Vivere il confine di Vera Lúcia de Oliveira.
Mi ha sempre colpito il bisogno umano di dire, di dare attraverso la parola un segno della nostra esistenza, un’attestazione del nostro stare qui ora, del nostro voler essere-per-l’altro, un altro che può essere una persona della famiglia, o un amico, o un nemico o, in assenza di queste figure, uno sconosciuto incontrato in un bar, in una stazione, in un viale di città, in una fila del supermercato, in un autobus, in un aeroporto.
Che le parole facciano ammalare e che abbiano il potere di guarire, prima ancora di Freud e Yung, lo avevano intuito i poeti. La poesia è il linguaggio della discesa nell’anima e nel cuore delle cose. Perché è un pensamento capace di sentire, perché è un sentimento pensante, essa è una forma di conoscenza interiore molto profonda spesso alternativa alle categorie razionali del pensiero. I poeti, sostiene Umberto Galimberti, “sono tali perché debordano dai limiti della ragione, e per questo giustamente Heidegger li chiama i più arrischianti” [1].
È “arrischiante” camminare dentro il dolore e la morte. Eppure la poesia spesso scruta questi territori estremi dell’umano. I poeti lo fanno non per masochismo, ma per amore della vita, per desiderio di contenere l’essere in tutte le sue dimensioni e confini, per fame di abitare e debordare questi stessi confini.
Qualche mese fa, in un incontro a Camaldoli, una persona attenta e gentile mi ha chiesto di indicare quello che mi sembrava il mio libro più bello. Mi ha fatto una domanda difficile, ho risposto. Un autore pensa sempre che l’ultimo libro sia il più maturo e compiuto e quindi sarei tentata di indicare l’ultimo, ma che sia bello, non lo potrei dire, se per bello intendiamo ciò che appaga quel bisogno intrinseco di luce, armonia, gioia, colore. Al che mi sono sentita dire che non mi dovevo preoccupare, che le poesie sono belle in un’altra maniera.
Questo mi ha fatto pensare alla strana gioia che provo leggendo alcuni degli autori che più amo, come Dostoievski, Céline, Guimarães Rosa, Fernando Pessoa, Primo Levi, la cui opera ho interamente riletto in questo periodo estate. Nei libri Se questo è un uomo, La tregua e I sommersi e i salvati Primo Levi scende nell’inferno di un campo di concentramento, espone la lingua italiana e le sue sillabe all’abietto, alla degradazione dell’umano, all’orrore che milioni di uomini hanno attraversato nel cuore dell’Europa. Afferma Primo Levi, quando inizia a narrare questa immersione nel male assoluto, l’attraversamento dei limiti del dolore fisico e morale, cosa che diventò, come sappiamo, la ragione della sua vita: “Scrivevo poesie concise e sanguinose, raccontavo con vertigine, a voce e per scritto, tanto che poco a poco nacque poi un libro: scrivendo trovavo breve pace e mi sentivo ridiventare uomo”[2]. Attraverso la sua parola “arrischiante” egli rivela, illumina e riordina il caos disumanizzante, ed essa reintegra, trascende ed eleva.
Non so se le mie poesie possono guarire gli altri, so che mi aiutano a vivere, perché attraverso le parole vedo meglio e di più, incontro l’altro, e lo ascolto. Il libro La carne quando è sola (Società Editrice Fiorentina, Firenze, 2011) coglie dialoghi spezzati, monologhi di chi è solo dinanzi a Dio e al mondo, coglie il corpo nudo esposto al tempo, coglie il movimento della coscienza che si ribella, coglie il desiderio di essere amati, la rabbia di essere rifiutati. Uso la prima persona perché ho cercato di stabilire un rapporto empatico con voci che sollecitavano ascolto. Mi è sempre piaciuto conoscere e vivere, attraverso l’empatia, sentimenti e stati d’animo degli altri, di chi ho incontrato e incontro.
Ognuno di noi è attraversato da sentimenti contradditori, ognuno di noi – nel suo dentro – ha parole vere e estreme. Bisogna imparare di nuovo a distinguere, nel frastuono, le parole vere. Rivendico le voci, le parole umane autentiche come segno di noi, segno della nostra identità, della nostra attesa, della nostra consapevolezza, della gioia e dolore con cui attraversiamo la vita. Esse dicono di noi, sono l’orma lasciata sulla strada percorsa, esse ci aiutano a vivere e a guarire della ferita di essere fragili e finiti in un universo sconfinato che fa tranquillamente a meno di noi.