Dino Campana: retrospettiva a cura di Enrico Gurioli 2

Dino Campana: retrospettiva a cura di Enrico Gurioli – 2.

   

   

Dino Campana: la madre e Sibilla. Il legittimo desiderio di maternità

A Sarajevo, mentre i Canti Orfici stavano per essere stampati, i proiettili della pistola dello studente irredentista Serbo Gavrilo Princip arrivarono contro l’arciduca Francesco Ferdinando – erede al trono dell’Impero austro-ungarico – e di sua moglie, la contessa Sophie, chiudendo un lungo secolo cominciato con la Rivoluzione Francese. Nel marzo del 1913 un altro anarchico, Alexandros Schinas aveva sparato e ucciso a Salonicco il re Giorgio di Grecia. Erano i prodromi e gl’inizi di un conflitto armato fra gli Stati Europei nonché la storica fine di un periodo. L’Ottocento. Sibilla Aleramo intanto continuava a Firenze la sua spregiudicata corsa senza freni in viaggi sentimentali fra gli intellettuali del suo tempo mentre in città cominciavano a circolare singolari dicerie sul conto di Campana – ebbro di un effimero successo letterario – come quella di essersi presentato in uniforme da sergente a una manifestazione interventista e di avere strappato alcune pagine dei Canti Orfici, il libro venduto a Marinetti fra i tavolini del Caffè Gambrinus nella stessa Piazza delle Giubbe Rosse. Un gesto simbolico motivato dalla ragione, secondo Dino Campana, per cui le pagine strappate dei Canti Orfici erano quelle che il poeta futurista Tommaso Filippo Marinetti non avrebbe potuto capire.[1] Qualche suo estimatore lo voleva convincere a far ristampare il prezioso libretto da un vero editore: Campana possedeva ancora la lucidità per chiedere al critico letterario Emilio Cecchi, suo coetaneo e convinto sostenitore della sua natura di poeta al di sopra di qualsiasi destino familiare se ci fosse stata qualche speranza per una eventuale ristampa dei Canti Orfici. Cecchi nel contempo lo informava di avere ricevuto una lettera di Sibilla Aleramo a cui aveva risposto evasivamente chiedendo poi se la famosa scrittrice fosse stata messa al corrente che egli aveva lasciato “l’Università a causa delle studentesse,….”[2] Aveva sfoderato nella sua lettera spedita all’Aleramo le ingenue armi dell’artista stanco e snervato, con la tronfia consapevolezza del poeta agè pronto a passare alla storia; era solo un povero autore che cercava disperatamente di vendere il suo libro. Era un uomo sperduto, ammalato, squattrinato come lei, come spesso accade agli artisti veri. Sibilla era la prima donna della sua vita ad averlo esplicitamente cercato; di lei conosceva senza dubbio il chiacchiericcio becero degli ambienti fiorentini sul suo passato amoroso. Intanto lei aveva mollato al proprio destino il giovane diciassettenne Raffaello Franchi per raggiungere il trentunenne Dino Campana portando con se una copia dei Canti Orfici. Si erano incontrati sul Giogo, il Passo appenninico che divide la Romagna dalla Toscana. La scelta di trovarsi a Barco lungo la nuovissima strada del Giogo diventò anche per Campana una opzione quanto mai moderna, attuale, economicamente vantaggiosa, dopo avere escluso tassativamente l’incontro con l’Aleramo a Marradi e in qualsiasi località lungo il tragitto della ferrovia che da Faenza arrivava a San Pietro a Sieve. Quell’incontro fu l’inizio di una vera e travolgente passione, la prima di Campana. Irripetibile per Sibilla. Egli fu, pur in mezzo a mille stravaganze, molto tranquillo, “dolcissimo innamorato come un bimbo” sostenne qualche decennio dopo Sibilla.[3] Per entrambi la vita è rinnovata, può iniziare ancora una volta. Il viaggio chiamato amore era invece un viaggio dei desideri, attorno alle più profane pulsioni dell’animo umano. Tutti e due sembravano convinti dell’esistenza di un’unica vita terrena, legata a un corpo fisico; un solo corpo che avrebbe dovuto lasciarsi guidare dalle proprie pulsioni. Sibilla aveva abbandonato da tempo le ipocrisie dei moralisti per affermare se stessa, ponendo di fronte alla morale comune i propri scandalosi valori. Campana identificava nella sua lucida follia, il ritorno al mondo del pensiero dionisiaco, guidato dalle passioni. Giustificava il suo amore per Sibilla attraverso Nietzsche. Tuttavia era fisicamente debilitato in quei giorni di passione d’estate trascorsi fra i monti del Mugello con una versificatrice di non facile appagamento. Per lui non c’era più la necessità di toccare il fondo della trasgressione per arrivare all’arte sublime della sua poesia ormai espressa nei Canti Orfici e in altri testi dimenticati o nascosti in qualche temporanea abitazione. Lei restava comunque ormai esclusa dalla sua produzione poetica. La guerra era stata annullata nei sensi e in un groviglio di sentimenti sconosciuti da Dino, mentre egli spediva a Sibilla, impegnata a Firenze per le sue traduzioni dal francese articoli di politica,[4] una cartolina di una stampa illustrata giapponese. Scriveva: “Tutto va per il meglio nei migliore dei mondi possibile. Come amo la povertà delle cose quassù che meglio ci farà sentire la nostra ricchezza! “. Anche la fortuna sembrava arridere agli uomini impegnati sul fronte dell’Isonzo. In quei giorni di agosto tutto andava per il meglio nei migliore dei mondi possibile anche per il Regio Esercito. Cadorna, aveva spostato ingenti forze che erano impegnate nel Trentino e lanciato un’offensiva contro le truppe austriache culminato con la presa della città di Gorizia. Mentre Sibilla è a Firenze e Dino fra le abetaie del Mugello, Umberto Boccioni che aveva mollato Sibilla dopo tre giorni di un melenso rapporto, si trova a Chievo, un pugno di case in riva all’Adige, a cinque chilometri da Verona, verso ovest. Al   mattino era uscito per una piccola galoppata senza essere un esperto cavallerizzo. Superato il passaggio a livello sbucò dalla curva un autocarro che spaventava il cavallo che s’impennò disarcionando l’inesperto artista. Boccioni aveva battuto violentemente la testa. Prima di morire aveva scritto nel suo taccuino un profetico “l’arte è sempre al di sopra, e la guerra non la tocca.[5] Era il 17 agosto del 1916. Il giorno dopo Dino e Sibilla si incontrarono di nuovo fra i monti del Mugello per riaccendere la loro passione. Da lì seppero che la dichiarazione di guerra era stata consegnata all’ambasciatore tedesco il 26 agosto. Poi ci fu il pranzo di Natale a casa Campana in Marradi. Era il primo Natale che passava con Dino a casa dei genitori a Marradi. Dino Campana l’aspettava convinto di avere trovato con lei un’ulteriore ragione plausibile alla propria esistenza. Ma era anche un trofeo da esibire, ostentare con orgoglio. Per i genitori e la gente del paese, Sibilla Aleramo era pur sempre una celebre poetessa italiana mentre lui restava soltanto il figlio del vecchio direttore scolastico, un giovane disadattato, autore di un libretto stampato nella nuovissima tipografia di lunga tradizione editoriale  maturata a Carpi in Emilia Romagna. Del suo libro, i Canti Orfici ne discutevano tutti però. Le poche persone che avevano incrociato l’Aleramo durante il tragitto dalla stazione a casa Campana non potevano fingere di non osservarla. Stava camminando decisa a fianco del suo Dino con quella eleganza tipica delle donne di città. Anche lei esibiva il suo trofeo. Ha già quarantun anni, ma non li dimostra. Dino trentuno. È ben vestito, con i baffetti ben curati, ordinato come si conviene a un uomo che porta per la prima volta a conoscere alla famiglia la sua fidanzata. Gli ridevano gli occhi di una specie di gioia infantile. Incosciente. Lei è bella, molto bella; nasconde soltanto una ciocca bianca tra il biondo dei capelli, sopra la tempia sinistra che tiene nascosta sotto la falda del fazzoletto arrotolato attorno a un volto color madreperla dai lineamenti perfetti. Era per Dino, come si diceva a Marradi “la parte in casa” di Sibilla; una donna chiacchierata, di dubbia moralità, separata per avere abbandonato il marito e un figlio. Eppure il padre, dotto benpensante , per giunta paesanotto senza consapevolezza alcuna, assecondò il figlio malato di manie letterarie, il quale per la prima volta in vita sua, nel giorno di Natale, portava a casa una donna. Per di più bella e famosa. In fin dei conti dietro quel convenzionale moralismo di Giovanni Campana, neo direttore didattico a Lastra Signa, c’era anche l’autocompiacimento di essere accanto a una donna considerata importante. Tutta la famiglia Campana stava seduta attorno a quella tavola, nuore e cognate comprese; e finalmente Dino con la sua unica fidanzata. Assomigliava tantissimo alla madre, Dino; stesso sguardo severo, il naso breve, largo e la bocca forte, stessi capelli rossastri. Stessa corporatura robusta. L’istinto materno entrava prepotentemente in scena in quel teatrino di famiglia voluto da tutti per assecondare Dino. Cominciava il 1917; l’anno in cui sarebbero partiti per la guerra gli ultimi nati dell’Ottocento. Sibilla Aleramo aveva anche scritto alla madre di Dino, dopo il pranzo di Natale a Marradi per ringraziarla e testimoniare la sua devozione al figlio di lei. Fra le due donne così diverse era nata una solidarietà femminea quel giorno a Marradi; erano divise dalla fede religiosa, dallo stile di vita e unite dall’amore per Dino. In un intreccio di lettere partite il 4 gennaio la madre di Dino metteva nella busta indirizzata a Sibilla Aleramo una immagine della Madonna delle Grazie vergando di proprio pugno, su tre fogli, il suo disagio di madre. ”La sua lettera affettuosa, le sue premure per Dino mi spingono a scriverle. Non so consigliarla a suo riguardo. Noi a nulla siamo riesciti, solo vediamo che ha bisogno di mettere ad effetto quando dice di partire; ci siamo indotti a passarle quanto le nostre misere forze lo permettano per evitare in lui e a noi cose spiacevoli; abbia, buona Signora, pazienza e tornerà. Non le nascondo che io ho sperato in lei, nel suo affetto che mi sembra sincero, ma purtroppo vedo che ancora nulla abbiamo ottenuto, voglio però sperare che col tempo e pazienza riusciremo a qualcosa. Egli mi disse che lei era molto buona, ma che il carattere suo violento non poteva frenarlo, quando dice partire si sente agitato tanto che meglio è per lui e per noi lasciarlo fare.[…] Consigli Dino a tornarsene da Livorno, non è aria per lui sotto ogni aspetto. Nell’Estate scorso egli vi passò troppe noie, che Dio non voglia si ripetono, tanto che fu obbligato a lasciare Livorno. Credevamo che non gli fosse tornato voglia di ritornarci; cerchi di consigliarlo a starci poco, anche per i suoi nervi gli fa meglio l’aria di montagna che quella di mare. Farà molto piacere a dirle questo anche a nome del babbo suo, noi non gli scriviamo perché non ci da ascolto. Fidente nella sua ascendenza su Dino.“[6] Con il pretesto di trovare una sistemazione non più al mare ma verso le Alpi per Dino, Sibilla Aleramo chiese in prestito cento lire allo scrittore editore Adolfo Orvieto della rivista fiorentina Il Marzocco. Che ci fosse un problema di denaro nel rapporto fra Dino Campana e Sibilla Aleramo traspariva nelle loro lettere e nei comportamenti: Dino da tempo sognava una collaborazione con La Riviera Ligure e Sibilla continuava a muoversi con grande determinazione negli ambienti delle traduzioni editoriali. Inoltre poteva esserci anche un’ansia naturale e legittima di avere un figlio, seppur negata razionalmente, che spiegava in parte la decisione di far visitare Dino Campana da Eugenio Tanzi, considerato il padre della moderna psichiatria e coautore con il suo ex-allievo Ernesto Lugaro, dell’imponente Trattato delle Malattie Mentali, testo di riferimento fondamentale per la psichiatria italiana in quegli anni. Per intercessione di Ermenegildo Pistelli, sacerdote presso i Padri Scolopi di Firenze nonché scrittore esperto di glottologia e papirologia a cui Sibilla aveva confidato il loro problema e il presunto bisogno   materno di Dino era stata fissata la visita medica. Padre Pistelli sapeva benissimo che il professor Tanzi aveva condotto originali ricerche sulla memoria associativa e sulle atrofie sperimentali dei centri nervosi nonché sulla paranoia, che considerava come dovuta al ritorno al pensiero primitivo e alle tendenze represse dell’individuo. Era la giusta scelta per far controllare lo stato di Dino Campana da un esperto; scelta certamente condivisa dalla madre durante i privati colloqui del giorno di Natale. Era il 22 gennaio 1917 ma il temporaneo ricovero, proposto dal luminare, viene rifiutato da Dino Campana che se ne fuggì in Piemonte fra le colline e i monti della Val di Susa. In questa fuga c’erano tantissime e imperscrutabili motivazioni; comunque Sibilla aveva deciso di non inseguirlo. Per lui c’era sempre il ritorno a Marradi, dalla famiglia e la convinzione tutta maschile di avere sempre una donna che forse lo aspettava a Firenze; anch’essa nomade nell’anima. Solo attraverso la famiglia di Cesarino Tallone, amico di Raffaello Franchi anch’egli partito per il fronte, Sibilla Aleramo poteva avere notizie di Campana in Piemonte perché la madre possedeva una casa in Alpignano, vicina a Rubiana. La nobildonna piemontese è coltissima e amante della poesia: principalmente riservata e molto religiosa. Sebbene fosse molto ospitale, non avrebbe accettato alcuno se non presentato da amici intimi. Soprattutto non avrebbe accettato Sibilla Aleramo, ma neanche altre persone che avrebbero potuto distrarre Dino dalla sua nevrastenica catatonia il quale aveva comunque travisato l’accoglienza come un tributo al suo essere esperto “di cose agricole” giustificando poi se stesso presso gli amici come un soggiorno “in quella bella comoda casa di campagna ben fornita di vino e di tutto, e che figurava per lui come un’oasi di felice riposo nella sua sfortunata esistenza.”[7] Dino Campana viveva invece malinconicamente la sua stagione a Rubiana si dice affogando non solo nel vino ma anche nelle acque ghiacciate del torrente Messa il suo priapismo. Sibilla in cuor suo ha già deciso di abbandonare quest’uomo che fugge. Gli scrive: “Dino. Dicesti: “Sibilla resisterà una settimana, poi mi soffocherà di lettere, di espressi…”. È un mese che sei partito, e ti scrivo – per un’unica volta. Non ho mai più saputo nulla di te, se non che ti sentivi “bene e quasi felice”. Neanche Cesarino m’ha più scritto. Non aspetto più nulla.”[8] A Lastra Signa dove alloggia con il marito all’albergo Sanesi, anche la madre è senza notizie di Dino; scrive a Sibilla cercando qualche informazione su di lui rassicurandola poi che il padre sa di “essere in regola”[9] per le sessanta lire mandate al figlio come mensilità pattuita. Dino è pazzo d’amore per Sibilla, ma gioca a farsi desiderare. Tutto lascia presagire a un nuovo incontro. Da Lastra Signa Fanny Campana scrive di avere ricevuto finalmente notizie da Dino e “il babbo gli à mandato L. 25, al primo del mese riscuote, e le manderà L. 35, che sono 60. Se lavora camperà, altrimenti… è cosi cara la vita… Speriamo bene… Io Signora non so dargli consiglio sul da farsi, altro che legalizzare l’unione. Un che mi dice che lei se vuole può salvarlo. Le cose ben fatte portano in generale buoni resultati, se vuol bene a Dino faccia del suo meglio, ed io l’appoggerò dove posso.”[10] Il matrimonio come una soluzione ai problemi di Dino era da considerarsi una speranza materna, o un presentimento tutto al femminile a cui Dino era totalmente estraneo.[11] Sibilla Aleramo ormai tracciava una strategia degna di un generale, dirigendo i passi dell’ultimo ignaro poeta pazzo d’amore per lei in modo da potersi spostare per non incontrarlo”.[12] Dino era tornato a Firenze: comunicava a Mario Novaro di stare bene[13] lasciando come recapito la casa di Virginia Tango Piatti. Campana deve aver avuto in simpatia Virginia per la comune antipatia nei confronti dei Lacerbiani, che Virginia richiamava alla responsabilità per la loro nefasta foga interventista, nei sui articoli giornalistici alle soglie della Guerra Mondiale. E poi a casa di Virginia Tango Piatti probabilmente Dino avrebbe avuto qualche notizia di Sibilla che ormai si negava. Dino appena rientrato a Firenze dal Piemonte pensò subito di farsi notare passando nei soliti caffè, ormai deserti dove si trovavano giovani diciottenni della classe ’99 pronti a partire per il fronte. Sibilla intanto sapeva di avere fatto impazzire d’amore Dino Campana: lo aveva abbandonato dopo quella significativa ma inutile visita medica fatta dallo psichiatra Tanzi non perdonando a Dino la fuga dall’eventuale ricovero in manicomio – nuova istituzione ospedaliera –  per un periodo di osservazione, probabilmente concordato con la madre nel tentativo di legittimare una loro unione. I benefici portati dalla scienza nella vita delle persone erano diventati sempre più visibili: la malattia non era più un segno del destino da accettare ma da combattere con le medicine e con le nuove terapie; nei moderni ospedali psichiatrici venivano utilizzati il coma insulinico, ioduro di sodio e farmaci sperimentali come la cloropromazina che permettevano di attenuare le crisi violente dei ricoverati mentre si gettavano le basi pseudo-scientifiche per i primi esperimenti sul cane dell’elettroshok. Il “demente precoce” attraverso le sue traduzioni dal tedesco dimostra invece di conoscere ciò che era oscuro al mondo intellettuale italiano proponendo la chiave interpretativa delle più attuali concezioni filosofiche sull’uomo: la psicanalisi. Per la madre di Dino Campana un ricovero in ospedale psichiatrico era vissuto come una speranza. Per Dino Campana invece la speranza   materna nella nuova medicina fu liquidata come una terribile onta ordita a propria insaputa da quelli del suo “paese”. Sibilla invece aveva forse visto in quella fuga una mancata assunzione di responsabilità del proprio uomo verso una donna di oltre quarant’anni alla ricerca di concretizzare un legittimo desiderio di   maternità. La risolutezza e la spietata reazione dell’Aleramo verso i comportamenti di Dino Campana, lasciano intravedere una donna ferita nel proprio orgoglio, tradita dalla misoginia di un uomo che in quel momento si sentiva appagato nei sensi, gratificato da un rapporto fra letterati, e padre risolto con la pubblicazione dei suoi Canti Orfici. EC

___________________________________

[1] A.Viviani, Giubbe Rosse Firenze, Barbera Editore, 1933
[2] Lettera di D.Campana a E.Cecchi del 26 luglio 1916 in Souvenir d’un pendu, op.cit
[3] Fondazione Gramsci, Archivio di Sibilla Aleramo
[4] S.Aleramo, Dino Campana. Un viaggio chiamato amore (lettere 1916/1918) op.cit.
[5] G.Agnese, Vita di Boccioni,Milano, Camunia Editore, 1996
[6] Lettera di Fanny Campana-Aleramo del 4-1-1917, in Dino Campana. Un viaggio chia mato amore, op.cit pp100-101
[7] G.Cacho Millet., Lettere di un povero diavolo, Firenze, Ed.Polistampa 2011 p.XV ; Articolo di A.Soffici mai raccolto in volume
[8] S.Aleramo, Dino Campana.Un Viaggio chia mato amore, op.cit., p.104
[9] Idem. c.s., pp.105-106
[10] Idem. c.s. pp.111-112
[11] idem, c.s.
[12] G.Tallone, Dino Campana:un anno col poeta, op.cit.,
[13] E.Falqui, Dino Campana.Il carteggio Novaro in La fiera letteraria del 23/2/1967, P. 9

                     

Ingmar Bergman, Il volto 1958
Ingmar Bergman, Il volto 1958

2 thoughts on “Dino Campana: retrospettiva a cura di Enrico Gurioli 2”

  1. complimenti all’autore : una ricostruzione degli avvenimenti che contribuisce moltissimo a far capire il lavorio mentale che deve
    aver logorato ancora di più una mente abbastanza debole come quella di Campana.

  2. Articolo ricco, informato, splendido. Sono piena di ammirazione per l’autore che alterna notazioni storico-politiche legate al tempo ( l’inizio della prima guerra mondiale) con la vicenda umana in primis, artistica e le letteraria della straordinaria coppia. Il pranzo di Natale in casa Campana a Marradi è proprio un capolavoro di suggerimenti analitici.
    Peccato si perda la ricchezza della loro poesia, al di là di ogni comportamento….

    In un momento
    Sono sfiorite le rose
    I petali caduti
    Perché io non potevo dimenticare le rose
    Le cercavamo insieme
    Abbiamo trovato delle rose
    Erano le sue rose erano le mie rose
    Questo viaggio chiamavamo amore
    Col nostro sangue e colle nostre lacrime facevamo le rose
    Che brillavano un momento al sole del mattino
    Le abbiamo sfiorite sotto il sole tra i rovi
    Le rose che non erano le nostre rose
    Le mie rose le sue rose.
    Da Livorno, 4-1-1917.
    Rina mia,
    …io potrei rinunciare a te, ma per sempre. Così bella comme un rêve potrei dimenticarti solo
    per andare molto lontano e non tornare più.
    Davanti alle cose troppo grandi sento l’inutilità della vita…..pensa che per vivere l’assurdità del nostro amore hai bisogno di tutta la tua grazia.
    Quando sempre mai forse parole giravano nel soffitto del mio cervello. La città è una serie di cassoni balordi. Appiccicato alla spallina del passeggio guardo il mare senza parole come io sono senza pensiero.
    …dovremmo ancora vedere le Alpi. Nietzsche scendeva di là al mare colla sua sfida. Ahimè Rina perché non mi lasci morire? Là l’edelweis non è dannunziano e la Dora scende in tumulto e il più leggero dei baci crea ancora forse come quando dicevo

    come delle torri d’acciaio
    nel cuore bruno della sera
    il mio spirito ricrea
    per un bacio taciturno
    Ah miseria di questi ritorni. Puoi amarmi? Ancora? Ancora? Ancora? Non ti scriverò.
    Le mie lettere sono fatte per essere bruciate.

    Dino verrà ricoverato definitivamente nel cronicario di Castel Pulci, dove morirà nel 1932.
    In tutti quegli anni Sibilla non si farà viva, riprenderà la sua vita e intreccerà, nevroticamente innamorata dell’amore, altre storie.
    M.Grazia Ferraris

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.

Dal 1 Febbraio 2023
il numero di VERSANTE RIPIDO con tema:
"RUMORE BIANCO - L'ILLUSIONE DELL'INFORMAZIONE"
    
IN VERSIONE CARTACEA
È DISPONIBILE PER L'ACQUISTO