Voce di frana:
“La lingua parlata del neocolonialismo” poesia di ENEA ROVERSI.
Di SILVIA SECCO
La vasta scacchiera del mondo neocoloniale, nelle maglie della quale la nostra contemporaneità si rinserra, è il tracciato in cui sussistono il bianco, il nero, il perimetro del riquadro: nient’altro. Il pedone non ha coscienza di essere tale. Nomina sé stesso cavallo oppure maestà di re o di regina, ma non è lui a decidere, non la mossa né il ruolo. La grande scacchiera vive il brulicare: il movimento imposto dallo stratega (giocatore ed artefice).
Eppure, dice il poeta, la scacchiera dell’universo neocoloniale è crepata. Nel silenzio collettivo, nel minimo stato collettivo di questa “quiete” di morteinvita (da encefalogramma piatto) qualcosa, alle volte, si sgretola e frana. Pare di no, perché accade di notte mentre tutto dorme. Pare di no, perché accade di giorno, a luce piena, mentre tutto prosegue il sonno. Eppure accade: potenzialmente può accadere. Allora, è in questa crepa la speranza? È nella faglia del reticolo imposto che è ancora possibile una resistenza vocale indipendente, non veicolata, serva di nulla e di nessuno?
Enea Roversi dà alla stampa nel 2019 con la casa editrice Arcipelago Itaca la sua raccolta poetica Incroci obbligati, libro che raccoglie testi scritti nell’arco di oltre vent’anni e che racchiude, a parere mio, uno dei piccoli, potentissimi miracoli poetici di questo tempo e di questa generazione: la poesia La lingua parlata del neocolonialismo. Quattro stanze di voce che grida ciò che non esiste, in una ripetizione per poderosa negazione e che, per questo suo vigore decostruttivo, per questo suo rovinare che scardina, frana e divelle, si fa forza generatrice di alterità, magma alluvionale genitore.
Se non esiste il talento, non è mai esistito: perché insistere? Perché scrivere? Perché voler incidere in versi, significazione e invettiva, una superficie di pensiero livellata dall’opinione comune, mai più liberamente ed autonomamente praticabile? Non esiste apparentemente nulla di ciò che la pedina chiama bellezza. Non esistono talento né bellezza, sentimento, anima. Non esiste l’arte, non esiste la poesia, non esistono i poeti. Non esistono il pericolo né la percezione (del rischio o della via di uscita). Non esistono la perfezione né la verità. Esistono, sono in atto nel reale, esclusivamente il risentimento, il fegato, l’impoetico che cova il male, il ragno, il passo falso sopra il falso piano. Esistono la prescrizione del medico curante, il dettato (unicamente da trascrivere in un solo linguaggio conforme), l’incrocio, il fermo obbligatorio. Esiste il ridicolo del moto rotatorio dentro l’ingranaggio colossale: la marcia del soldato (esecuzione che non chiede, che meramente compie).
Ma qui, la sentiamo, ecco questa voce di slavina: la lingua urlata dei portatori sani di follia. L’argot rovesciato e spalancato all’universo della collettività umanissima. Il gergo di fuoco che nega e per questo dice tutto quanto: la nudità del re, la sordocecità del gregge di corte, la prossima morte di ogni senso.
Tutta la poesia di Enea Roversi, come ben sottolinea Enzo Campi nello scritto di postfazione a Incroci obbligati, si presenta come una sorta di “narrativa che ci informa sullo stato delle cose”: stato di fango nel quale anche il poeta stesso è preso, stato dal quale anche la sua voce (che dice) non riesce né vuole “chiamarsi fuori”. Il boato di frana, in questo contesto, non è il grido nel deserto: non è messianico e non intende la grazia per nessuno, ma grida. Non pretende l’educazione e non propone: batte i piedi, scuote il capo, grida. È lo strepito nella stanza dalle imposte chiuse. È l’ululato nell’abitacolo dell’auto: il semaforo rosso, il pugno che picchia il volante all’incrocio.
Per tutto questo, forse, non soltanto alla poetica Pasoliniana possiamo fare riferimento al cospetto di un testo – o di testi – come La lingua parlata del neocolonialismo, richiamo felicemente indicato anche da Anna Maria Curci nella sua nota di lettura: “Gli Incroci obbligati sono tappe, rotatorie e scontri con barriere; essi sono, altresì, gli incontri di senso resi possibili – predisposti e, per questo «incroci obbligati» – in una particolarissima scacchiera, quella del cruciverba. Già nel 1974 Luce d’Eramo aveva fatto ricorso, in Cruciverba politico, a questa metafora, per smascherare manipolazioni e manovre diversive nei mezzi di comunicazione. Il senso dissenziente si sprigiona nei testi di Enea Roversi da una lucida analisi linguistica, che ha fatto tesoro della lezione che Pier Paolo Pasolini diffuse negli anni Sessanta del secolo scorso in saggi e articoli, come Lo ripeto: io sono in piena ricerca. Analisi chiara e spietata, necessariamente spietata perché veritiera: è questo il caso, per esempio, di La lingua parlata del neocolonialismo. Analisi spietata verso di sé, non solo verso nuovi miti, mode, menzogne e riti, brillanti sedativi…” (Su Incroci obbligati, per Poetarum Silva, 2020).
A me viene alla mente, chiara e spietata, una specie di beatitudine eremitica. Quella dei perdenti al punto di partenza, pronti tuttavia alla voce di scatto: la grande voce della generazione Beat americana, la “santità” di Kerouac, l’Howl di ribellione e di sconfitta di Allen Ginsberg:
“Ho visto le migliori menti della mia generazione distrutte dalla follia, affamate isteriche nude, trascinarsi nei quartieri negri all’alba in cerca di un sollievo astioso, alternativi dalle teste d’angelo in fiamme per l’antica celeste connessione con la dinamo stellata nel meccanismo della notte” (1955).
Ecco, allora, nel grido di negazione, in La lingua parlata del neocolonialismo, io vedo la prima selce che si smuove: si stacca dal fermo, rotola e precipita giù. E vedo che trascina, nel suo fragore di rovina, il complesso totale del precipitato.
La lingua parlata del neocolonialismo
Non esiste il talento, non è mai esistito
non c’è spazio per la bellezza nei marci corridoi
dei nostri centri direzionali operativi mercantili
le pareti mobili di zucchero nascondono
scrivanie da encefalogramma piatto
non esiste il sentimento, non esiste l’anima
il vuoto a rendere della redenzione alcolizzata
esiste il risentimento, esiste il fegato
l’animella caramellata edulcorata e sugosa
che cova il male distillato goccia a goccia.
Non esiste l’arte, non è mai esistita
dietro la tela c’è un ragno affetto da mitomania
dentro la cornice la polvere d’oro centrifugata
il museo ha scale a chiocciola scivolose e maleodoranti
intricate e impossibili come quelle di Escher
gli scantinati sono colmi di storie capovolte
e al piano di sopra il muschio impregna gli affreschi
possiamo accomodarci in fila alla cassa
con il postmoderno infilato nelle buste della spesa.
Non esiste la poesia, è una truffa da allibratori
esiste la prescrizione del medico curante
scritta a bandiera con calligrafia da antico Egitto
esiste la lingua parlata del neocolonialismo
e quella urlata dei portatori sani di follia
non esistono i poeti, sono fuggiti da questo mondo
hanno costruito una nave con il Lego e sono salpati
hanno rimosso il romanticismo ma non si sono salvati
non esiste la poesia, non è mai esistita
non c’è spazio per la bellezza nei nostri ipotalami.
Non esiste la percezione, non esiste il pericolo
non esiste la perfezione, esiste il ridicolo
non abbiamo nulla da perdere se non il futuro
aspettiamo la glaciazione del reale sconosciuto
con la testa fasciata e un corno rosso nella tasca
aspettiamo il Messia dalle labbra dorate
il cesto di mele proibite da addentare morbosi
perché appena entrati non esiste via d’uscita
siamo consapevoli che la ricerca non ha senso
perché non esiste la verità, non è mai esistita.

Enea Roversi è nato a Bologna, dove vive. Si occupa di poesia da molti anni ed è stato pubblicato su antologie, riviste e blog letterari. Le ultime raccolte pubblicate sono: Incroci obbligati (Arcipelago Itaca, 2019), Coleoptera (puntoacapo Editrice, 2020, Premio Città di Acqui Terme 2021) e Incidenti di percorso (puntoacapo Editrice, 2022). Fa parte dello staff del festival Bologna in Lettere. Gestisce il sito www.enearoversi,it e il blog Tragico Alverman.