Alberto Cini: Aiku d’incù con introduzione di P. Santarone.
“Alberto Cini nasce a Bologna nel 1960, lavora come Educatore e Formatore, specializzato in Psicodramma è conduttore di laboratori espressivo teatrali, di scrittura creativa e grafico pittorici.
Delle sue produzioni letterarie sono state pubblicate due raccolte di poesie (“il fiore d’acqua” e “le tre sfere” ed. Firenze Libri) contenenti alcune tavole grafiche dell’autore.
Alberto Cini utilizza le tecniche sviluppate nella ricerca espressionista e le traduce nell’aspetto illustrativo per creare contesti immaginifici e narrativi, sia in ambito pittorico che letterario.”
Questo è tutto quanto Alberto dice di sé, non per scontrosa riservatezza, perché lui è anzi disponibile e aperto in modo disarmato e disarmante, ma perché evidentemente pensa che non valga la pena di aggiungere altro.
Per la verità quella brevissima nota biografica non dice la cosa più importante: che Alberto Cini vive la sua poliedrica dimensione di creatività in modo assoluto, come lavoro, come stile di vita, come vocazione. E questa creatività, questa continua affamata curiosità del provare, dello sperimentare – dalla parola scritta alla pittura, dal fumetto al gesto teatrale, dallo psicodramma all’attività formativa – non si esaurisce in sé stessa ma si finalizza nel sociale, nella relazione con gli altri. La dimensione educativa di gran parte delle sue attività, conferma l’impressione che il movente ultimo di quello che Alby fa sia l’amore.
Definito in questo modo l’autore, dirò due parole sugli haiku qui proposti. L’haiku è secondo me un genere che va bene giusto per i giapponesi. Vincolato da norme rigorosissime e dall’estrema brevità, un haiku può essere composto con relativa facilità se ci si basa soltanto agli aspetti tecnico-compositivi, diventa invece un’impresa veramente difficile se si intende trasformare il giochino in poesia.
L’escamotage di Alberto – comporre gli haiku nel cordiale e allegro dialetto petroniano – rende più facile l’impresa poetica, pur nei limiti di levità giocosa che traspaiono con evidenza.
E così l’algido haiku del Sol levante diventa proverbio, motto balanzoniano, espressione di saggezza e buon senso saldamente indigeni…
… e diventa assai piacevole a leggersi, magari, per i passi più oscuri, con l’ausilio della traduzione, ovviamente anch’essa in impeccabili haiku, che però, privati della suggestione del dialetto, mostrano tutta la loro gelida sollevantità…
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A vad un anzel
Lo am guerda in ti uc
As maravaia
Vedo un angelo
Lui mi guarda negli occhi
Si meraviglia
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La fnestra vuda
L’è frad anc in bisaca
Man e foi sparè
La finestra vuota
È freddo anche in tasca
Mani e foglie sparite
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Parchè tum guerd
L’oc l’è furb com un spec sporc
L’arloi an smov piò
Perché mi guardi
L’occhio è furbo come uno specchio sporco
L’orologio non si muove più
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Ma csa faghia què
Voi canter al mi nom
Acsè as pasa
Ma cosa faccio qui
Voglio cantare il mio nome
Così si passa
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Al tren as svegna
Aiè omen doni pinen
La nabbia as mov
Il treno si avvicina
Ci sono uomini donne bambini
La nebbia si muove
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Al frot l’è madur
Al dlà dal mer la guera
Maila bachè
Il frutto è maturo
Di la dal mare la guerra
Mela bacata
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alcune di queste poesie mi hanno fatto tornare alla mente certe folgorazioni di Tonino Guerra.
molto piacevole leggerle. grazie