Fantasmi, spettri, schermi, avatar e altri sogni di Claudia Zironi, recensione di Giuseppe Martella

Fantasmi, spettri, schermi, avatar e altri sogni di Claudia Zironi, Marco Saya Ed. 2016, recensione di Giuseppe Martella.

    

   

Claudia Zironi muta la pelle in questa raccolta: la sua precedente, Eros e polis era di tutt’altro stampo, una poesia compatta terrestre, doppiamente ancorata al corpo e al contesto sociale, direttamente sensuale ancorché costellata di sorprendenti figure del discorso e aperture di pensiero degne della migliore tradizione “metafisica” inglese del Seicento, come notavo allora. E benché la silloge avesse una sua coerenza globale e un suo sviluppo, ciascuna lirica manteneva la propria autonomia, spesso marcata da immagini chiavi e chiusure sentenziose. (134 per es.) Ora tutto questo allestimento è andato in frantumi, pare, e fra le briciole fra le macerie dell’impianto precedente bisogna cercare il senso, il progetto di questa nuova raccolta perché è come se il linguaggio del corpo e con esso il corpo del linguaggio avessero subito un cambiamento marino, una “mutazione ricca è strana” e insieme forse una disseminazione feconda. Anzitutto appare ora molto sfumata rilevante la distinzione tra prosa e verso: vi sono qui enigmatiche epigrafi in prosa che fanno da cornice alle varie sezioni e che hanno un loro autonomo ritmo e un indubbio valore evocativo, costituendo come un’anticipazione e un’eco alle poesie che seguono. Si tratta di parerga nel senso proprio del termine, cornici multiple che infittiscono lo spettro cromatico della silloge, connotandone i fantasmi evocati e moltiplicandone i riflessi in una “wilderness of mirrors”. E ciò con meditata consapevolezza. Non mancano infatti sottili originali filosofiche meditazioni sullo statuto stesso della poesia, come quella che apre la sezione II: “E se la poesia si reggesse sull’equivoco di vite sospese?…. il sublime come errore… se fosse un difetto dell’amore come un gene zoppo, una mancanza partorita, quest’arte?” (23)

Una meditazione dove l’amante, l’interlocutore, la seconda persona del discorso, viene scomposto prismaticamente nello spettro delle sue sembianze, viene rimodulato digitalmente, numericamente, nei pensieri nei versi nelle immagini. In un dialogo elusivo e serrato nel contempo, davvero demonico nel senso più pieno del termine, dove il tu, il prossimo viene colto sulla strada del divenire avatar nella sua mutazione epocale. Una poesia dunque prosaicamente implacabilmente all’altezza dei tempi suoi, e che anzi li detta dal suo interno, come un programma digitale, come un algoritmo della carne del mondo. Cadenzato rito di passaggio, disseminazione cosmica del desiderio, nomadismo dei temi e dei versi, devastazione rituale del linguaggio lirico. Si potrebbe parlare di realtà aumentata, iperrealismo magico o che altro… dove il tempo e lo spazio si coagulano in grumi di materia, assumono accelerazioni e rallentamenti inconsueti, curvature einsteiniane, derive cosmiche nei minimi dettagli.

Claudia Zironi continua a farci sentire “il suo pensiero come il profumo di una rosa” (così T.S. Eliot a proposito dei poeti inglesi del Seicento) ma ora è un distillato in vitro, il frutto di una nuova mutazione genetica. La sua poesia erotico-politica è ora diventata “metafisica” in senso pieno, ricco di effetti a sorpresa e di esiti impredicibili. Dove una impersonalità conquistata a caro prezzo dello stile consente di declinare l’amore e la morte con impassibile familiarità. Poesia agli antipodi di ogni nostalgia romantica e protesa invece al futuro in una spietata partecipe esplorazione di orizzonti. Poesia certo postumanistica per non dire postumana, come sortita da un codice genetico e da una “memoria cellulare”, (63) che evoca l’eco di una sorta di Big Bang nel mondo e nel linguaggio. Registra senza proclami gli effetti irreversibili della s-composizione digitale del testo a stampa, della esplosione della galassia di Gutenberg. Poesia nelle sue intime pieghe volta al futuro al di là di ogni principio speranza, fuori da ogni afflato escatologico, spersonalizzata in senso pieno, dove l’io poetico annichilito è un seme fecondo pronto a mettere radici.

La figura dello schermo rappresenta qui il limite tecnologico tra fenomeno e noumeno, innescando una vera e propria sorprendente fenomenologia dell’apparenza nei nuovi orizzonti della realtà virtuale. Dove la processione dei simulacri preclude ogni distinzione tra originale e copia, tra finzione e realtà. Tutta questa mutazione linguistico-figurale di temi di maschere di pose, questa fantasmagoria surreale ma composta, priva del pathos proprio delle avanguardie, questo accadere sempre in altro luogo, qui ora altrove nel villaggio globale, questo gioco d’ombre e di spettri, questa implacabile “composizione di luogo”, esercizio spirituale, si condensa nella figura ambigua dell’Avatar, nel duplice movimento, tra antica religione e tecnologia moderna, della dis-incarnazione della realtà nell’immagine bidimensionale, nel simulacro. L’Avatar condensa il movimento molteplice di dislocazione del linguaggio che qui accade, l’attuale inarrestabile processo dell’inesistenza certificato in un allucinazione condivisa: “voce e carne scorrono/ come scie di luce. questa mia bellissima/ entità elettronica/ che bene scrive di miracoli/ inesiste altrove solo/ per comune senso di illusione” (104) Un’epifania del simulacro che brucia millenni di civiltà (quella della scrittura?) nel gesto singolare e condiviso di un click su un link.

Il gioco del linguaggio-mondo è cambiato infatti radicalmente nell’era della scomponibilità numerica di ogni codice. Ora la poesia di Zironi che culmina nella nozione dell’avatar mi sembra proprio felicemente esprima questo trasecolare dell’esperienza e del linguaggio che esplora nuovi orizzonti invocando nuovi atti di battesimo, donazioni di nomi alle cose, nuovi giri di frase e figure di pensiero. O addirittura una inconsueta parziale deissi che corrisponda al mutamento sottocutaneo della percezione dell’altro e del mondo: “se è vero che hai un corpo/ mostramelo/ non tutto/ i dettagli non mi interessano, solo/ quegli spazi fra le dita delle mani/ l’incavo della gola, la piega/ accanto all’occhio, il profilo/ troppo grande del naso/ la ciocca che non sta mai a posto/ quel neo che ogni tanto fai controllare/ la tua espressione quando mi pensi” (106)

La figura dell’Avatar ci guida infine a una interrogazione del Social Network con la sua ubiqua prepotente bidimensionalità: ci si chiede se paradossalmente essa “si avvicini più all’eterno dell’umana.” (111) Il discorso ora attraversa lo spazio piatto del web e il tempo dilatato delle idee iperuraniche, sfuggendo alla storia o meglio riassorbendola per linee interne e dilatazioni locali, per messe a fuoco improvvise e zoom schizofrenici sulle Google Maps dell’esistenza. Così questioni somme e massimi sistemi possono essere racchiusi nello spazio minimo di un tweet: “Quale vita vera? Stiamo così bene/ qui/ a parlare di niente/ filosofia, amore, poesia, massimi sistemi.” (117)

In questo spazio-tempo elastico, einsteniano, come si diceva, trova posto anche la surreale dimensione del sogno, arredata di oro e stelle, isole volanti e tartarughe bambine. (130 sgg.)

Per finire nientemeno che con una riconfigurazione del nesso fra apparenza e realtà, una rivisitazione irriverente del mito fondatore della metafisica occidentale, quello platonico della Caverna, ove si affrontano con immagini felici e spudorata leggerezza, temi cruciali come il nesso fra storia umana e codice genetico, nell’orizzonte appena accennato del disastro ecologico che incombe. Dove infine con sprezzatura pop degna del miglior Andy Warhol appare Socrate davanti alle vetrine di questo nuovo teatro del mondo “per danzare/ ogni cara ipotesi di salva distruzione/ della razza.” (153) Dove, identica ma adattata alle nuove regole del gioco, la domanda inevasa rimane: chi parla? chi tira le fila? chi tesse la tela di questa “felice dissipazione”? (153)

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Immagine di testata: In altalena, opera di Leonardo Lucchi.

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