Vinti
racconto di Monica Dolci.
Il vecchio teneva le mani nelle tasche della tuta da lavoro e con la destra stringeva la pistola. Sudava e respirava a fatica, forse per il caldo o forse per la paura. Quando raggiunse la cima dell’uliveto, avvertì un rumore, si voltò e la vide. Era giovane, aveva capelli biondi e occhi dello stesso colore di quel mare che in lontananza copriva l’orizzonte. Il suo sguardo era fisso e quasi sprezzante. Era pronta ad affrontare finalmente il colpevole di avere negato a sua madre l’appoggio di un padre, ma ebbe subito una brutta sorpresa.
“Eccoti”, disse il vecchio faticando a recuperare il fiato. Estrasse la pistola, mirò il viso attonito della ragazza e premette il grilletto. La pistola fece un ridicolo click che ebbe come unico effetto quello di zittire il canto della cicala. L’uomo continuava a puntare l’inoffensivo giocattolo; a ogni click il suo viso si contraeva in una smorfia di rabbia fino a che, spossato, si accasciò a terra. Li raggiunsero un uomo robusto che aiutò il vecchio a rialzarsi e una donna in camice che gli si rivolse con dolcezza: “Italo mi guardi, sono Elisa, venga con me.” I due si incamminarono lentamente lungo la discesa che portava all’edificio centrale della Casa di Riposo per Reduci e Combattenti mentre l’infermiere avvicinò la ragazza.
“E’ una parente? Cosa è successo?”. “Non lo so” rispose lei ancora scossa, “ Non abbiamo parlato. Appena mi ha vista ha reagito in quella maniera.” Parlava un buon italiano con un forte accento straniero. “Vengo da Monaco, non so se ho fatto bene a venire qui. Speravo potesse capire, volevo parlare con lui”.
“Certo che la può capire, Italo è un uomo tranquillo e in buona salute. E’ lui ad occuparsi degli ulivi del parco, ma succede. Alla sua età i ricordi possono scatenare emozioni forti, difficili da gestire, soprattutto per i nostri ospiti che hanno vissuto momenti terribili. Non è mai riuscito a liberarsi di quella pistola, dice sempre che un giorno gli servirà per fare giustizia. Venga, le offro un bicchiere d’acqua”. Le guance della ragazza, durante la discesa ripresero colore e sul viso latteo le gote si tinsero di rosa rivelandone la giovane età.
“Questi alberi” disse l’uomo, “sono come i nostri ospiti, saturi di passato ma con radici forti e tronchi contorti che raccontano una dura ma tenace resistenza”.
Raggiunsero il salone dell’edificio dove gli ospiti della casa di riposo soggiornavano guardando la tv, giocando a carte o semplicemente stando seduti a guardare fuori, perduti nei loro pensieri, lasciando scorrere le immagini che invadevano le loro menti approfittando dei vuoti che la vita attraversa nel rallentare prima di fermarsi. L’uomo fece sedere la ragazza e le portò l’acqua. “Come ti chiami?”.
“Ingrid e credo che mia nonna abbia conosciuto il signor Italo Bianco”.
“Io sono Giacomo! Ora però devo andare: puoi aspettare qui, passerò a vedere come sta Italo e ti farò sapere. ”
Era pomeriggio inoltrato quando Giacomo venne a prenderla per accompagnarla da Italo. “Vieni, ti aspetta, ha riposato un po’. Gli ho detto di te. Ti chiedo solo di non forzare, capisci? Rispetta i suoi silenzi. E se c’è bisogno, suona.”
La stanza era fresca e il sole, tramontando, proiettava attraverso la tapparella mezza abbassata una luce calda che colorava le pareti di pallido arancio. La ragazza si sedettevicino al letto di Italo. “Buongiorno signor Bianco, mi chiamo Ingrid Maier. Credo che stamattina mi abbia scambiata per un’altra persona.”
Il vecchio guardò la ragazza a lungo: “Ti chiami come lei e hai i suoi occhi”
“Mi parli di lei, vuole?”
Il vecchio strinse gli occhi, le sue rughe conversero in un unico punto, come i fili di una ragnatela. Ingrid si tormentava le mani senza guardarlo.
“Sì. L’ho conosciuta nel campo di concentramento di Flossenbürg. Ero stato deportato insieme a mia moglie Caterina, la mia Rina, eravamo molto giovani. Ci separarono all’arrivo e non seppi nulla di lei per molto tempo. Le umiliazioni, la fame e le fatiche erano più sopportabili della mia ansia per lei. Volevo almeno sapere se era ancora viva.
Una sera, mentre tornavamo dalla cava di pietra, decisi di provarci. Era già buio, saltai di nascosto giù dal camion e andai a cercarla. La riconobbi subito nonostante fosse rasata, dimagrita e sporca, camminava in mezzo ad altre detenute.
Capii che stavano rientrando dall’infermeria: alcune si tenevano la mano in mezzo alle gambe, altre piangevano sorreggendosi le une con le altre. Sapevo cosa succedeva in quelle infermerie e la rabbia s’impossessò di me rendendomi incosciente. Avrei dovuto andarmene, accontentarmi di saperla viva invece entrai di nascosto nel block dove erano dirette. Ingrid era la loro sorvegliante, spinse dentro le ultime donne aiutandosi con un bastone, come si fa con le mucche, poi chiuse la porta.
Quando spensero le luci andai da Rina ma Ingrid mi scoprì, colpì il viso di Rina con uno stivale e cominciò a fissarmi, sfiorò il mio inguine con il bastone. Era più alta e più robusta di me, mi trascinò in un angolo. Mi mise una mano fra le gambe e con l’altra mi stringeva il collo. Capii subito cosa voleva. Rina ci guardava, avvertivo la sua angoscia. Chiusi gli occhi e pensando ad altro riuscii ad avere un’erezione che mi permise di soddisfarla e di salvare la vita a entrambi. Pagò la nostra umiliazione regalando a Rina il suo scialle e poi mi spinse verso l’uscita ripetendomi Freitag, venerdì. Il messaggio era chiaro. Fu così che incominciò. Rischiando ogni volta la vita, raggiungevo il block; lei mi mostrava Rina senza farmi avvicinare e poi… ricambiavo il favore”
La ragazza ascoltava a testa bassa, mangiandosi le unghie.
L’uomo distolse lo sguardo e ci fu un lungo silenzio. Quello che stava per dirle non l’aveva mai raccontato a nessuno.
“La notte cominciai a sognare di lei, sentivo i suoi sospiri dannati e disperati; mi svegliavo eccitato in preda al desiderio per la mia aguzzina e odiando me stesso.
Poi venne un giorno in cui ebbe inizio l’evacuazione del campo per il trasferimento dei detenuti a Dachau. Nel trambusto Ingrid mi mise in tasca una pistola, mi strappò dal collo il cartellino che mi identificava come lavoratore e mi fece fuggire. Camminai allontanandomi dal campo per alcuni giorni, poi ad un certo punto, in preda al rimorso, decisi di tornare indietro. Dovevo uccidere Ingrid.
Mi raccolsero in fin di vita a pochi chilometri da Flossenbürg i reparti di fanteria americani.
Seppi poi che Rina è morta durante la marcia verso Dachau”.
Il vecchio si asciugò le lacrime che erano scese silenziose senza incrinare nemmeno per un attimo la sua voce poi, guardando la ragazza, sussurrò: ”Di Ingrid non seppi più nulla”
La stanza era ormai quasi buia ma nessuno dei due pareva accorgersene.
Giacomo entrò con il vassoio della cena, lo mise sul comodino, accese la luce notturna e uscì. Ingrid prese il vassoio e con cura lo appoggiò sul grembo di Italo che si mise a mangiare la minestra in silenzio.
“Ingrid scoprì a Dachau di essere incinta.” La voce della ragazza era roca per l’emozione: “Appena le SS se ne accorsero le fu tolto l’incarico e fu inviata ad un istituto per ragazze madri vicino a Monaco. Raccontò di essere stata con un soldato tedesco di cui non conosceva il nome. Se avesse detto la verità l’avrebbero costretta ad abortire. Partorì una bambina che chiamò Helga. Restò sola tutta la vita e facendo la sguattera riuscì a crescere la figlia, a darle un’istruzione. Helga diventò donna, si sposò ed ebbe due figli, una femmina e un maschio. Solo in punto di morte Ingrid svelò alla figlia il nome del padre consegnandole un documento su cui c’erano una foto e le generalità.”
Italo sollevò lo sguardo dal piatto e guardò la ragazza negli occhi. Lei si alzò, lo liberò dal vassoio poi continuò: ”Helga, mia madre, è morta l’anno scorso di cancro, ma prima mi ha dato il tuo cartellino.”
Il vecchio appoggiò la mano sopra quella della ragazza, nessuno dei due parlò. Nella stanza l’aria tiepida della sera ridiede fiato ai respiri affaticati dalle emozioni, ammansì i ricordi e stemperò il dolore.
La mano di Italo si fece più pesante, Ingrid si soffiò il naso, gli asciugò le lacrime e gli rimboccò le coperte.
Estrasse il cartellino di Italo dalla tasca dei jeans e lo posò sul comodino insieme al numero del suo cellulare.
Prima di uscire guardò un’ultima volta il vecchio addormentato, sussurrò: “Tschüss Großvater“ e se ne andò.