Verdemare di Alba Gnazi, note di lettura di Luigi Paraboschi

Verdemare – cronologia inversa di un andare – poesie di Alba Gnazi, La vita felice Edizioni, 2017, note di lettura di Luigi Paraboschi.

    

      

Scrive il filosofo Walter Bejamin in Aut-aut  (a proposito delle traduzioni di poesia in genere) che “nessuna poesia è per il lettore, nessun quadro per l’osservatore, nessuna sinfonia per l’ascoltatore“ intendendo forse che l’animo con il quale l’artista ha prodotto un’opera è indecifrabile e il prodotto ottenuto non è altro che lo specchio della sua interiorità,  che nessun lettore, ascoltatore od osservatore potrà afferrare fino in fondo.

Ed è questo pensiero dello scrittore tedesco che mi ha fatto soffermare su un verso di questa raccolta:
                              Ma la poesia non è perfettamente inutile?“

Convengo che spesso la sensazione di inutilità dello scrivere versi appaia evidente  anche a me quando mi approccio a qualche testo da giudicare o, meglio ancora, da leggere per passione, per bisogno di condivisione.

Tuttavia ogni volta accantono l’interrogativo perché se il poeta si mette a nudo davanti al lettore con le sue fragilità, incertezze, ansie lo fa per bisogno di manifestarle e quindi dona al testo una sua utilità. Il lettore, da parte sua, forse non considererà inutile riconoscersi in alcuni versi, troverà soddisfazione in una condivisione emotiva col poeta.

Gnazi, in questa raccolta strutturata in 9 parti, espone il proprio Io e lo fa con una cura quasi ossessiva per la parola precisa, direi anzi per la parola ricercata, quasi  “sofisticata“ perché fuori dall’uso consueto del nostro dire o conversare.

Sentite la bellezza di questo verso:

potrei accontentarmi del dialetto stabile del falco/
scagliato a testa in su come un ossimoro/ 

ove si deve rilevare che l’ossimoro  sta proprio in quel participio “scagliato“ che, riferito a un falco cacciatore, difficilmente lascerebbe pensare ad un gesto indirizzato verso l’alto, specie se si aggiunge “a testa in su“, e da qui nasce la negazione in termini che sta nell’ossimoro.

Sottolineo anche la capacità di inserire nei testi aggettivi o sostantivi che costringono il lettore alla ricerca precisa del significato, disabituati come siamo alle parole inusuali, parlando dell’ Arno sul cui ponte ella transita scrive:
rapita dai tuoi solchi che/ ostili, avvolgenti/ squamavano l’acqua e le rive/ di onda in onda // 

Vorrei invitare a osservare il verbo “squamavano“ e riferirlo all’acqua sottostante.
Le squame sono l’abito dei pesci, ma in questo caso rimandano al movimento dell’acqua del fiume che si increspa e riluce come squame.

In un’altra trovo:
(più forte dipingo le mie tarantole / contro i vetri uggiati di pioggia/ )

e sono attratto da quell’aggettivo “uggiato“ che nasce da “uggia“ nel senso di fastidio, ma potrebbe anche essere inteso nel senso più tradizionale e cioè “ombreggiati“ di pioggia. In entrambi i casi il significato è adattissimo e corrisponde all’atmosfera della giornata
e ancora:
verso sera la nebbia fiotta/ raggiri di luce a sbiancar la guida / solitaria in mezzo ai campi sfibrati dall’urlo/ apocope degli stormi in stinta livrea

qui mi balza all’occhio quel “fiotta“ che abitualmente tutti usiamo per indicare qualcosa che fuoriesce con forza, ma che, riferito alla luce che attraversa la nebbia è perfetto,  mentre “l’apocope“ che si usa solitamente per alludere a qualcosa di troncato, in questo caso è in relazione  al grido stridulo delle gazze che indossano un piumaggio simile a una livrea bianca e nera  ed emettono grida strozzate.

In questa poesia compiuta così in cinque versi

col palmo di seme
mio padre alla terra
rammenta il mestiere
suasa le esplode
d’un bruno ferace

rilevo la perfezione dei versi, senari e settenari, la brevità del testo simile ad un haiku, e quel “suasa“ che magnificamente esprime tutta la capacità dell’agricoltore  di convincere la terra a lasciarsi inseminare per poi esplodere in quel  bruno “ferace“ ove l’aggettivo sembra voler  assegnarle  una ricchezza opulenta.

Gnazi trae grande ispirazione dalla natura, come dimostra nella poesia sottostante

Mattino d’inverno

col buio del primo sole si rinnovano
i rovesci intessuti dei mondi
la brina si ripete uguale
nel tempo che ha un unico rito
un’unica patria: sgoccia
sui cigli, offusca i campi
ghiaccia quieta fino
ai raggi
Non possiede rumore

Nella poesia “A Worms ho conosciuto Dio“ che penso racconti di un viaggio in questa cittadina della Germania  in cui Martin Lutero, sotto la protezione del principe locale, ebbe modo di tradurre la Bibbia in tedesco e di mettere a punto le sue idee sul protestantesimo, scopro ancora questa strofa finale dalla quale si avverte chiara ancora una volta la passione per il paesaggio nell’autrice:


Condita di metafore la realtà paventa
fortunali di passeri su una grondaia, voci e becchi
dirottati dalla fuliggine: Ma dura poco, ne sa qualcosa
il picchio nascosto tra le fronde, la gru spolpata
da occhi naufraghi, le uova clamorose della ghiandaia
lanciate da un curva sopra un masso: a gocciolare così
piano
nel secco delle foglie

La sezione del libro intitolata “Tornare all’acqua“ è ricca di ricordi del nonno, piccolo bonario imbrogliacarte al gioco in famiglia,  amante come tutti gli anziani di un bicchiere di vino, come appare qui:
a cinque passi e cinque lustri mi corregge/ la voce di mio nonno/ troppo nobile il suo/ aggirarsi tra i filari dell’alcool/ la sua partita sempre vinta/ per un punto 

Anche le figure del padre e della madre sono ritratte con dolcezza e sintesi in questa:
Le curve senza rumore, le strade/ qualche stridio di pioggia/ la voce della madre/ arcuata e prevista/ nuova/ intaccata come un nido/ a fine estate/ e il cioccolatino/ della buona notte/ ogni sera/ mio padre.//

Se siete lettori che  desiderano afferrare un testo TUTTO e SUBITO sappiate che VERDEMARE è un  bellissimo lavoro ma ha bisogno di molta attenzione, pazienza e cura. Poesia per chi ha pazienza di riflettere e non fretta di capire.

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in apertura opera di Alberto Cini

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