Zitta sto per vivere, poesie di Natalia Bondarenko

Zitta sto per vivere, poesie di Natalia Bondarenko

 

 

Affido il mio cuore al caso,
al brutto tempo,
alle coronarie antiquate,
ai polmoni che lo sostengono,
all’aria giusta che scarseggia
quando mi affido ad un ‘fido’
che mi ‘scodinzola’ dietro,
chiede le coccole, si spaccia
per un cane ed ogni tanto
     [senza permesso] gioca con l’osso del mio corpo.

Affido qualcosa che non esiste
a queste righe,
a queste righe di una fiducia corta,
alle piccole sviste senza mestiere,
ad uno scenario con le rughe in vista,
ad un paio di occhiali neri
che coprono bene
il palpitare delle vene e tutto il resto
che non si vede ma si fa sentire,
e che ti fa soltanto sbadigliare,
capitolare
      [fiduciosa] e poi
morire.
     

***
      

Quando
fra le 8 e 9 del mattino
provi ad addomesticare il mio risveglio,
ti lascio fare
la tua cerimonia dei piatti rotti quotidiana.

Avessi un braccio in più,
una gamba in più,
le palpebre più sane e un cuore integro,
ti farei una piccola concessione
in cambio di un silenzio ammaestrato.

Mi preme però mettere in evidenza
che la necessità per necessità mi infilza
in una sera
dove potrei fingere una belva arrendevole,
(per esempio) una ‘gatta morta’,
ma morta davvero.

 

***

 

Quando morirò,
di poetesse se ne faranno delle altre.
Oggi scrivere poesie (per una donna)
non è poi una questione così fenomenale.
Diranno che sono stata godibile
per quanto si può sopportare
un linguaggio casalingo, tutt’altro che 2.0,
un gergo mal interpretato,
una canzonetta per un’estate,
delle piccanterie, delle leggerezze
         [anche se,
         le donne hanno sempre parlato di sesso
         e senza troppe insicurezze].

Ma tutto sta nella realtà quotidiana,
nell’ironia del convivere e sopravvivere,
nella capacita di calzare le sconfitte,
e sperimentare una certa amnesia, sta
nel consumare le giornate da femmina soggiogata
      [ma con un certo romanticismo,
       naturalmente] magari
con un timido ti amo,
o magari con un deciso vaffanculo.

Alcuni versi però
che avrei dovuto scrivere,
frattempo si sono persi per strada,
alcuni spazi vuoti come il mio letto
sono diventati la mia prigione.

*

 

Qualcuno chiama ‘esilio’ ciò che tutti chiamano ‘sonno’.

Qualcuno chiama ‘tacere’ ciò che tutti chiamano ‘morte’.

Io, per scrivere
la mia prima poesia, sono morta più di una volta.

E ora (‘burro tenero dell’anima’) zitta sto. Per vivere.

 

      

Ksenja Laginja, Il figlio di Nergal, 2019

 

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