Dalla parte di Huáscar, opera prima di Enrico Maria Di Palma, recensione di Gabriella Modica.
Quella del ventiquattrenne Enrico Maria Di palma è un’opera prima, vincitrice del terzo posto al Premio Franco Fortini, che non passa inosservata.
La prima lettura potrebbe destabilizzare chi è abituato a cercare una coerenza nello stile di un poeta. Alla seconda lettura, invece, tutto si rimescola ed ogni elemento torna al suo posto.
La convinzione di chi scrive è che tutto, qui, sia sapientemente concertato dalla prima all’ultima prosa. Enrico Maria Di Palma fa un salto in avanti rispetto ad altri poeti. Si immedesima, si mimetizza, potremmo dire, in tutti gli aspetti che intende raccontare (o sarebbe meglio dire dissacrare), seguendo un filo conduttore translucido, che potrebbe essere una carrellata milanese, vista con gli occhi di un poeta generico, di volta in volta caratterizzato in modo diverso e riconoscibile solo dal registro poetico che scandisce i momenti dell’opera. La prima parte, è densa di visioni intimiste e pervasa da un cinismo quasi imbarazzante dove l’imperativo sembra quello di scandagliare senza pietà la visione stereotipata, e portata all’estremo caricaturale del giovane poeta nel pieno delle sue energie che sperimenta il linguaggio colto:
non domandare, non cercare
l’euforbia, l’ilatro o lo sparzio,
qui c’è solo sfarzo
di favole vuote
immote radici spinate
seccate
morte.
fino ad utilizzarlo per erigere un muro fra sè e la povertà del linguaggio di massa, implorando il silenzio, al suo interlocutore:
Non parlare ti prego
non dare adito a quella parte di me
che sa che rimarrebbe delusa
dall’alito o dall’accento milanese
rimani a sottolineare
il tuo sant’Agostino
a toccarti il naso
a guardare il telefono
non rovinarti coi fatti
muta sei bellissima
le mani il santo il fiocco
parlano per te
Gli astrusi stratagemmi linguistici utilizzati permeano l’intera lettura di una bella, e coerente difficoltà a contenere tutto quello che tecnicamente andrebbe contenuto. È caricaturale, l’eccesso della parola colta, inventata o arcaica, la citazione di cantautori metropolitani, la ripetizione di alcune forme espressive. La lunghezza dei versi crea una dissonanza con le contaminazioni linguistiche in un contesto formale che con questi sembra assai stridente. È come una mano vigile che intima l’alt per invitarti a ripetere l’esperimento della riflessione:
Rondò Veneziano
sul mio petto mattiniero
ottano d’archi infiammabili
la combustione sulle rotte degli ermeneuti
come lacrime strizzate di bambina;
parlami
degli strali infingardi
in questa humus amorosa
che incuneano l’Uomo,
sono spaziotempocausaeffetto
sono affettuosi difetti della mente
sono cariche batteriche congenite
sono la sonora sensazione di sete.
La ripetizione ossessiva, sincopata da una sovrapposizione di linguaggi denota una evidente predisposizione musicale, nel ritmo dei versi, e nelle frequenti indicazioni di partitura.
L’opera è chiaramente una denuncia alla costrizione sociale del fare, non pensare, che investe innegabilmente anche certi aspetti del fare letterario. Una presa di posizione a cercare ostinatamente il rapporto con una poesia che a questo punto non può che trovarsi nel silenzio metropolitano dei volti stanchi dei peruviani, o nello smog di una Milano raccontata con grande schiettezza.
L’intento del poeta si rischiara d’improvviso nei bei versi di Dedicato a N.D.
con una dichiarazione d’amore all’innocenza, che fa a pugni con un’erudizione linguistica e formale che non vuole saperne di cedere il passo ad una comunicazione più autenticamente immaginativa.
Così, il decantato snobbismo delle prime pagine comincia (volutamente) a crollare sotto il peso della forza espressiva di ciò che non ha alcun bisogno di altri orpelli che non siano la sua pura essenza.
Forse è meglio
Ninetto
che zompa e derapa,
col sorriso di chi
non abbisogna di esegesi
o tavole sinottiche.
La seconda, parte della raccolta, più cinematografica e scorrevole nella sua struttura lessicale, designa quasi un trionfo del poeta sul lettore che fino alla fine ha assistito ad un’involuzione evoluzionistica: l’ultima prosa, è infatti dedicata a Charles Darwin e racconta il sunto di tutto quel che è stato prima, che è presente in una quotidianità che la poesia linguisticamente colta fatica a raccontare, il carico di stress psicofisico che ne deriva, e la sua risoluzione esorcistica: un’evacuazione poetica da manuale, cui consegue l’ovvia, inquietante domanda: e adesso, dov’è finito il poeta? Dunque un tentativo consapevole di tirare al proprio mulino quanta più acqua possibile, per vedere chi annega fra il poeta e l’incapacità di comunicare decentemente propria dei comuni mortali ma reciprocamente causa ed effetto di quella dei cosiddetti “poeti colti”. E quindi, non rimane che attendere il secondo libro di Di Palma per sapere la sorte del poeta…
uso le preposizioni
da, a
dal letto al pavimento
da giù a su
da steso a seduto
e le spazzole
le spazzole
le spazzole
martellano il cervello
scosse sussultorie del capo
la pressione che appiana
le divergenze ideologiche
la coprolalia
queste cose alla Joyce
non è ora di salpare
non ancora
niente fughe metafisiche
defecare
Parole lusinghiere e molto più belle degli stessi versi analizzati. Grazie di cuore Gabriella!