La fine del viaggio, versi e prose di Vladimir D’Amora

La fine del viaggio, versi e prose di Vladimir D’Amora.

    

    

Aspetta, mi stavo preparando per un lungo viaggio. Prima intenderò portarmi ai margini dei vissuti, dove grondano tagli e simulazioni. Poi, udita voce da beduini lindi e asciutti, mi convinsi che sarebbe stato più agevole sprofondare col resto della compagnia, senza alcuna smania. Abbandonare i pianti, deporre le madri della solitudine, e lontano da ogni desiderio. Inappuntabile ero, tornito di mia leggerezza. I soli alti, a durare sempre.Avrei aperto spazi di transito, pensavo a spazi salutari, occasioni d’uno schifo tramontato. Certo, ero ancora un po’ indeciso, mi perdevo pei canali del non, lunghi monotoni e canali alla sorgente. Infuturato e seduto, macellato dal mio stesso respiro.Infine andai. La lunghezza della trave non mi renderà pace. Li lasciai pietosi, i miei intermezzi. Al fondo ero io stesso a dormirci.

*

IL RITORNO

Una torna da una clinica bianca come il gesso classico, dove il dolore pure sta immacolato, indorato, e che si ritrova? Una famiglia che dorme, ecco ciascuno a ronfare per sé, senza la minima idea della mia testa. Entrai in camicia lunga, ero ‘na panna di femmina, qualche trina, qua e là, vestivo così da giorni. Mormorai un saluto, forse due, e di nuovo a letto, anzi sul letto distesa, sempre sul lato mancino, lenzuola linde, per requie e sonno.
Il soffitto soffriva ormai con me, ai miei rantoli le sue macchie, pure inavvertibili, dal bianco al pallore, passando per tutta la sacrosanta teoria dei grigi. Un soffitto lineare come lo può essere una serpe, ma non mi venne in testa. Restai per attimi smorfiosi, attimi recalcitranti, mi persi nella sua fine, monocromatica quasi. Ero straccio fastidioso. Nessuno desto, a chiedermi della vita. Fui io a svegliarmi, mi scoppiarono vene e arterie, coll’arcangelo a succhiarmi coscienza e verità, con la sua tuba d’ottone antico, esiziale.
E fu il sangue che fiottava, mentr’io già sognavo. Erano tutti lì, svegli come grilli molestati e irrequieti. In un emiciclo arlecchinato di guardate vitree, l’uno nell’occhio dell’altro, chiavato ciascuno nella sua ovatta vaporosa e lattea. Svegliati poi da cosa? Il rosso era il mio, e già gli era stata aspirata la sua luce intera. E potei sognare, sognai mio figlio, tutti i miei figli muti a chiedere, a urlare il nome mio. Fu festa acida, festa bagnata dall’irreparabile, colla testa che s’avvitava all’emorragia, sotto quel mio soffitto ancora annuvolato, sempre fermo.

*

LA FINE DEL VIAGGIO

Vento, tiepido. Un’altra sigaretta, spenta, senza salvezza. Fino all’altro polmone cittadino, mormorati zingari, maldestri festanti. Da tempo usarseli quei lassi del tempo, tutti i giorni, qualsiasi meta o incontro. Approntando passatempi spiccioli, a riempire le distanze, giusto il sottosuolo. Le fermate, una frenata, stridio, rotaie, soste in galleria, frequenti quanto zeppe di brusii, e terrore. E poi le stazioni, le più vivaci facce, portamenti esotici, pure integrati. Stazione, a luccichio energetico, potabile colorato, vetrine col guasto a penna, insistita distratta esposizione. La tratta, un po’ extraurbana, quel giorno a contare oggetti, fino agli ennesimi. Il tempo, gli occhi a cursori. O associazioni da ricordare per dimenticare, subito. Più del solito, meglio. Allora i binari, il cominciato fischio. Il segnale, l’udito tappato con due dita. Mentre il vento, di per sé inadatto a togliere calorosità, suprema cessazione. Col completamento del percorso lontano, la fine, delle fermate l’ultima. Guardare scendere, uno ad uno sfilare oltre la linea. Non spostarsi, il posto. Restare, dentro, al di qua d’ogni arrivo, a tagliare l’universo, a misura, l’uomo.

***

sgonfio di luci e spume
io urlo all’indiavolate carni ed è la sera
l’incanto che tiene le facce che leste
d’umani logori, legati
ai più definitivi pendoli di giochi
di lucro satinato, sempre
affabili e di più

specchiati se io non fossi
occhio e un’anima di storia
se non avessi chiodo
da corpo avrei già persa
questa face di te

che sia piacere il rifinito
pieno di umida spettanza
e godo a sentire le tue mani
nelle fole giocare all’avanzo
nella vita nello stropicciato
verso di due mari muti e come scontenti

e tu lo sognerai fecondo
quel puzzo algebrico montato sulle luci
molli che essere, nel fondo, noi non sappiamo
la vita nelle mani come una scoppiata
luna i lenti e veri anni di parti

di dolore che gocciolava quasi tempo
dato al riso, alla delicatezza e alle miriadi
di sensi della luce è un’ombra

un treno che me portava
alla spianata dei mali a casa e storta
la vita m’aveva dato e aria e sangue
d’uomo il circolo interno le sue

smorfie di quando poi si ferma
il giro pazzo
stretto e cade come liquido già caldo

dio.

***

Gli umori sulle gonne, sul treno
che mi porta via dalla salsedine
impedita io bacio ogni guardata
insufficiente, e ignoro le mani
che mi introducono nel sonno
come si fosse maschere allentate
e nei pertugi maculo distanze,
io tremo.

***

e non solo il senso – ho perduto
io tutto ricordo ed eravamo seduti e un fiume
il treno e ripartiva – io ero il vuoto
e a te piaceva,
desideravi la mia mano
nell’attesa la bocca – respirava e la mente
viaggiava nei soli cunicoli
inumani ed era bello
durava solo – se la pioggia
lasciava meraviglie su i lati
scoperti come nascemmo!
e ci carezzava questa vita aliena
ovvero mani
coperte
e tu eri straniera – di ogni forma.

***

Potremmo costruire due vite disossate
a difficoltà crescente, immobili
Un lungo treno innato è nella nebbia
per non aver provato l’anima
Potremmo risalire i piani degli eventi
strani in una specie di lavoro che zampilli
dall’assenza d’ordine
L’operazione certa quasi unta è questa
poca vita a ritrovare qualche schema
della crisi e di un collasso eroso
Si coprono le stelle dentro al male
chi parla dell’acqua, del bello,
della diretta dall’ambiente preso
è lo stesso rigo
martoriato e rotto
Potremmo imparare storie dai metalli
e respirare essendo soli
come passassero cose, le vite di letizia,
coperto ogni tremore di una fine
Potremmo funzionare senza sguardo
senza la fede giovane,
che resti il seme a significare
gioia in una trappola
ridesta,
il sogno è l’illusione nota.

                       

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