Un esergo troppo lungo: dal racconto alla propaganda. Testi e versi di Sergio Sichenze.
Negli empori del Mediterraneo si sono stratificate, trovando mutuo arricchimento, le variegate culture che nidificavano lungo le coste di questo bacino chiuso, che, successivamente, ha attirato, come una calamita azzurra, popolazioni da aree geografiche interne.
Le merci barattate contenevano una comune matrice di bellezza, scoperta di inimmaginate presenze.
Piante, animali, pietre luminescenti, tessuti e sapori costituivano una lingua universale.
Non esisteva la pubblicità, almeno nell’accezione a noi consueta. I prodotti si diffondevano, venivano acquistati e scambiati attraverso i racconti. In questo modo si arricchivano di immagini, di luoghi mai attraversati, di storie a forte valore evocativo.
In un tempo recente, non più che decennale, si è affermata, viceversa, la pubblicità come propaganda: perverso strumento di ossessivo convincimento. Inoculo di desideri, privi dello spontaneo incedere dell’insorgenza.
Come un regime, totalitario e manipolativo, il consumo ha incarnato il mercato: un ordito che imbriglia, occupa e corrompe ogni strato della società, con ricadute devastanti sui delicati e fragili equilibri bio-ecologici del Pianeta, oggetto di sfruttamento e predazione massiccio.
I luoghi del commercio, empori, mercati e negozi, elementi riconoscibili e cofondatori delle città, hanno passato la mano ai non luoghi: spazi commerciali identici, replicati su qualsiasi meridiano; organizzati per essere autosufficienti, affiancano i centri urbani, costituendone dei satelliti di puro consumo. Nella progressiva espulsione del commercio dal tessuto cittadino, si assiste a una rimozione del senso dello scambio, della relazione, che rappresenta storia minuta seppur collettiva.
Quella che Zygmunt Bauman definisce come società liquida, non è altro che il fenomeno della perdita dell’identità, che trova fondamento anche nella commercializzazione delle merci.
L’homo sapiens, spesso a sua insaputa, si è trasformato in oeconomicus, autoproclamandosi in tal modo predatore globale.
Nel processo di perdita dell’identità, ne ha fatto le spese anche l’informazione, che ha ceduto anch’essa alla propaganda, assumendo sovente l’aspetto di opinione, dove, gioco forza, i fatti vengono occultati, attraverso un’azione di sovrapposizione di contesti e di piani, di rimescolamento dei punti di vista, transitando verso il relativismo, dove ogni azione è lecita, purché si muova sull’asse del progresso, del mantenimento degli stili di vita: ovvero della crescita illimitata dei consumi. Si produce, così, un effluvio magmatico che, quando si raffredda, non cristallizza, lasciando un substrato amorfo.
Anno indifferente
Anno mille
la fine del mondo è imminente.
Anno duemila
la fine del mondo virtuale è imminente,
bachi divorano memorie,
traggono nutrimento da alberi
a strutture numeriche.
Anno indifferente
si assottigliano i cataloghi dei libri,
resiste qualche volume
nelle biblioteche clandestine.
Prospera la televisione,
la rete chatta e i dubbi sono
prontamente rimossi: Ctrl Alt Canc.
La scuola finisce prima e l’amore è
ad appannaggio dei soliti Anonimi.
Il bosco è vitale di pic nic e il tramonto
è un fastidio accettabile
prima che esploda la movida.
Anno successivo a quello indifferente,
i sogni sono affidati ai soli occhi chiusi
Prozac permettendo.
*
Notizie
Le notizie che cerchi
navigano di rete in rete
tra sensazionalismi e titoli,
ora nel nero quotidiano
ora nello scivoloso fondo
di levigata e sfuggente superficie,
senza mai trovare il sangue dei vinti.
Notizie esperte di neologismi.
Notizie vestite di costume,
rispettose dell’aldilà dei paradisi fiscali.
Notizie di giri di campo e pii minuti di silenzio,
millimetri di fuorigioco, eroi per pochi istanti
eroi dai talloni infranti
unici punti esclusi dall’immortalità mediatica.
Eroi destinati a una morte in cronaca rosa
e nell’incertezza del tempo
nella dose quotidiana di pesci e di gemelli.
*
Drogheria
Quand’ero piccolo andavo in drogheria,
tutto stipato fino in cima e lassù
chissà cosa vi fosse.
Mi portava mio padre
e lui, con il cuore malandato,
mi spingeva fin dentro la cuccagna.
Quel luogo era geografico, senza confini.
Aleppo parlava di sapone con Marsiglia,
l’alba e il tramonto vivevano gomito a gomito
sugli scaffali, lunghi come meridiani.
Nessuno era un clandestino,
era concesso asilo politico perfino alla trementina,
le latte di Buenos Aires erano marchiate di rosso lacca bruciante
e la pasta era alla rinfusa, lunga e bucata come un cannocchiale.
Nessuna scadenza: prodotti eterni.
Nessun sogno, d’altro canto, finisce veramente.
*
Sergio Sichenze, è nato a Napoli nel 1959. Vive e lavora a Udine. Ha pubblicato il racconto “L’attesa” in “Racconti Udinesi” (Kappa Vu edizioni, 2007); la raccolta di poesie “Nero Mediterraneo” (Campanotto Editore, 2008); il racconto “BOBBIO Y MOSTAR” in “La natura dell’acqua: almanacco di letteratura rinnovabile 2011” (Marcos y Marcos Editore, 2011); selezioni di poesie in tre raccolte poetiche (Pagine Edizioni, 2013 e 2014); cinque poesie indite, con nota introduttiva di Rosa Pierno, pubblicate nel numero 8 dell’ottobre 2016: gli animali dei poeti, su Versante Ripido (www.versanteripido.it); “Nei chiaroscuri del tango”, raccolta di poesie con Elisabetta Salvador (Campanotto Editore, 2017); “Festina lente”, racconto in forma poetica, pubblicato nel numero 4 del 2017: l’ozio creativo, su Versante Ripido.
Fotografa i luoghi che attraversa. Balla il tango argentino, approfondendo la cultura complessa che lo ha generato.