“La Liberata” racconto di Virginia Farina

La Liberata

(a Bologna, città della mia libertà)

racconto di Virginia Farina

              

Tempo fa, tanto ma non troppo, anche nella tua città c’è stata la guerra. Tu non c’eri ancora, o forse già c’eri, ed eri un bambino dagli occhi neri e dalla testa arruffata di capelli scuri. Avevi sei anni e collezionavi sassi, tappi, piccole schegge e vetri preziosi che recuperavi con cura dai luoghi che la guerra poco a poco distruggeva.
La tua mamma era bella e radiosa, anche quando si corrucciava e si metteva lunghe ombre sul viso pensando al tuo papà lontano. Di lui ti diceva ch’era andato via proprio per far finire quella guerra, e per restituire ai bambini un futuro di libertà e di giustizia. Allora quelle parole le masticava come un boccone difficile e te le restituiva per nutrirti la fiducia e la forza di non avere più spavento. Ma tu spavento non ne avevi, forse un poco di paura, ma appena appena, quando l’arrivo degli aerei ti faceva tremare le strade sotto i piedi e faceva buio al cielo, per la polvere tirata su da quegli sciami di uccelli devastanti. Allora sapevi tutte le strade dei rifugi, e scivolavi svelto senza inciampare sulle gambe della mamma che t’incalzava appresso. E sempre nella tasca portavi una manciata di tesori da mostrare ai bambini che lì avresti incontrato, e da scambiare con altre piccole cose preziose nella penombra animata del rifugio.
Uscire da li ogni volta era come sbarcare a un luogo nuovo, e mentre i grandi facevano la conta dei danni, allungando il rosario dei perduti, tu scappavi coi bambini per fare incetta di ciò che le case gelose potevano aver restituito alle strade: quadri, legni, cocci, vetri colorati, a volte libri con le figure intere, cappelli, scarpe spaiate, cappotti e mobilia. E voi facevate festa sotto le facce scure delle madri che in fretta vi strappavano a quel banchetto e vi lasciavano portar via soltanto il poco che riuscivate a tenere stretto e ben nascosto nel pugno di una mano.
Un po’ avevi paura anche quando la tua mamma ti lasciava dai vicini e ti diceva di avere dei lavori da sbrigare, e tu lo sentivi che andava da tuo padre, e s’immischiava della guerra anche se non era un uomo. A volte anche in casa incontrava della gente, e tu spiavi oltre la porta senza poter sentire nulla di quelle parole svelte.

Quando finì la guerra era d’aprile e un sole pazzo di gioia fioriva ogni cosa avvizzita dal lungo inverno. Da giorni si sentiva quel sentimento della fine, ma solo una mattina la città intera scese per le strade a celebrare la sua pace. File di soldati sfilavano sui carri, mentre i padri finalmente scendevano dai monti e riabbracciavano ogni cosa: donne, bambini, vecchi, alberi e case.
La città era sporca e polverosa, scossa e piena di baccano, ma c’era, e dove s’era tolto si poteva rimettere da capo, dove s’era distrutto ancora si poteva costruire a nuovo. C’era il cielo finalmente sgombro e l’aria piena di voci copriva gli strilli affaccendati delle rondini che tornavano sui tetti.
Dopo, ma solo dopo sarebbero iniziati i pianti, e con più cura si sarebbero viste le ferite. Ma allora, ancora c’era spazio soltanto per la gioia.
Tuo padre arrivò tra gli ultimi, non ti abbracciò all’inizio ma ti strinse le spalle e ti guardò negli occhi come si guarda un uomo. Tu ti lasciavi guardare intimorito, mentre annusavi la sua barba ancora folta di bosco e gli sentivi nella giacca il freddo pungente che gli aveva dato la montagna. Poi ti strinse e sentivi che piangeva, e ti bagnava le spalle e l’inizio dei capelli. Tu stavi zitto, e non sapevi cosa dire, ma ti lasciavi fare perché quell’abbraccio comunque ti piaceva. Poi lo vedesti alzarsi, e ricomposto dare un bacio alla tua mamma. Sorridendo ti prese per mano e ti portò con sé nel grande corteo che scivolava come fiume verso la grande piazza mare, dove, eri certo, ci sarebbe stata ad aspettarvi, tutti, Signora Libertà.

 

 

Aisha, Lara Steffe, 2012

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