Andrea Zanzotto: retrospettiva a cura di Enio Sartori. 1^ puntata: poesia e intercultura

Andrea Zanzotto: retrospettiva a cura di Enio Sartori. 1^ puntata: poesia e intercultura.

   

   

Il nome di Andrea Zanzotto è risuonato in questi ultimi anni nei giornali e nelle tv nazionali per i suoi interventi polemici contro la distruzione del paesaggio, della Beltà, contro il torvo teatrino della politica locale e nazionale, contro la furia globale e lo spaesamento universale, fino quasi ad emergere quale uomo pubblico con la sua morte avvenuta il 18 ottobre 2011 a Pieve di Soligo, suo paese natale, all’età di novant’anni. Da allora il suo nome risuona nella bocca anche di chi non lo conosceva o non aveva avuto modo di leggere le sue opere poetiche. Da allora qualcuno è andato anche a leggersi le sue opere, i più si sono limitati al puro nome.
Un nome che evoca, per chi l’ha conosciuto ma soprattutto per coloro che hanno letto i suoi testi, una ipersensibilità sismografica nel lasciarsi attraversare e nel cogliere le rapide e complesse mutazioni, che per necessità si tendono a riassumere entro il concetto di globalizzazione. Mutazioni che hanno provocato e provocano, in ogni luogo, lo sfaldarsi di stili di vita, oltre che effetti di sradicamento, di spaesamento, di insicurezza individuale e collettiva, tali da farci diventare un po’ tutti “migranti in casa nostra”, costringendoci, di fatto, a ripensare, qui ed ora, il senso della nostra “identità”, il senso del nostro abitare, del nostro far comunità, del nostro far lingua.
Sono queste questioni decisive che informano non tanto e non solo i contenuti ma soprattutto, trattandosi di poesia, le ragioni poetiche, i movimenti e i “gesti” dello stile complessivo della parola di Andrea Zanzotto che esige e merita, per tutto ciò, di trovare il nostro ascolto; ascolto di un dire capace di suggerirci se non iniziarci ad un buon modo di abitare poeticamente il mondo, i luoghi, le culture e le lingue.
E’ proprio a partire da queste premesse che intendo in questi mie interventi accompagnarvi attraverso un percorso in tre tappe che rispettivamente anche se provvisoriamente così intitolerei:
1) Andrea Zanzotto: poesia e intercultura
2) Andrea Zanzotto: abitare poeticamente i luoghi
3) Andrea Zanzotto: abitare poeticamente le lingue

Dunque iniziamo con una domanda: “Che cosa ha da spartire la pratica poetica (sia sul versante dello scrivere che del leggere) con l’esperienza interculturale quando quest’ultima accetta di misurarsi effettivamente con l’irriducibilità dello straniero?
Forse, la comune resistenza da parte della parola poetica e dello straniero ad ogni facile acquisizione, ad ogni facile assimilazione, ad ogni precostituita com-prensione andrebbe riconosciuta come sintomo di una più essenziale relazione tra le due esperienze che ha a che vedere con la loro condizione più propria.
Se partiamo dal presupposto che l’incontro con lo straniero, quell’incontro che sta all’origine di quella che noi oggi tendiamo a definire una pratica interculturale, non può esser ridotto ad un semplice sapere sull’altro e dell’altro, ma trova la sua ragione più intima qualora, innanzitutto, si sappia riconoscere che al cuore di ogni nostro processo di soggettivazione non si dà identità di sé ma radicale apertura all’altro, che al cuore di ogni nostro dire si apre l’esperienza dello scarto, della faglia tra significante e significato e dunque l’impossibile acquietarsi sul processo di significazione già dato, ecco allora che detta pratica interculturale giunge effettivamente ad incrociare questioni che molto hanno a che vedere con ciò che chiamiamo poesia.

Sono questioni queste che mi sembra trovino il più alto grado di incandescenza nell’esperienza poetica di Andrea Zanzotto e in particolare nella drammatica consapevolezza da parte del poeta solighese che il soggetto, iscrivendosi ma al contempo separandosi nel linguaggio, è segnato originariamente da un vuoto, da un taglio, da una “spaccatura”, da una “faglia senza fondo” da quella «dolce fessura/ percorsa dalla lingua svegliata dalla lingua» di Profezie o memorie o giornali murali VII che ne definisce l’incompletezza fondante. Ecco allora che il lavorio “in diamante” del poeta, per dirla con Zanzotto, non può che avvenire “nella spaccatura/ nel netto clivaggio,”[1] lungo quel taglio, quella ferita originaria, quella faglia che non va occultata ma poeticamente vissuta poiché solo a partire da quel luogo-non luogo, da quel «gnessulógo» (titolo questo di uno dei testi più emblematici in tal senso de “Il galateo in bosco”), da quella “soglia” è possibile tentare di ritessere, costruire ponti in un lavorio dagli esiti assolutamente non scontati e continuamente «oltrato». È questo il compito a cui viene destinato il dire poetico come ben rimarcato ne L’elegia in petèl de La Beltà: “Per quel tic-sì riattato, così verbo-Verbo,/ faccio ponte e pontefice minimo su/ me e altre minime faglie”[2].

Il poeta fa del «gnessulógo», del tra, della faglia-ferita la propria dimora a partire dalla quale tentare di ritessere, costruire ponti in un lavorio dagli esiti assolutamente non scontati e continuamente «oltrato».

Chiaro qui l’intento del poeta di operare contro ogni occultamento, ogni rimozione di tale faglia-ferita, rimozione a partire dalla quale noi costruiamo le nostre illusioni identitarie, le nostre forme stereotipate di comunicazione, quelle che nella società dello spettacolo in cui viviamo, segnata da una bulimica offerta di segni, si traducono in giochi di simulazione entro cui tutti i segni si scambiano ormai tra di loro facendo così girare per lo più a vuoto il linguaggio. Piuttosto, come ci suggerisce Stefano Agosti uno dei lettori più acuti del Nostro, la poesia di Zanzotto assume il linguaggio “nella sua totalità come luogo dell’autentico e dell’inautentico poiché proprio lì nell’inautentico dei codici della lingua naturale attraverso le sue crepe, ingorghi, faglie, si potrà intravedere e forse portare alla luce quella linea di clivaggio che, in quanto struttura di separazione, rappresenta l’origine stessa del soggetto, il suo luogo perduto e tuttavia sempre instante nell’essere, sia pure in forme sottratte al sapere cosciente”[3].

Da ciò quella pratica stilistica continua ed ossessiva di Zanzotto che si traduce in una vitalissima ed indiscreta esperienza della lingua che, attraverso un arretramento della parola poetica sul versante del significante, della materialità del suono, sottrae quest’ultimo ad una relazione compatta e fintamente naturale con il significato, e lo predispone ad essere scalfito, smembrato, graffiato consentendo così al poeta di toccare quei punti in cui la lingua portata al “massacro” e “ferita” vive in costante fibrillazione e si riapre alle vibrazioni del reale accompagnando e contribuendo al suo vitale divenire. Il poeta si colloca nel mezzo di quello che in La perfezione della neve de La Beltà appare come «movimento-mancamento radiale»,[4] appunto su quella «soglia» in cui «la vi(ta) (id-vid)/quella di cui non si può nulla, non ipotizzare, / sulla soglia si fa (accarezzare?)».[5]

Il lavorio sulla barra-faglia, che produce la discontinuità del significante nella relazione con il significato, porta il processo di scrittura sempre a ridosso di incroci, soglie, limiti, «cancelli», sentieri interrotti che se da una parte sembrano costringere il testo ad un arresto, dall’altra lo aprono, come ci suggerisce lo stesso Zanzotto nel saggio Nei paraggi di Lacan, a «fuochi di intersezioni, matericità di fatti fonici e scritturali», processi di «disseminazione, di un’esplosiva e coinvolgente reattività, trip senza termine e, appunto, ‘reazione a catena’»[6] .

Così facendo la scrittura poetica sospende e disfa il senso già dato – rendendo impossibile ogni reificazione del segno e dunque anche delle lingue e delle culture – e rimette in moto la lingua proprio in relazione alla sua originaria costituzione (che è anche originaria costituzione del soggetto) istituendo una relazione con tutto ciò che essa, per darsi entro un ordine simbolico privo di faglie, tende a rimuovere in continuazione rimuovendo di fatto la relazione tra il linguaggio e il reale.

Operando nella faglia, nello scarto che si apre tra significante e significato, la parola poetica produce uno squarcio del simbolico che annuncia il reale, quel reale che “traluce nella poesia” ed è al contempo, come sostiene il poeta nell’ intervista del 1979 dal titolo Qualcosa al di fuori e al di là dello scrivere ciò “che spaventa attraverso la poesia, anche quando essa può sembrare più connessa alla gioia, alla felicità dello stesso scrivere»[7]

Con ciò il poeta sembrerebbe suggerirci che la poesia e la letteratura in generale ci chiamano ad un incontro con il reale quale punto d’impatto in cui tutte le nostre rappresentazioni, le nostre immaginazioni, vengono a contatto, a frizione, a scontro con le cose al di là di ogni loro possibile rappresentazione, al di là di ogni possibile loro riduzione rassicurante.

Zanzotto ci invita dunque ad intendere la parola poetica come ciò che ci permette di esperire che il linguaggio non è tutto intero e che dunque il suo prodursi è anche sempre prodursi d’altro, dell’altro nella sua radicale alterità; produzione che si dà nel corpo stesso del linguaggio, della parola essendone il suo cuore più intimo, quando essa si predispone, come nella poesia, ad essere non tanto la forma del già detto quanto parola che si fa ascolto capace di ospitare l’evento del reale, l’evento dell’altro.
Per tutto ciò la poesia ha il pregio di educarci, qui nel senso forte di iniziarci, permanentemente ad una pratica che non esito a definire interculturale poiché pone al centro della propria interrogazione quel vuoto costitutivo del soggetto che è immediatamente apertura rischiosa ad altro, all’altro entro una relazione di comunanza che nulla ha a che vedere con qualche forma di legame o di comunicazione sociale predefinita; la pratica poetica, infatti, così come l’esperienza interculturale, ci chiama a spartire non tanto il pieno di sé, la nostra identità, quanto quella che il poeta chiama “mancanza pulsante”, «dolce fessura» che è effettivamente ciò che di più intimo possiamo offrirci, ma che è anche la sola condizione a partire dalla quale è effettivamente possibile pensare che un incontro si dia, che qualcosa effettivamente avvenga.

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[1] Per le citazioni dei testi dell’autore si fa riferimento a: Zanzotto, A. (1999), Le Poesie e Prose scelte, a cura di S. Dal Bianco e G.M. Villalta, Mondadori, I Meridiani, Milano.
[2] Ivi, pp. 315-316.
[3] Ivi, p.XXIII
[4] Ivi, p. 271.
[5] Ivi, p. 271.
[6] Ivi, p. 1322.
[7] Ivi, p. 1227.

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Enio Sartori è docente di lettere presso il Liceo Sociale Arturo Martini di Schio, collaboratore del Master in studi interculturali dell’Università di Lettere e Filosofia di Padova e del Master in Studi sull’Islam europeo di Padova. I suoi campi di riflessione e di intervento artistico-letterario riguardano la relazione tra lingue, territori e migrazioni in generale e più in particolare nel Nordest.
Tra le sue pubblicazioni saggistiche citiamo il saggio di antropologia culturale Alla soglia dell’alba. Il Summano e la leggenda di sant’Orso tra mito e storia, e il saggio di critica letteraria Tra bosco e non bosco. Ragioni poetiche e gesti stilistici ne «Il galateo in bosco» di Andrea Zanzotto, edito da Quodlibet. Da anni svolge anche un suo percorso creativo nel campo della poesia sia in lingua che in dialetto vicentino, così come del teatro. Da ricordare il testo in prosa poetica Vedi alla voce corpo, l’audiolibro di poesie in dialetto vicentino, Parole suonate in controcanto pubblicato da Il Narratore. E’ anche autore dei testi delle canzoni di Patrizia Laquidara, Il canto dell’anguana, vincitore del Premio Tenco 2012. Nel campo della produzione teatrale da ricordare Said l’equilibrista vincitore Premio Annalisa Scafi di Roma, la collaborazione con lo scrittore algerino Tahar Lamri nel progetto Il pellegrinaggio della voce, l’ ideazione e la scrittura di progetti teatrali su Andrea Zanzotto con Pino Costalunga e Giuliana Musso.

                          

Martina Dalla Stella, 'Villa miseria', tecnica mista su tela, 2011 - in apertura 'Valle de los ingenios', olio su tela, 2005
Martina Dalla Stella, ‘Villa miseria’, tecnica mista su tela, 2011 – in apertura ‘Valle de los ingenios’, olio su tela, 2005

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