“Questi sono i nomi” romanzo di Tommy Wieringa, Ed. Iperborea 2014, traduzione di Claudia Cozzi e Claudia Di Palermo. Recensione a cura di Marisa Cecchetti.
“Ora non sono più nessuno. La donna che ha dovuto abbandonare la valigia guarda stupita e addolorata il suo passato. Vive con la schiena rivolta al futuro, sui ricordi della sua difficile esistenza brilla già il tenue bagliore della nostalgia”. Sono stati caricati sopra un camion e portati oltre un confine i clandestini del romanzo “Questi sono i nomi”, dell’olandese Tommy Wieringa. In copertina sagome umane nere perse in un deserto grigio dove si confondono i confini tra cielo e terra. Siamo dopo il crollo del regime sovietico, nell’est europeo che si apre sulle steppe asiatiche, ma la storia può appartenere ad ogni tempo che ha visto le migrazioni degli uomini.
E’ gente che ha lasciato la propria terra per disperazione, per miseria, sono tutti sorretti dalla speranza che qualcosa di concreto esista per loro oltre confine. Hanno dato un rotolo di banconote a chi l’ha nascosti sul retro di un camion, mercanti di uomini che hanno messo in scena un falso controllo di dogana, poi li hanno abbandonati in una landa desolata, dicendo loro di marciare verso ovest, ché c’è un villaggio a poche ore di cammino. Dovunque si voltano vedono steppa e le notti incalzano i giorni, così per mesi, e la fame li scarnifica, la solidarietà scompare per fare spazio all’istinto di sopravvivenza, come lupi affamati. Ogni reperto lontanamente commestibile è prezioso, l’odio e la violenza azzerano ogni legge morale. Si spogliano i cadaveri, si derubano i moribondi. Persi in uno sconfinato girone infernale, sanno di non poter tornare indietro. Ricordano gli Ebrei che dopo la fuga dall’Egitto peregrinarono per quarant’anni nel deserto, trasportando con sé le ossa di Giuseppe. Anche questi disperati portano qualcosa con sé, qualcosa di macabro –una testa- che assume tuttavia, nella loro mente sconvolta, il valore di una sacra reliquia.
In parallelo si sviluppa il percorso di Pontus Beg, commissario di polizia, che se la vede coi delinquenti, in una società decaduta dove trionfano “interessi personali, corruzione, nepotismo… Negli ultimi dieci o quindici anni Beg ha visto rallentare tutto, l’intera vita economica è caduta sotto il controllo del favoritismo e dell’avidità; non si vende più una casa senza permessi poco chiari e mazzette sottobanco… Ogni rapporto e ogni scambio è impantanato nel fango della corruzione; nessuno può più richiamare all’ordine un altro, perché tutti hanno le mani sporche”. Ma il percorso di Beg è a ritroso. Incrocerà i disperati e sarà determinante la sua presenza per un ragazzino sopravvissuto, ma soprattutto il suo sarà un percorso di conoscenza di se stesso, delle proprie origini e dell’ebraismo. Si fa strada lentamente in lui questa esigenza di appartenere ad un popolo, di cui scopre la storia piano piano con l’aiuto dell’ultimo ebreo rimasto lì. Ricordi vaghi della sua infanzia diventano certezze: una canzone yiddish che gli cantava sua madre, un candeliere a sette bracci accuratamente nascosto. Questo senso di appartenenza lo guida verso una identità nuova, verso la possibilità di una purificazione perché “Un ebreo è un ebreo anche senza l’Eterno – dice il rabbino – Noi… noi siamo una corda intrecciata, siamo singoli fili che insieme formiamo una corda. E’ così che siamo legati. Ciò che ci lega è ciò che siamo”. C’è una trasformazione progressiva e graduale fino alla conversione, che altro non è che una conferma di ciò che già c’era, ma andava scoperto e conosciuto. Solo allora ci si può bagnare nell’acqua trasparente del mikveh, la vasca dove ci si immerge nudi: “chi si immerge nel mikveh diventa un uomo nuovo. Riceve una nuova anima”. Fondamentale è la preghiera.
Adulto e bambino sono destinati ad incontrarsi, l’adulto ora può essere la sua guida: “Saresti un bravo ebreo, Said Mirza. Tu hai attraversato il deserto, puoi dire la tua”.
Quando i pochi sopravvissuti al deserto arrivano al villaggio, perse le sembianze umane, inguardabili, inavvicinabili, si alza davanti a loro la barriera della paura. Ma non esclude il soccorso. Senza dubbio le due storie erano destinate ad incontrarsi, ma Wieringa lascia in serbo parecchie sorprese. Grande romanzo, denso di significati e di rimandi, Questi sono i nomi raccoglie simbolicamente tutti i nomi di coloro che sono morti e continuano a morire in cerca di vita altrove, in fuga dalla propria terra. Dietro a quelle ombre disperate ci sono i volti di quanti il Mediterraneo travolge nella tragica traversata, di tutti coloro che vivono nei campi profughi, di chi scappa inseguito da milizie omicide, di chi attraversa deserti per arrivare ad una città costiera e trovare l’imbarco. E spesso la morte. Oggetti nelle mani di mercanti di uomini che ingrassano sulla disgrazia degli altri. Come è sempre stato nella storia. Volti che appaiono e scompaiono rapidi dallo schermo del televisore, a cui non sapremo mai dare un nome. M.C.