerani tra i sassi – / non sai quanto porti / di mare parole e fatica, / tu ricca come un ricordo, / come la brulla campagna, / tu dura e dolcissima / parola, antica per sangue / raccolto negli occhi; / giovane, come un frutto / che è ricordo e stagione – / il tuo fiato riposa / sotto il cielo d’agosto, / le olive del tuo sguardo / addolciscono il mare, / e tu vivi rivivi / senza stupire, certa / come la terra, buia / come la terra, frantoio / di stagioni e di sogni / che alla luna si scopre / antichissimo, come / le mani di tua madre, / la conca del braciere.” Questa poesia sembra quasi, prima del gruppo, fornire la dichiarazione d’intenti: anche se porta in sé profondamente inscritta una contraddizione. Da un lato, la terra è colma, ricca, portatrice di nuovo; somiglia a un frutto, è dolcissima, ricorda la figura materna. Dall’altra, essa reca un simbolo di sterilità: è brulla, dura, buia, frantoio di stagioni e sogni, conca dove sono arse le braci, che reca cenere. La contraddizione riposa in questa poesia, anche se le due immagini della terra convivono senza che una prevalga sull’altra.
La seconda poesia su cui ci soffermiamo sembra sposare una delle due immagini, quella di terra povera, anche se il poeta – ancora – non si dà per vinto sul fatto che possa essere in qualche modo feconda e possa sgorgare un seme (una parola, un frutto) dal suo grembo: “Tu sei come una terra / che nessuno ha mai detto. / Tu non attendi nulla / se non la parola / che sgorgherà dal fondo / come un frutto tra i rami. / C’è un vento che ti giunge. / Cose secche e rimorte / t’ingombrano e vanno nel vento. / Membra e parole antiche. / Tu tremi nell’estate.” Ancora, troviamo che la terra rievochi appieno la donna, tanto che, appunto, la parola la rende antropomorfizzata e ambivalente: salvo tornare, in ultimo, all’immagine del vento, che chiude la poesia con un’intonazione prevalentemente naturalistica, tracciando una circolarità di significato.
In ultimo, la terza lirica che vogliamo riportare. In questa, lo sguardo del poeta è passato definitivamente ad inquadrare la terra come la sterilità, l’assenza di vita presente e futura: “Sei la terra e la morte. / La tua stagione è il buio / e il silenzio. Non vive / cosa che più di te / sia remota dall’alba. / Quando sembri destarti / sei soltanto dolore, / l’hai negli occhi e nel sangue / ma tu non senti. Vivi / come vive una pietra, / come la terra dura. / E ti vestono sogni / movimenti singulti / che tu ignori. Il dolore / come l’acqua di un lago / trepida e ti circonda. / Sono cerchi sull’acqua. / Tu li lasci svanire. / Sei la terra e la morte.” Quella raffigurata è una terra dura, secca, di silenzio e dolore: questa terra di morte e morta insieme. In questo, ci sentiamo di rievocare i versi di T.S. Eliot in La terra desolata nella poesia La sepoltura dei morti: “Aprile è il più crudele dei mesi, genera / Lillà da terra morta, confondendo / Memoria e desiderio, risvegliando / Le radici sopite con la pioggia della primavera. / L’inverno ci mantenne al caldo, ottuse / Con immemore neve la terra, nutrì / Con secchi tuberi una vita misera. (…)” Con Eliot, Pavese condivide la stessa visione della terra, in ultimo: desolata, di nullo frutto.
Da queste immagini di miseria suggeritaci dalla poesia, vorremmo ritornare alla primavera reale, dove riscoprire la nostra poesia, diversa per ognuno di noi. Ancora una volta, la voce dei poeti ci ha accompagnato ed è stata con noi. Maestra del tempo. M.L.
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(Edizione di riferimento: Cesare Pavese, Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, Giulio Einaudi editore, Torino 1951)
Mi sembra un’analisi ben motivata dell’ultimo Pavese, con elementi che a mio parere sono sempre stati presenti nelle sue opere.
Pavese appartiene alla terra dalla quale è stato nutrito , che non gli è più bastata separandosene e quindi ha maturato nei suoi confronti un’ambivalenza dolorosa.
Narda