Da dentro a fuori e ritorno (evento di 100 TPC Bologna) di Bartolomeo Bellanova.
Nel 2011 i poeti Michael Rothenberg a Terri Carrion lanciano un appello a tutti i poeti del mondo chiedendo di utilizzare la poesia per veicolare l’urgenza di cambiamenti a livello sociale, economico, politico, ambientale e di rispetto dei diritti umani. Nasce così “100Thousand Poets for Change” (centomila poeti per il cambiamento), un movimento che ha continuato a evolversi finendo per riunire nei suoi eventi di lettura poetica simultanea oltre 600 città in 115 diversi paesi del mondo, tra cui Bologna.
“100TPC–Bologna” si muove soprattutto in Emilia Romagna, e a fine settembre nel 2013 a Bologna ha dato vita a una manifestazione di 3 giorni coinvolgendo più di 200 poeti, mentre anche in una ventina di altre città in Italia, e più di 500 nel mondo, si svolgevano letture simultanee all’insegna del cambiamento.
Il programma 2014 di eventi e letture è stato incentrato sulla scelta di luoghi emblematici del disagio psicologico e sociale per portare la poesia fuori dagli spazi ordinari e ordinati all’interno dei quali ci si aspetta di incontrarla. Il primo della serie di otto eventi che hanno interessato Bologna tra il mese di settembre e quello di ottobre è stato organizzato il giorno 18 settembre nella Biblioteca dell’Istituto Minguzzi (ex Ospedale Psichiatrico di Bologna).
Abbiamo voluto intitolare l’incontro: “da dentro a fuori e ritorno, transito e corrispondenze, in instabile equilibrio tra microcosmo e macrocosmo”, per cercare una sintesi sufficientemente descrittiva della condizione umana. I numerosi interventi poetici e i monologhi proposti hanno portato a galla, ognuno con la propria diversa sensibilità, col proprio tono univoco, con le corde delle più profonde emozioni vissute, il disagio di vivere. Disagio che non è relegato a una condizione patologica, ma che è latente, pronto a graffiarci prepotente, durante il dipanarsi del gomitolo della nostra vita.
Per alcuni dei partecipanti questo malessere nasce dalla percezione intima di inadeguatezza rispetto a quello che gli altri e le regole sociali imposte ci chiedono di essere, rispetto ai comportamenti che ci impongono per essere “normali”. Abbiamo ascoltato liriche dove prevaleva il tema di conflittualità col proprio corpo, altre dove prevaleva, invece, la conflittualità rispetto alla violenza imposta dalla cosiddetta “normalità”. Io e altri partecipanti abbiamo posto l’accento sul nostro eterno oscillare tra in finito e l’infinito, tra l’infinitamente piccolo dentro di noi e l’immisurabile fuori di noi.
Siamo un continuo: “vorrei ma non ce la posso fare”. Vorrei vedermi dentro, vorrei infilarmi dentro all’ingorgo di cellule, circolare senza meta nei ruscelli del sangue fino alle rapide scoscese del cuore e poi farmi gettare da quella pompa pazza fino alla periferia estrema di un pollice. Vorrei vedere fuori di noi, nell’infinitamente grande; noi, che vegetiamo in una minuscola periferia, una bidonville della nostra galassia, persa tra migliaia di galassie, migliaia di soli, di pianeti e spazio vuoto. Vuoto spinto, spinto fin dove? Non so. E il nostro cervello s’insinua nello spazio e prova a catalogare, pensare e immaginare, ma è insufficiente ogni suo slancio. Là fuori è oltre alla sua portata, oltre alla sua comprensione. Percepiamo la nostra natura trascendente, ma continuiamo a scivolare nelle sabbie mobili dell’esistenza quotidiana.
Indipendentemente dai motivi individuati di conflitto, insoddisfazione, malattia, tutte le letture sono state accomunate da un s.o.s. più o meno esplicito.
Avremmo tutti, alla fine, necessità di una mano che ci afferri prima di cadere nella voragine vorace a divorare i nostri pensieri fino all’ultimo. E’ una fortuna, un caso o un destino. A volte abbiamo vicino una mano forte come la radice di una quercia secolare e non la riconosciamo, la fuggiamo. A volte la cerchiamo nel cielo buio e senza luna della solitudine. Spesso goffamente, con scarsa lucidità e non la troviamo. Quante grida silenziose si spengono sulle corazze della gente intorno a noi. Vorremmo forse un sorriso o un incoraggiamento e troviamo vuoto, sì vuoto siderale negli occhi. Vorremmo calore e troviamo gusci, uomini conchiglie che se accosti l’orecchio non senti il battito di un cuore, ma l’uniforme risacca del nulla. Allora costruiamo steccati attorno al nostro cervello, ci sentiamo assediati e spieghiamo le vele verso una dimensione interiore solo nostra. Siamo a disagio, condannati dalla reazione dei normali all’assedio permanente di noi stessi fino alla pazzia.
E se il disagio mentale fosse una sensibilità più forte della media agli urti della vita, alle incomprensioni, ai tradimenti, alle passioni, ai rimorsi e alle sconfitte? Il matto è il nostro fratello che inciampa in un sasso davanti a noi nel cammino e quel suo inciampare ci salva perché avremmo potuto essere noi al suo posto. In questo inciampo il folle può essere simile al poeta, entrambi pericolosi per l’ordine costituito perché non riconoscono lo stesso tempo e lo stesso spazio degli altri uomini e consumano le certezze di chi non vuole ascoltarci perché non può ammettere che tutti siamo un po’ malati.
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Questi miei due testi sono stati presentati il 18 settembre:
Oltre
Il cuore lastricato di ciclamini è leggero nella salita. Giù sulla strada il soffitto delle nuvole basse si avvicina attimo dopo attimo ai miei capelli.
Desidero vedere e sentire di più dell’umidità delle forme intorno, invischiate nell’abitudine.
Sulla cima della collina sciolgo le briglia e mi libero dei paraocchi, non mi servono più.
Davanti a me un monte verde si scontra sul suo fianco slavato con uno spuntone di roccia sabbiosa e poi si unisce coi merli di altri monti, muraglie parallele, irregolari e invalicabili.
Sopra di me una formazione di passeri lanciati a caso nel blu dalla mano del Creatore si esibisce in acrobazie perfette.
Ma oltre le mammelle dei colli un po’ nudi e un po’ no, oltre quel volo di geometrie sconosciute, oltre quell’acqua generosa, cosa non vedo, cosa non sento?
Mi arrampico sullo scheletro paziente di un albero già svestito a implorare le carezze ruvide del vento.
Limitato è il mio pensiero, limitata la mia vista, si ferma sulla cornice della tela, non esiste l’oltre.
Ma se l’occhio rotolasse al di là cosa troverebbe?
Galli dalla cresta rossa, campane svettanti su zampe di giraffa e salmoni che saltano in retromarcia a intonare un gospel per i bimbi morti senza fiabe?
O il silenzio soltanto, il nulla molle di uno spazio duro senza anima e senza tempo ?
Con un ferro da calza proverò a bucare la bolla che ci avvolge. Basta un foro, uno solo da accostarci l’occhio poi lo richiuderò con la tempera.
Ma se cado, tu afferrami prima del tonfo.
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Luogo dato agli spettacoli
Luogo dato agli spettacoli diurni e notturni: la strada
palcoscenico con le comparse,
mosaico dei punti di vista.
Dal pavimento freddo vedo solo i tronchi
di una foresta di uomini migratori,
perenni cammini.
Tronchi pesanti, arbusti veloci,
passi che vanno e vengono, oscillano,
barcollano su un copione scritto,
barcollano su una pagina bianca,
scia d’inchiostro esaurito.
Gli occhi no: quelli stanno in alto
superbi come falchi, sparuti come cerbiatti,
gelidi come iene.
Da qui giù non è dato osservare
chi può addentarmi il cranio.
L’allenamento fa riconoscere l’occhio dal passo
e dopo mille passi e mille ancora
i piedi di passaggio sono poemi parlanti.
Con l’orecchio a terra sento le mandrie della prateria
avvicinarsi baldanzose, uniformi globali,
tessuti artificiali.
E’ pesante restare ancorati a una colonna secolare
quando la corrente di follia e ottundimento
blatera tutt’attorno.
I piccioni dall’asta tesa tra gli archi del portico
tubano indifferenti le ore.
Lo spettacolo si osserva meglio dal loggione.