Uomini in “libertà condizionata”, di Marisa Cecchetti.
Dopocena alcune donne di paese prendevano una sedia – i bambini una seggiolina – e in fila percorrevano il viottolo che portava ad una abitazione dove c’era la TV. Un’altra era alla Casa del Popolo, ma quello era il posto dei maschi. Senza dubbio ce l’aveva anche il medico, ma non apriva casa a chiunque. Le sedie riempivano l’intero spazio della cucina.
Millenovecentocinquantasette: il Musichiere fu il primo spettacolo che destò meraviglia nella gente abituata ai turni di lavoro nelle fabbriche e sui campi, coinvolse, fece schieramenti, fece parlare di sé e creò divertimento ed attese. Molto, molto meglio questo piccolo cinematografo che i notiziari e le canzonette della radio!
Lo spettacolo, così disponibile – piano piano il televisore arrivò nelle case, senza distinzione di classe sociale – unì le famiglie nel dopocena, portò ad una progressiva sprovincializzazione del pensiero, alla scoperta di nuovi modelli che spinsero progressivamente alla imitazione, creando bisogni mai identificati fino ad allora, mentre anche i più rigidi benpensanti superarono riserve davanti alle giovani donne svestite più del solito che apparivano sul piccolo schermo.
La prima TV ha offerto – con rigida selezione da un punto di vista etico e con un numero limitato di canali e di palinsesti – spettacolo, divertimento e formazione culturale ad una società che l’ha accolta con l’entusiasmo con cui si accolgono le novità che sorprendono e piacciono.
Quando una sera mio figlio di cinque anni, davanti a Carosello, ha allungato una manina e ha compitato c…a…o…s…e…ll…o – la r no, non la sapeva ancora pronunciare – e ho verificato su un giornale che effettivamente riconosceva quelle lettere ed ha imparato a leggere Topolino prima di iniziare le elementari, ho detto grazietelevisione.
Le trasformazioni radicali sono cominciate con gli spettacoli di intrattenimento delle TV commerciali martellanti di spot pubblicitari, con la TV pubblica che non ha fatto di meno, ricavando introiti nell’assecondare la produzione industriale che buttava sul mercato merce di ogni genere reclamante compratori. Mondi patinati, surreali interni di famiglia, femmine ammiccanti accanto a beni di lusso, e oggetti, beni di consumo, immancabilmente impressi nel subconscio di tutti come contenitori di felicità. Un mondo costruito ad arte, corrispondente ad una realtà idealizzata che nell’immaginazione assumeva concretezza ed era agognata sempre più.
Lo spettacolo offerto dai media, così grondante di spot, ha creato progressivamente lo spettatore-oggetto, e l’audience è divenuta la misura delle future vendite. Siamo diventati quello che consumiamo, sfuggenti al richiamo della ragione sempre più obnubilata dal moto accelerato dei bisogni indotti, incapace di scegliere tra i beni primari ed imprescindibili e i beni di consumo superflui. Nel qual caso si prende tutto.
Ma questi beni, primari e non, sono ancora estranei alla maggior parte dell’umanità, per cui restano irraggiungibili – dolorosamente noto è lo squilibrio tra una infima percentuale di chi possiede la ricchezza e l’altissima percentuale di chi non possiede nulla – . La globalizzazione che aveva creato l’illusione di una più equa distribuzione delle risorse, ha lavorato a favore dei potenti ed ha messo i deboli in situazioni di sempre maggiore dipendenza. Lo squilibrio demografico tra il Sud e il Nord del mondo – unito a problematiche di gravità indiscutibile – continua a travasare disperati verso illusorie sicurezze, secondo il principio fisico dei vasi comunicanti.
Lo spettacolo ha progressivamente trovato altre vie, portando l’individuo all’isolamento causato dai moderni mezzi tecnologici, così ognuno sta solo/ sul cuor della terra, ognuno in solitario dialogo con il suo strumento tecnologicamente più avanzato, in comunicazione con gli altri via etere. E’ ormai diventata un’illusione la condivisione o il confronto tra persone che si guardano in faccia, la comunicazione si è fatta sempre più singhiozzante, si sono affievolite le possibilità di interventi educativi a livello familiare. L’individuo – giovane e non – si fa egli stesso spettacolo postandosi sul web e offrendosi al mondo, in un’orgia di condivisione in cui si esporta anche il male.
Che i cattivi modelli siano arrivati dallo spettacolo – senza dimenticare quello di bassa lega inscenato da persone e Istituzioni che dovrebbero essere modelli positivi -, che l’abbassarsi della qualità dello spettacolo abbia influito sui costumi e sulle scelte, è un pensiero abbastanza diffuso. E’ fuori dubbio che la società sia in piena trasformazione e non sappiamo dove approderanno le nuove generazioni cresciute in questo regime formativo.
E’ indispensabile che il buono che esiste ed opera in gran parte della società, che la capacità critica, che le linee etiche, tornino ad acquistare forza, cercando di rosicare alla base il trend che mira a fare dell’uomo un oggetto a comando.
Uomini in “libertà condizionata”, ormai sempre più pigri nel cercare un’idea personale che vada controcorrente, abbiamo perso la purezza di quello sguardo che si illuminava alla campanella del Musichiere. Siamo uomini che consumano di tutto. Più o meno. E si lasciano usare e consumare. L’insensibilità e l’indifferenza si allargano a macchia d’olio, con una tendenza a dimenticare il bene comune.
Si è abbassata l’asticella della compassione nelle coscienze concentrate su se stesse, abituate a proteggersi dalla partecipazione emotiva ai disastri esterni; è scomparso il valore catartico dei drammi umani che vengono costantemente rappresentati, e che talvolta portano invece allo scoperto pericolose volontà imitative e nascoste tendenze a delinquere.