Voci indipendenti: le letture di Paolo Polvani. Rubrica. Paola Mancinelli, Lucio Toma, Daniele Giancane, Anna Maria Curci.
Libri come terapia: note di lettura a La resa del grazie, di Paola Mancinelli, Ladolfi editore 2019
La biblioterapia non è così recente come pensiamo, già durante la prima guerra mondiale alcuni psicologi somministravano la lettura di libri a soldati particolarmente provati da quanto avevano vissuto, con risultati positivi, e un uso sperimentale ne è stato fatto diversi decenni orsono nella cura delle malattie mentali, ma già Aristotele considerava la letteratura uno strumento terapeutico. Una psicologa francese avanza l’ipotesi secondo cui la lettura che descrive un comportamento, un movimento motorio, attivi gli stessi stati mentali del compiere realmente quel comportamento o movimento: quindi, leggere di qualcosa sarebbe, a livello mentale, uguale al simularla.
Non molto tempo fa ho letto un libro avvincente, molto bello, “Portare la vita in salvo”, in cui lo psicoterapeuta Vito Calabrese racconta di come ha cercato di portarsi in salvo dal dolore che gli aveva devastato la vita in seguito all’uccisione della sua compagna, psichiatra, a opera di un paziente, e di come la letteratura abbia costituito uno degli appigli più importanti:
“Questi scrittori avevano trovato le parole per descrivere quello che mi stava succedendo e quello che mi aspettava e queste potevano portarmi in salvo. Ho cominciato a leggere poesie, le cui parole sono come pesci che vengono dal silenzio, abituati a nuotare in acque scure: esseri schivi che non intendono svelare ciò che mostrano, che non si sa da dove vengano o dove siano diretti”
Questa premessa per dire che se fossi un biblioterapeuta non esiterei ad annoverare, e quindi a prescrivere, La resa del grazie, di Paola Mancinelli, come cura dalla sicura efficacia. Tutto il libro costituisce una sorta di riconciliazione gioiosa con la vita, di resa luminosa alla bellezza delle parole, fin dall’inizio:
Ogni parola
che esce dalla bocca
chiama come una madre
fa rumore di tavola
una festa di cose nuove da scartare….
La fisica quantistica ci ha regalato alcune importanti rivelazioni, per esempio che esiste l’aura, e che i suoi colori cambiano in base agli stati vitali che momento dopo momento attraversiamo, e Paola ce ne offre una conferma nei versi subito successivi:
Quando dici il bene fai una luce
come di grazia
che attraversa il corpo
e ringrazia
quell’onestà dichiarata…
Scrive meravigliosamente bene Giovanna Rosadini nella prefazione: “Resa sia come sinonimo di abbandono, quella disposizione nei confronti della vita che permette l’accoglimento in senso lato – degli eventi, dell’altro, di ciò che si presenta alla nostra coscienza e consapevolezza; sia come voce del verbo rendere, riferita al sostantivo grazie che, da plurale di grazia (qualità di ciò che è delicato e armonico), viene usato per esprimere la propria gratitudine e riconoscenza a qualcuno”.
Una disposizione che rimanda a una saggezza superiore, quella per cui tutto insegna, tutto indirizza verso un atteggiamento più consapevole:
Perché l’unica cosa
che conta veramente
è questo nostro esserci
il dire noi qui, adesso
in questo istante
dove si veste di tutto
anche il nostro niente.
Ma al di là del travaso di saggezza e riconciliazione che stimola nel lettore, importa la resa della grazia con cui gli assunti vengono esposti, esiste una evidente coincidenza di consapevolezza etica e disposizione estetica che riveste di bellezza ogni incedere del verso, ogni passo spalanca e regala paesaggi di grande fascino e richiamo.
Alcuni attacchi si rivelano davvero indimenticabili: – Io ho un amore / vasto come un numero periodico…- Ma non vorrei rovinare la festa dei futuri, auspicabilmente numerosi, lettori, con troppe anticipazioni su questo libro curativo. Ne fornisco solo un delizioso assaggino:
Organizzami una gioia
una di quelle dai sorrisi larghi
che mostrano i denti
allineati come tanti invitati
in attesa del debutto.
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La Vita in bilico: note di lettura a La strada di Damocle di Lucio Toma, Arcipelago Itaca edizioni
Sono passati tredici anni dall’uscita della raccolta di versi di Lucio Toma A gonfie vene. Il titolo rispecchiava e amplificava in maniera perfetta un corpo a corpo con la malattia. Adesso esce il secondo libro di Lucio, dal titolo La strada di Damocle, in cui la precarietà del vivere viene meravigliosamente sintetizzata nella scelta del titolo.
Ho sempre pensato che la cura e l’attenzione nella scelta di un titolo si riverberano poi nella cura e nell’attenzione dei singoli componimenti, e che un buon titolo tiene fede alle premesse e mantiene sempre le promesse.
Scrive Anna Maria Curci nella prefazione che “Strada di Damocle è attraversata da una disposizione all’umor nero che non intende lasciare spiragli di vaghezza né superflui e fallaci sfiatatoi”.
La poesia di Lucio fluisce tra le sponde di una feroce ironia e un sarcasmo senza remissioni, e come per il titolo complessivo del libro, funziona molto bene la scelta dei titoli di ogni singolo testo: Lo spartito dei prezzi, Una festa madornale, Salone di varia umanità, a titolo di esempi, i quali rappresentano un tentativo perfettamente riuscito di far approdare la poesia in porti poco battuti, di esplorare nuovi territori.
Ulteriore pregio della raccolta risulta la particolarissima ambientazione che funge da fondale scenografico nel quale la poesia si dipana, e ne costituisce la cifra originale: lo scazzo dell’attesa al centro commerciale dove una commessa è intenta a spogliare un manichino, il cimitero dove a Matteo oggi hanno sfossato i nonni, il salone del parrucchiere dove s’incrociano i pettegolezzi, il ristorante per la cena dei poeti, ambienti in cui con perfetto realismo e aderenza al vero gli argomenti sono le barzellette italiche e il culo di Belen, i profughi del mare e i martiri dell’Isis, una salutare, bellissima immersione nella contemporaneità, che a me sembra il campo privilegiato del fare poesia, è questa la realtà che al momento ci è data e da questa realtà è bene che attingiamo l’acqua della poesia.
La cifra stilistica conferma in pieno la consapevolezza di tale scelta, i materiali linguistici in uso nella poesia di Lucio sono le parole e le frasi di tutti i giorni, deliberatamente impiegati a fini parodistici o dissacratori: “allora c’è un politico italiano, un imprenditore americano, un naufrago nigeriano…” o anche la madonna nera che balza tra la folla in cerca di pischelli: “ma quel che vede è la fumante gioia / di cui è fatta la fuga dalla noia.”
Un utilizzo di materiali bassi, comuni, per fare a pezzi, per massacrare la banalità del vivere, l’inganno in cui continuamente ci dibattiamo.
Tuttavia sguazzare nelle acque torbide della contemporaneità non comporta assolutamente sminuire o banalizzare la capacità artigianale di confezionare il verso, che costituisce l’autentico passaporto per approdare alle coste della poesia, quella sapienza manuale di disporre le parole in maniera esatta, compiuta.
Nella nota introduttiva a cura dello stesso autore, leggiamo che “Qui la leggenda della spada sospesa introduce a una condizione esistenziale, che, da una prospettiva d’indagine personale e periferica, diventa chiave di accesso alla pluralità di esperienze comuni”.
Anche nella sezione dedicata agli affetti familiari, alla vita quotidiana e domestica, c’è sempre un ghigno ironico che affiora e ci ammonisce che a prendersi troppo sul serio si inciampa sempre.
Se in nazionale fosse convocata
mia moglie da vero capitano
avremmo risolto il ruolo del regista
difensivo che detta i tempi
d’inserimento in avanti e spezza
la linea dei passaggi avversari.
Rene del gioco è ruolo nevralgico
e non certo facile specie quando
attacca gli spazi del mio campo
visivo per ammonire la mia distrazione,
l’errore di un cross che non capisco
fin quando non mi riallaccio
ai piedi scarpe troppo strette
per un dribbling.
(mia moglie)
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Profezie in versi: note di letture a La terra di dove, di Daniele Giancane, Edizioni La matrice 2019
Daniele Giancane festeggia le sue nozze d’oro con la poesia con un piccolo libro visionario, La terra di dove, edizioni La matrice, in cui ipotizza, o forse meglio profetizza, anticipa, alcune situazioni che ci riserva il futuro. Un futuro situato in un tempo sufficientemente lungo perché noi non possiamo farne parte. Per introdurre queste sue visioni si serve di comandanti di navi durante la navigazione, scelta sicuramente felice considerato il mare come metafora della instabilità perenne e della instancabile mutevolezza. Il libro è suddiviso in cinque scene in cui cinque diversi capitani di nave assistono ad alcuni cambiamenti epocali, almeno uno certamente positivo, altri catastrofici. Nella prima delle visioni del mondo che verrà, -perché la storia srotola / il suo tappeto senza sosta – si assiste a un auspicabile rovesciamento della realtà attuale in cui sembra che il sovranismo, il nazionalismo, si siano radicati in maniera trasversale e pervicace nella società:
Scruta il futuro in cui il vetusto
concetto di nazione
è divenuto relitto del passato.
Finalmente! verrebbe da sospirare e da esultare. Segue una disamina in versi della successione che ha portato dal tempo delle caverne alla creazione dei grandi imperi.
Il tono qui sfiora la tentazione epica, che non stona all’interno dell’atmosfera narrativa. La seconda visione è tutta declinata sul versante di un catastrofismo spinto, – Gli uomini si distrussero / in lunghe interminabili guerre – I radi sopravvissuti tornarono nelle caverne, le città divenute macerie, l’umanità frantumata.
Anche la terza visione presenta toni apocalittici, Gli uomini sono diventati automi, l’unica funzione del Parlamento è applicare la censura, è il trionfo del pensiero unico.
Anche i libri – è naturale –
vanno censurati
perché non immettano
dubbi nelle menti deboli.
Anche la quarta visione lascia poco spazio alla speranza: il mondo dei bianchi è solo dei bianchi, quello dei neri solo dei neri, ognuno vive nel perimetro concesso dalla sua appartenenza originaria:
Così i popoli tornarono
come all’inizio dei tempi
ognuno nel proprio spazio,
ciascuno nella propria pelle,
nelle proprie usanze e tradizioni,
nei propri sogni e i cibi.
La quinta visione è solo in apparenza liberatoria, perché nella realtà si tratta di un radicale rovesciamento dei ruoli: non sono più gli uomini a imporre il loro potere, dopo millenni di soggezione le donne li hanno assoggettati, un potere dunque che impongono con la forza, e quindi nessuna liberazione dell’umanità:
ogni capo di nazione è donna
per regolamento ineludibile.
Daniele Giancane può davvero vantare cinquanta anni di fedeltà alla poesia in cui ha fondato e diretto un paio di riviste, collane editoriali, insegnato Letteratura per l’infanzia all’Università, pubblicato non meno di un centinaio di volumi tra narrativa per bambini, saggistica, versi, ha collaborato con quotidiani e riviste, coordinato per almeno trent’anni le presentazioni ormai mitiche alla libreria Roma. Ricordo i suoi primi versi ispirati alla beat generation. Questo ultimo libro si inscrive quindi a pieno titolo nella coerenza di un autore tra i più prolifici e attivi del nostro meridione, un libro su cui sarà interessante discutere.
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Spiragli: note di lettura a Nei giorni per versi, di Anna Maria Curci, Arcipelago Itaca edizioni, 2019
Immergersi nei versi di un autore e sentir nascere il desiderio di scrivere altri versi, di assicurare la riproduzione della specie poetica in un’instancabile concatenazione: in quel momento la poesia assolve una delle sue funzioni: seminare ancora desiderio e visioni, impulso e germinazione.
I versi di Anna Maria Curci senza dubbio assecondano la spinta evolutiva, la favoriscono:
La bellezza qui gioca a nascondino –
conversazione in piazza Sant’Anselmo –
tra quel civico tre, Belinda e il mostro,
un sorriso su granchi e “ruba-scena”.
Ci sono libri che non solo inducono a scrivere ancora, ma schiudono spiragli importanti sull’essenza della poesia. Non finiremo mai di interrogarci su cosa sia in realtà la poesia, e non troveremo risposte definitive ed esaurienti. Tuttavia è bene sperimentare tentativi di avvicinamento, seppure parziali e frammentari. Ora in questo libro emergono almeno tre tracce importanti. Nella lettura, e soprattutto in successive riletture, ci si inoltra dentro un formidabile impasto lessicale, si attraversano con gioia territori dove la parola sprigiona la sua musica e spande variegatissimi colori, non si tratta di acrobazie linguistiche ma di passi di danza calibratissimi che dichiarano una perfetta padronanza e una capacità invidiabile di manovrare la lingua e indirizzarla nel senso voluto, di festeggiarne appieno l’importanza, di sperimentarne le infinite possibilità.
In definitiva è una poesia che celebra la lingua, dischiude uno spiraglio circa l’utilità di avvicinarsi alla poesia alla luce di questa consapevolezza.
Tra plagi sgarbi e gaffes esilaranti
si giocava a campana o a nascondino.
Sornione lo stregatto sospirava
le mezze verità liberatutti.
Un secondo spunto è offerto dalla forma chiusa in cui si offrono le quartine che compongono il libro. Scrive l’autrice nella nota introduttiva: “La forma chiusa così come l’ampiezza contenuta sono espressione del mio modo di ripensare realtà, anticipazioni, ricordi, visioni, e, allo stesso tempo, della scelta di dare una cornice rigorosa allo sfogo del cuore e alla rivolta della mente”.
Area di rigore è il bellissimo titolo che negli anni settanta Valentino Zeichen dette a una sua raccolta. Nel libro di Anna Maria Curci spira una bellissima aria di rigore, si registra il messaggio che la poesia non è mai casuale improvvisazione ma sempre scaturigine di un lavorio tormentato e febbrile, di un lavoro costante e instancabile, la disciplina appassionata degli impegni artigianali.
Scrive magistralmente Patrizia Sardisco nella bella prefazione: “… il vincolo è la possibilità, nel senso che l’inflessibile, rigorosa gabbia formale che la sua poesia si dà (o forse sarebbe più corretto scrivere pretende) giunge come necessaria e imprescindibile, e con la veemenza di una netta dichiarazione di poetica”.
Osservo quale parca di parole
i rituali del corteggiamento
i lanci gli ammaraggi gli smargiassi
ami e adescamenti recisioni.
Il libro è il diario di cinque anni di vita dell’autrice. Ogni quartina non esaurisce il racconto degli eventi che l’hanno favorita, allude quindi, evoca, dischiude piccole fessure di luce e in questo movimento di minimi disvelamenti assolve alla sua funzione di accendere la fantasia, di rimandare a un oltre di cui le quartine costituiscono sia l’accesso che il fondale. L’immaginazione costituisce un indiscutibile muscolo sociale, e la poesia, come tutte le attività artistiche, è in grado di badare a che rimanga vigile e vivo.
E tu, sorella mia messa a maggese,
hai gli occhi aperti a bere quella luce
negata, ne risplende la tua fronte.
I campi in fiore ti rallegreranno.
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