Una vita in fabbrica, di Gianfranco Corona.
Ho provato a chiedermi tante volte, come abbia fatto a resistere 40 anni in fabbrica. Io bambino, inizio anni ’70, fragile, chiuso in quel bozzolo senza speranza, a respirare veleni insopportabili, per una rinascita sperata. Quella fabbrica malvagia, irrespirabile, portava rabbia e frustrazioni, mi permetteva di vivere con il rischio di essere violato nel mio intimo, per poche lire. Avevo 15 anni quando ho lasciato Codigoro, il mio paese della provincia di Ferrara, per un lavoro di operaio in una fabbrica metalmeccanica di Bologna. Una piccola balbuzie, un freno impercettibile, aveva fatto di me, nell’adolescenza, un ragazzo debole, non solo nell’aspetto, e molto riservato nell’approccio con gli altri. Nei primi anni di vita operaia, la difficoltà ad integrarmi nella grande città e la disciplina da caserma dell’ambiente di lavoro, anziché dar voce alle parole che avevo immaginato di riuscire ad urlare in un mondo nuovo, me le smorzarono in gola. Fisicamente ero esposto ad ogni rischio, per via della mancanza quasi totale di ogni tutela e protezione nell’ambiente di lavoro, mentre mentalmente mi chiudevo in un silenzio assordante. Era impossibile dialogare coi colleghi se non di sport, di tv o delle banalità del vivere quotidiano e del nostro domani, troppo scontato e vuoto di speranze. Vivevo in un contorno esasperato d’incomprensioni e consapevolezze, cosciente di possedere una carica emotiva grazie alla quale l’arte e la poesia potevano superare le tante barriere ed ostacoli che, nella giornata in fabbrica, continuavano a trascinarmi da momenti di passività ad altri di ribellione. Traducendo la mia particolare sensibilità in poesia e ciò che mi risuonava nella mente, in versi, rafforzavo il mio sentirmi diverso: diverso per il fatto di essere un poeta in fabbrica e, per questo, dover essere interlocutore di un mondo sempre erroneamente immaginato per pochi eletti, ma certo lontano da quel luogo, dove a quasi nessuno interessava ciò che scrivevo e tantomeno provava ad esserne coinvolto. Nei miei versi degli anni ’70 erano presenti la protesta e le rivendicazioni che animavano la società e che stimolavano le mie grida silenziose. A 20 anni, studiando dopo il lavoro, sono arrivati il titolo di studio tanto sognato e nuovi sogni, scatenati da quella esperienza, con diversi stimoli e prospettive. Nel decennio successivo ho scritto poesia introspettiva ed i miei interessi sono stati tutti rivolti agli ambienti letterari, mentre in fabbrica organizzavo scioperi e parlavo di diritti dei lavoratori, visto che ero stato eletto rappresentante sindacale, carica avuta per 27 anni. I momenti in fabbrica emulavano e rappresentavano gli atteggiamenti di quel periodo storico: l’apatia e l’individualismo imperanti sono stati, negli anni 90, gli argomenti dei miei versi, così come il disagio di non avvertire segni di lotta e di voglia organizzata d’illusione. Nel 1995, dopo l’uscita della mia raccolta di poesie “I r-umori dell’anima”, per le Edizioni Firenze libri, per voce di autorevoli critici, ero un vero poeta del riflusso, nell’epoca del narcisismo dell’anima; per me, significava anche che ce l’avevo fatta, che la fabbrica non era riuscita ad esaurirmi né la vena poetica, né la voglia di scrivere.
Nel 2011, dopo 40 anni, ho lasciato il lavoro ed ho pubblicato “Il risveglio dell’alba”, una raccolta di poesie che è una sorta di addio al passato. Oggi mi dedico finalmente appieno al riordinare il mio percorso di uomo e di poeta, a leggermi ed a rileggermi. Ciò che vedo alle mie spalle, il mio luogo di lavoro, coi suoi “burattini silenziosi”, tanto odiato quanto necessario, è stato la mia fonte, il mio punto di osservazione e di lettura della realtà e strumento per scrivere ciò che dovevo, origine e destinazione di un discorso che ancora mi sento di non dover concludere e che ancora rischia di non aver conclusione.
Oggi siamo invasi da lavoratori precari, che sono sfruttati ed alienati. Sempre alla ricerca di un impiego e della loro vera professionalità, nonostante lo studio e la ricerca perenne per riuscire a trovare un equilibrio ed una collocazione fissa per poter sopravvivere.
“Ti cercherò con astuzia in vari travestimenti, solo le guerre senza fine oscurano il tempo”
La fabbrica oggi è stata reintegrata, perché è stata la mia fonte, il mio punto di osservazione e di lettura della realtà e strumento per scrivere ciò che dovevo, origine e destinazione di discorso che ancora non ha conclusione. La poesia mi fa vincere molte battaglie, mi ha fatto credere nella mia parola, anche se quell’”incespicare”, a volte mi condiziona, mi frena, ma il fiume in piena dei versi abbatte molti muri e molte di quelle riserve che mi sono creato. “Viaggiamo nel vuoto di una città/ fingendo una partenza /un linguaggio originale nell’essere poeti…” Ora, al di fuori della fabbrica non sono più il poeta dei ricordi e dei dilemmi, ma rimango voce esistenziale che ancora vuole urlare versi su questo grande silenzio pieno d’umanità, affinché in esso non possa esserci più tempesta.