I versi dell’infinito, editoriale di Giuseppe Martella.
L’infinito, insieme al nulla, è la nozione più astratta e paradossale che si possa immaginare. L’unico modo per concepirlo è per negazione o per privazione d’essere. Ciò avviene sia nel lessico delle lingue moderne che nel greco antico dove il termine era apéiron (con alfa privativo), cioè proprio ciò che non ha limite o confine (péras). Fu davvero una intuizione ardita quella di Anassimandro di Mileto che, nel VI sec. a.C., assunse l’infinito come principio (arché) di tutte le cose. Fu un vero e proprio salto concettuale rispetto ai suoi concittadini e quasi contemporanei filosofi della scuola di Mileto, Talete che aveva scelto l’acqua e Anassimene che aveva scelto l’aria. Anassimandro si staccò così nettamente dall’ilozoismo dei suoi colleghi e per certi versi anticipò la svolta che si sarebbe verificata più di un secolo dopo nel pensiero greco, con i sofisti e con Socrate, dall’indagine sulla natura a quella sulla psiche e sul logos (pensiero e linguaggio). Ma i greci non amavano affatto l’infinito e perfino nel loro pantheon olimpico mostravano di preferire una ripartizione delle sfere di influenza, un variegato e dialettico politeismo. Così anche nell’ambito della nascente filosofia abbandonarono presto il principio di Anassimandro per volgersi al culto del numero, alle formule pitagoriche che promettevano miracoli di eleganza ed efficienza di calcolo. All’infinito di Anassimandro, Pitagora oppose infatti la finitezza delle figure geometriche regolari e dei numeri che esprimevano i loro rapporti strutturali. La potenza della misura e del calcolo apparve tale che lo stesso Platone nella magistrale cosmologia del Timeo fa sì che il suo Demiurgo costruisca il cosmo con la materia primordiale, usando come mattoni ideali i cinque solidi regolari appena scoperti.
Il pensiero pitagorico e l’intera matematica greca hanno una base eminentemente geometrica e il loro principio si può indicare nella scomposizione e commisurazione reciproca delle parti di una figura tra di loro, allo scopo di ricavarne delle proprietà generali che magari non risultano immediatamente evidenti. Si tratta dunque dell’individuazione di quei rapporti salienti tra le parti che possono mettere in luce proprietà strutturali dell’intero. Per esempio, quelli fra i lati e la diagonale di un quadrato, fra il raggio e la circonferenza di un cerchio, o il calcolo della sezione aurea di un segmento. Ma questo sano principio di equivalenza nascondeva delle insidie. E già il calcolo di questi rapporti semplici pose in evidenza il problema della incommensurabilità fra alcune grandezze e dell’irrazionalità dei valori numerici che le esprimono. In particolare, trovare l’irrazionale nel calcolo del termine medio fra un intero segmento e la sua parte rimanente, dovette costituire un colpo mortale al principio di esattezza che animava il pensiero pitagorico come tutta la matematica a seguire. Il méson, o sezione aurea di un segmento, era infatti per i greci la proporzione divina, il principio di ogni armonia e costituiva a prima vista l’esorcismo più efficace dell’infinito, il limite intrinseco alla figura più semplice, il segmento di una retta. Era dunque la quintessenza di ogni proporzione e misura. Non per nulla nel corso degli anni divenne il principio informatore dell’arte e dell’etica greca: “il giusto mezzo”. E tuttavia esso contiene in sé il demone della cattiva infinità. Questa proporzione può infatti essere scritta e risolta come un’equazione di secondo grado a una incognita, la cui soluzione è il numero decimale non periodico, cioè irrazionale φ (1,61…). La scoperta di φ, insieme a quella di π (3,14…), costituì il grande scandalo della matematica greca ma anche il presupposto dei suoi futuri meravigliosi sviluppi. Lo scandalo consistette nell’aver trovato l’infinito all’interno del limite stesso, l’indeterminato nell’atto della definizione delle proprietà di una figura, l’incommensurabile nell’esercizio della misura. In qualsiasi segmento finito si cela infatti un infinito potenziale che certe operazioni possono mettere in rilievo. Anzi, e più in generale, è proprio la segmentazione di una qualsiasi figura a metterne in luce il principio di indeterminazione che ne costituisce e regge la struttura. Da allora la matematica ha fatto enormi progressi e l’infinito, come in un incendio, si è propagato in tutte le sue branche più importanti, ma la scintilla iniziale fu proprio quell’infinitesimo che non colma la misura.
Qualcosa di analogo a quanto accadde nella geometria e nell’aritmetica greca, si ritrova d’altronde anche nella s-composizione metrico-ritmica dei testi poetici. I versi, che contraddistinguono il testo poetico nella tradizione scritta (custodendo i metri e le formule della tradizione orale), rappresentano infatti degli artifici di segmentazione e creano unità di testo che vanno a sovrapporsi e a commisurarsi con quelle prodotte dai nessi morfosintattici del discorso in prosa. Ora è proprio questa commisurazione reciproca a produrre la ricchezza, la polisemia e la complessità infinita di significati del testo poetico. La scansione metrico-ritmica dell’enunciato, custodita nell’artificio grafico del verso, genera infatti nella linearità della scrittura una sorta di labirinto di equivalenze che produce l’irriducibile complessità del testo e la sua costitutiva intraducibilità. L’indeterminazione del discorso poetico e quella del calcolo algebrico hanno insomma una radice comune: la volontà umana di esprimere l’infinito della vita nella bella esattezza di una specifica forma d’arte. Dunque non vi è alcuna incompatibilità di fondo fra calcolo matematico e discorso poetico. Entrambi sono dei modi per venire a capo dei paradossi dell’infinito e per scoprirne sempre di nuovi.
Ciò può risultare chiaro però solo se si assume che la matematica non è tanto la scienza dell’esattezza quanto quella dell’approssimazione. Se si comprende cioè che la virtù del calcolo, come quella del discorso poetico, non sta tanto nel trovare soluzioni esatte quanto piuttosto soluzioni elegantemente approssimate a un limite, per i problemi che man mano si presentano nel corso dell’esperienza e della riflessione. Solo le operazioni al limite infatti, in qualsiasi tipo di linguaggio, consentono di venire a capo, almeno provvisoriamente, dei paradossi dell’infinito.
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Il termine italiano “verso”, d’altronde, contiene già in se stesso un’ambivalenza significativa: come preposizione ha valenza vettoriale, indica la direzione verso un limite non ancora raggiunto, la sua vocazione all’infinito. Come sostantivo, significa il richiamo o il canto di animali e, riguardo all’uomo, la particolare inflessione della voce o cadenza della parlata: possiede insomma tutte insieme delle connotazioni onomatopeiche, indicali, iconiche, mimetiche, e comunque preverbali, che annunciano l’apertura dello spazio regolato del logos all’altro da sé, all’incommensurabile apéiron, all’alògon. Nella parola “verso” inoltre c’è un’ambiguità di fondo tra il significato di “direzione” e quello di “svolta” (o inversione) del movimento. Così come nella parola “tropo” (tropé), “trasporto” e “svolta”: entrambi i termini tradiscono la collusione di fondo tra il continuo e il discreto, tra il finito e l’infinito, nella realtà come nel discorso. Di questa ambiguità si nutre la poesia, in quanto pratica eversiva e rigeneratrice del linguaggio. Ivi il verso, che ne è il principio primo, costituisce proprio la base fonico-ritmica di ogni figura del discorso, l’impulso psicosomatico al rinnovamento del linguaggio nel testo poetico. Se la parola e la frase sono infatti le unità fondamentali del discorso ordinario, nel testo poetico ogni frase e ogni parola tendono a entrare in equivalenza con unità di livello inferiore e superiore, con le sillabe e i fonemi da un lato, così come con le strofe, i canti e le altre unità di segmentazione più complesse del testo. Ciò vale a dire che nel testo poetico ogni parola, per esempio, tende a misurarsi (non solo linearmente ma trasversalmente) da un lato con le sue componenti elementari e dall’altro con i campi di interazione più ampi in cui opera. Tende cioè a scomporsi e a ricollocarsi nelle diverse zone e nei diversi livelli del testo. Ciò dipende anzitutto dal principio metrico-ritmico che è custodito nel verso come la musica in uno spartito. In altri termini, il metro-ritmo fa slittare continuamente le frontiere semantiche del discorso ordinario, producendo in poesia delle funzioni al limite simili a quelle degli algoritmi propri del calcolo infinitesimale, e così ci consente di riprodurre e comprendere le più svariate sfumature dell’esperienza, di addomesticare il continuo temporale e l’infinito attuale dei nostri vissuti (la corrente della Lebenswelt) attraverso la struttura discreta dei codici in uso. In altri termini, il principio di equivalenza che (secondo Jakobson) caratterizza il testo poetico, traduce le operazioni logico-sintattiche del linguaggio in funzioni al limite e ne ricava valori semantici (o significati) che si approssimano indefinitamente all’esperienza intesa. Diciamo allora che i valori di tali funzioni non sono mai quantificati in modo esatto (come accade invece nel calcolo logico) ma soltanto per approssimazione, come accade nelle parti più complesse e salienti della matematica moderna. Come avvenne in quella antica, con il calcolo della sezione aurea di un segmento che ci dà come risultato la costante di Fidia, φ, il più irrazionale dei numeri irrazionali (quello in cui le cifre dopo la virgola, i suoi infinitesimi, si avvicinano più lentamente al loro limite immanente: creando uno spazio fra i più densi nel labirinto del continuo). Un mostruoso infinito attuale è nato dalla più semplice e diretta delle proporzioni, dal limite in sé e per se stesso preso, da ciò che dovrebbe essere tutto il suo contrario e si rivela invece come il suo complemento ontologico. Gli opposti si toccano sempre. Sia in matematica come in poesia, la più elegante equivalenza fra due rapporti, quella che meglio definisce l’armonia intrinseca della forma, apre all’infinità delle sue derivazioni, alla riproduzione dell’infinito nel dettaglio, del continuo nel discreto. Come è noto il diavolo si nasconde nei dettagli. Dopo tutto, c’è una comune radice fra il ritmo poetico e l’algoritmo matematico, e un fine comune fra il calcolo algebrico e il verso poetico: questo fine consiste nell’arricchimento e nella conservazione dell’in-formazione non genetica della specie umana (Lotman), per il tempo che le è dato di durare.

Caro, esimio professore, la tua Lectio magistralis mi offre l’occasione di riassaporare il gusto e le raffinatezze di una una preziosa, leale e duratura amicizia. Oggi sei salito in cattedra per dare voce ed armonia ad uno spartito, già scritto, ma che tu hai reinterpretato con genialità e rigore. paradossalmente il Nulla come privazione dell’essere è quella vertigine da cui è scaturito l’essere nelle moltepilici e varie forme del creato. La geometria ce ne ha dato ragione e misura, la musica e la poesia ne colgono il battito interno, il ritmo dell’anima, la sua armonia. L’angoscia del nostro tempo è la malattia diffusa di chi rimane fermo al concetto del nulla privato dalla relazione col suo opposto: l’essere, appunto. Tu ci indichi il percorso per guarire dal nihilismo del pensiero. Dunque Dio non è morto, è morta la Cultura.