Viaggi e vacanze, versi di Agata Bui.
Vi proponiamo una composizione in prosa poetica di Agata Bui.
Vietnam
Nelle strade del vecchio quartiere di Hanoi – un pomeriggio di marzo – abbiamo vomitato i nostri vent’anni d’amore – e poi – dopo che la tempesta ci ha travolti – abbiamo cominciato a fare i turisti – come se niente fosse – portandoci appresso la nostra bambina – come una vecchia coppia qualunque.
Zaino in spalla. Hallo. Bye bye. That’s the way it goes.
E tutto questo – ora che è scritto, sembra un po’ folle.
Ma Hanoi è deliziosa. E delizioso esserci.
Ha Long. Tremila picchi che emergono dall’acqua – nascosti dalla nebbia e dalla pioggia.
Ha Long. Atmosfera malinconica e dolce da turisti fuori stagione. Spiaggia deserta. Birre di fronte al mare.
E il mio amante che racconta ancora una volta alla bambina la storia del razzo Apollo partito per la luna.
E io che so che è questa – la porzione di felicità che mi è toccata in questa vita.
Hoi An. Il sole. Il mare. L’albergo dalle lanterne rosse. L’ozio. Il caldo. La voglia di non andarsene mai più dalla lunghissima spiaggia.
Quella che in occidente chiamiamo guerra del Vietnam, in Vietnam si chiama bombardamento americano.
Dimentico tutto. Ritrovo il piacere della fuga.
Dimentico tutto.
I coni d’incenso che scendevano dal soffitto della pagoda di Cantho, otto anni fa, li vedo oggi per la prima volta nelle pagode di Cholon, al riparo dal caldo, dal traffico, dal rumore, da migliaia di motorini che sciamano senza controllo lungo le strade assolate di Saigon.
Fu Ho Chi Minh City.
Tutto ritorna. Ma non è detto che sia sempre uguale a se stesso.
Sono partita con il terrore di un antico disamore. Mi sbagliavo.
Non smetto mai di essere nervosa. Neppure in Indocina. Litigo con la bambina, con l’amante, con l’albergatrice.
Sono di nuovo bionda. La pelle di nuovo abbronzata. Di nuovo giovane.
Di nuovo in viaggio. Di nuovo in fuga. Di nuovo.
Museo dei crimini di guerra americani.
O dei residuati bellici, perché la nostra era, vuole definizioni inoffensive.
Tutto quello che l’occidente già sapeva, ma finge di avere dimenticato.
Le immagini dei fotografi mai più tornati. Robert Capa e tutti gli altri dopo di lui.
Soldati americani, sorrisi trionfanti di fronte alle teste mozzate dei vietcong, deliranti e orgogliosi di mostrare brandelli di un corpo dilaniato da una bomba.
E occhi e volti e ossa e pelle imploranti, piangenti, disperati, un attimo prima di morire.
E bambini. Abbracciati gli uni agli altri, in un istintivo e inutile moto di reciproca protezione. Un attimo prima degli spari.
Corpi di bambini. Buttati gli uni sugli altri. Scalzi. Sporchi. Per sempre indifesi.
Corpi di bambini mai nati, chiusi in vasi di vetro colmi di liquido giallognolo. Senza naso. Senza bocca. Senza cervello.
Corpi di bambini nati – due teste, quattro braccia, quattro mani, un solo tronco, né gambe né piedi. Mostri. Mostri nati nell’era delle foreste di mangrovie incenerite da gas dai nomi assurdamente innocui come agente arancio.
Bambini deformi, devastati, ora uomini e donne di mezza età – monchi – sciancati – vendono ai turisti libri che raccontano la loro tragedia e come prova danno la loro stessa carne mutilata.
A futura memoria.
Mui Né. Ancora sabbia. Ancora sole. Ancora caldo. Nelle ossa e tra i capelli.
La baia lunghissima, le palme – a perdita d’occhio – le barche, la pesca, l’odore aspro del pesce. Quello dolciastro del cibo dai nomi sconosciuti.
Nuvole rase e basse. E uno sguardo delicato e assopito a quest’ultimo – meraviglioso – mare del sud.
Alla fine ancora Saigon.
I sessantenni occidentali, chiassosi, seduti tutto il giorno al ristorante – nei tavoli all’aperto – davanti a distese di birre – a volte insieme alle loro giovanissime e sorridenti compagne vietnamite – per una notte – un mese – già tutta una vita.
Ciò che si impara dal viaggio è una cosa sola. Occorre viaggiare di nuovo, viaggiare sempre.