L’utopia della finzione di Marco Ercolani.
Michel Foucault scrive: «La follia è strappata oggi a quella libertà immaginaria che la faceva crescere […] Non molto tempo fa si dibatteva in piena luce, ed era re Lear, Don Chisciotte, ma in meno di mezzo secolo si è trovata reclusa e, nella fortezza dell’internamento, legata alla ragione, alle regole del mondo e alle loro monotone notti».
Proviamo a pensare, allora, all’utopia del Don Quijote.
Cervantes è a Messina, dove sta riprendendosi dalle ferite della battaglia di Lepanto, e medita di inventare un personaggio che renda reali i libri che ha letto e opponga la fantasia della parola a un mondo che produce guerre e massacri. Vuole dimostrare che la realtà può essere polverizzata dai sogni che le inietterà dentro la letteratura. Dopo il suo Don Qujote sarà difficile affermare che notte e giorno sono universi separati, perché lo strampalato hidalgo ingaggerà comiche ma fierissime battaglie per dimostrare l’evidenza del sogno al mondo reale, attraverso l’epos comico delle sue avventure.
Ma quelle avventure restano.
Le chimere restano, insegna Cervantes.
Anzi: non esiste altro che il fumo della Chimera e gli uomini vagano dentro quel fumo.
Le tragiche battaglie di cui parla il Nunzio delle tragedie greche esistono nelle sue parole come il resoconto di drammatici avvenimenti. Ricordiamo le parole del Nunzio, che le evocano. Ma se ogni massacro non fosse che una favola dolente inventata da lui? Se la tragedia di cui sono testimoni le nostre orecchie di lettori non fosse mai esistita se non nella sua immaginazione? Sarebbe per questo meno vera?
Il Cavaliere dalla Triste Figura lascia la sua biblioteca, che narra di favolosi cavalieri erranti, per imporre al mondo, in una ironica autocritica del sapere tradizionale, il suo Libro fantastico. La scena in cui Don Qujote scende nell’Ade è fondamentale. L’Ade di Don Quijote è la caverna di Montesinos, dove il Cavaliere resta poche ore ma crede di restare sommerso per tre giorni e, quando viene issato dalle funi, racconta a Sancho le sue incredibili visioni. Ecco come quel comico inferno obbedisce alla smisurata legge della fantasia, ai ritmi atemporali dell’inconscio.
Si ride dell’hidalgo maltrattato e offeso dal mondo, si ride di lui e con lui, perché tutti i poeti sono irrisi e offesi e rischiano la morte per dare verità alle loro fantasie, ma non si pentono mai di avere fantasticato, perché questa è la loro unica realtà. Alla fine tutti rispetteranno Don Quijote, perché lui sarà stato quello che gli altri cercavano di essere e non furono, meschini e noiosi notabili dell’universo reale: lui solo sarà quello che ha desiderato essere, trasformando le favolose storie di antichi cavalieri nel regno reale del Libro che sta scrivendo. Così lo scudiero Sancho, imitando il padrone, si immagina governatore del regno di Barattarìa e, nella finzione di esserlo, si trova uomo onesto e capace, perché solo dalla finzione giunge l’autentica verità di noi.
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Nella seconda parte del Don Quijote tutti ormai sanno che l’hidalgo è matto e si prendono gioco di lui, in una sorta di coreografica complicità, con lui si divertono e fanno strani spettacoli, e tutto confluisce in un ridere insieme, nel teatro di una burla interminabile.
E quando Quijote morrà rinsavito, nel normale finale, non potrà, quella morte, che coincidere con la fine del libro. Fine del libro. Fine di tutto. Chi potrebbe sopportare la noia uniforme di un mondo utile e ragionevole dopo che è stato traversato da Ronzinante, da Don Quijote e dal fedele scudiero Sancho? La follia è feconda madre di sogni e di maschere, e il mondo è nulla nei confronti dell’utopia del libro. Anzi, non esiste che il libro: lì tutto trova una magica, folle, ritmica comprensibilità, e nel teatro della scrittura si capovolge con felice ironia ogni legge. Chi, dopo aver letto Don Quijote e goduto delle sue avventure fantastiche, tornerebbe a riaderire al modello del mondo, al noioso resoconto delle “cose vere”?
Ma Cervantes non si accontenta di avere inventato Don Quijote.
Tomás Rodaja, il protagonista della novella esemplare El licenciado Vidriera, racconta, in prima persona, la storia di un’altra follia: Tomás, senza mezzi termini, crede che il suo corpo sia diventato di vetro. Dalle trasgressioni medioevali delle feste carnascialesche, da una follia collettiva che al tempo del Carnevale aveva licenza di frantumare tutte le gerarchie, deriva, in epoca rinascimentale e barocca, la figura personalizzata del folle: il bobo, il gracioso, il fool. La follia individuale prende il posto della licenza temporale. Ma perché la sua forma dominante è quella del ‘sentirsi uomini di vetro?’ Il commentario di Enea Silvio Piccolomini sulla pazzia di Carlo VI, gli studi sulla malinconia di celebri medici come Ponce Santa Cruz, una favola di Tommaso Garzoni tratta da Theatro de’ vari e diversi cervelli mondani, ci riportano alla parabola dell’uomo di vetro; e già Galeno e Ippocrate, nell’antichità, avevano parlato di casi analoghi, senza proporre interpretazioni. La figura del folle si delinea come opposta, se non speculare, alla figura del ‘conquistador’ alla Fernando Cortez. Il mondo non viene più conquistato ma allontanato. Il corpo indifeso si nega al rapporto con le cose e le persone, che ne minaccerebbero la fragile integrità. L’immagine del ‘corpo di vetro’ non ci parla delle capacità riflettenti dello specchio, della potenza mitopoietica della rifrazione, ma di una fragilissima materia perennemente esposta agli urti, alle fratture, alla distruzione. Questa distruzione possibile e sempre imminente è il ‘luogo di follia’ in cui l’apparente solidità del visibile cede alle magiche reti dell’utopia poetica.