L’ironia è una cosa seria, rubrica di Natalia Bondarenko: Rocco Burtone.
Benvenuti nella rubrica che parla di cose serie: parla d’ironia. Perciò, benvenuti nell’ironia. Entrate dentro senza diffidenza e senza pregiudizi. Sorseggiate la leggerezza utile a nascondere (magari, per pudore) la profondità della vita, usate la vostra immaginazione e cercate di non prendervi troppo sul serio perché in questo spazio c’è posto per qualsiasi espressione ironica e anche quella, ancor più rara, autoironica: esagerata, colta, improvvisa, spumeggiante o docile e lirica.
Benvenuti nello spazio dove non troverete mai le poesie di Sanguineti, Szymborska o Bukowski. «Vabbè», direte voi, «non sarebbe mica male?» Ma di loro è già stato detto/scritto tutto e anche di più. Infatti, non c’è niente di nuovo, nessuna novità sconvolgente, nessun miracolo letterario, niente di codificato come 2.0, perché la poesia ironica esiste da sempre. Ma c’è una percentuale minima di poeti che la scrivono. Perciò, benvenuti nello spazio di pochi, scelti… e viventi!
(Come vedete, la battuta vale non solo per i pittori…) N.B.
L’ospite di questo mese è Rocco Burtone.
Più che un pittore, o uno scrittore, o un musicista, Rocco Burtone è un personaggio, un artista che fa e vuole fare troppe cose, e facendone troppe, così dice scherzando: «Non ne faccio una buona». È proprio lei, l’autoironia autentica, che contraddistingue il carattere di Burtone e la sua creatività 24 ore su 24. Burtone non si prende mai sul serio. Ha qualcosa di puro e di adolescenziale nel suo modo di porsi. Probabilmente gli studi filosofici e di pedagogia al Magistero di Trieste hanno lasciato una certa impronta anche se, come dice lui, manca il conseguimento della laurea «dovuto alla altissima percentuale di femmine in facoltà».
Quando è sul palco, si nota subito la sua capacità di divertire e divertirsi: anche in momenti seri riesce a colorare i testi teatrali con una giocosità tipica dell’attore-bambino che, in quanto tale, sprona il pubblico ad ascoltare senza tormenti o scrupolosità eccessiva, come a dire: «apriamoci alle catastrofi del mondo con analisi, sorrisi e intelligenza, al fine di superarle».
La storia della sua vita artistica può essere così riassunta: insegnante (c’è stato il periodo quando faceva pratica presso alcune scuole elementari a Como, dove, tra i primi in Italia, s’impostavano con i bambini laboratori teatrali e musicali di improvvisazione. Conobbe Gianni Rodari del quale musicò la poesia “Il pane”. Partecipò a diversi programmi televisivi per bambini). Musicista-cantautore (ha suonato in Italia e all’estero, dall’Europa agli Stati Uniti): fino alla fine dei ‘70 ha suonato dappertutto (dalla Sardegna alla Sicilia, nelle fabbriche, nei teatri, alle Feste dell’Unità, per i circoli anarchici, per gli emigranti in Olanda e in Germania). Nel 79/80 va negli Stati Uniti per ragioni economiche e lo troviamo dapprima su una nave da crociera a sollazzare musicalmente i turisti americani nel tragitto New York-Bermude. Poi, stanco di quella vita, si trasferisce a Los Angeles, dove canta le sue canzoni nei locali e con sorpresa si accorge di essere apprezzato più che in patria (forse, lui dice, perché il pubblico non capiva i testi?). Oggi canta col suo gruppo “Na’Babas”, cura molteplici eventi musical-letterari, presenta inoltre uno spettacolo di teatro-canzone intitolato “Storie di Cantautori”, in cui narra e interpreta la canzone d’autore soprattutto italiana e francese (Tenco, De Andrè, Brassens, Dylan ecc.). Poeta, Scrittore, Pittore (sì, fa anche questo), Attore, Regista, Rappresentante di prodotti per parrucchieri (questo… in gioventù, appartiene al passato).
«Per anni Rocco Burtone ha vissuto (anche per sua volontà) dietro un’aura da cantautore “contro” tutti e tutto, senza peli sulla lingua…. Rocco non è soltanto un intrattenitore coi fiocchi, ma anche un autore che pur senza rinnegare la propria “linea” riesce ad offrire un’immagine convincente e poco ortodossa del più classico dei cantautori» ha scritto il giornalista Andrea Ioime. Istrionico, ironico, beffardo, pungente, sarcastico ma anche elegante, affabile, tenero, garbato e soprattutto un cantautore che sa (nel significato di conoscere) di musica. Difficile stabilire se siano più incisivi i suoi testi poetici o le musiche che si allontanano decisamente dagli schemi cantautorati, attraversando mondi fatti di sinfonie o ritmi balcanici o ancora di jazz… In poche parole: un libertario, un anarchico della musica e della parola. «Istrionico e antipatico come pochi, generoso e ineffabile, voce tonante e tenerezza di bambino, cultura “on the road” e senso armonico personalissimo, penna poeticamente caustica…» di lui è stato scritto molto e se, a questo punto, devo parlare di suoi libri, ho la netta sensazione di aver già detto tutto. Perché i libri di Rocco sono come lui. Scrive sempre. Scrive anche quando non ha voglia di scrivere. Anche i titoli non sono andati lontano dal suo essere e partono dal suo cognome, infatti, si chiamano “Burtonari”, sembrano un marchio di fabbrica. Ne ha scritti quattro. Ogni “Burtonario” (Edizioni del Sale), ha un suo tema: della Musica, dei Bambini o dei Morti. Di quest’ultimo andremo ora a parlare.
Il titolo completo è “BURTONARIO dei Morti e delle Idee. Pensieri, considerazioni e aforismi. Sciocchezze inutili per la salvezza dei viventi”. E con questo titolo Rocco ha detto tutto. Il libro nasce dopo un evento unico in Italia, cioè, il “Festival Mondiale della Canzone Funebre”, a Rivignano, che si propone il giorno della festa dei morti, e cioè il 2 novembre. Ideato da lui insieme al suo amico Enrico Tognazzi, esce in contemporanea con la seconda edizione del festival. Di questo festival si parlò molto, sulla stampa e in TV, addirittura sono apparse due righe su New York Times.
E dopo questo non saprei più cosa scrivere, perché la serietà di questo “uomo-prodigio” fa veramente ridere, fa pensare e ripensare, fa dubitare e meravigliarsi… e bastano anche le piccole battute che probabilmente sono state usate nei suoi numerosi spettacoli. Quasi viene da dire che quello che si legge è così palese, ma probabilmente scritto da Burtone ha tutt’un altro gusto e sapore:
Morì perché aveva vissuto.
Che c’è peggio di un morto? Due morti.
Ma “morse” è il passato remoto di morire?
Una singola morte fa meno felice il giornalista di una bella strage.
Al mio funerale poca gente: bastardi.
Sono morto pensando al passato. Non ho avuto il tempo di godere del futuro.
Camminava sempre a testa alta. Non vide il gradino, inciampò e morì.
In Italia siamo talmente mammoni che anche dopo morti vogliamo stare vicino a papà e mamma, nella stessa tomba. I ricchi ci riescono.
Degli amici morti, stranamente restano pochi ricordi, o meglio, ricorrono sempre gli stessi e sono bellissimi.
Sono morto cattolico: adesso che so… come vorrei tornare indietro.
Che bello, sono morto sul palco mentre suonavo. Comunque l’accordo ea sbagliato.
Poi, il libro contiene le poesie dei morti e “popsie dei morti” delle quali vi ho accennato sopra. Cosa sono le “popsie”? Secondo me sono poesie che non sono cresciute, che sono state ‘partorite’ e lasciate al loro destino. Rocco, invece, ha una sua visione ben precisa: «Popsia è la fuga dalla massa, il rifiuto dell’ignoranza e il rifugio nell’ignoranza. Non essere poeti oggi significa non andare a ballare con massaie incattivite e calzolai con i buchi nelle scarpe. La popsia è l’unica via di fuga». Infatti, leggendo le sue popsie, ti tuffi nelle situazioni di una quotidianità sconcertante, ma in una logica mentalmente pulita e chiara:
DONNA SLAVA
In quel bar io e te,
amico mio,
si sorseggiava un bollente caffè
e si diceva
di facezie e ricreazioni.
Entrò una donna dagli occhi chiari
anzi chiarissimi
e gli abiti consunti
erano il film del suo passato,
ma talmente era bella
che a tutti noi parve raffinata
e di fasti passionali lontani.
Anche lo sguardo se ne stava lontano
e ritenni di cogliere
un dolore slavo
di passioni e sofferenze,
di guerre e ristrettezze,
di palazzi smembrati
e fratelli perduti,
troppo tormentoso
per quegli occhi così belli.
In quel bar tutti trattenemmo il respiro
fulmineamente innamorati
e tu, amico mio
dicesti: “visto che tette?”
*
IL TEMPO DEI MORTI
Il tempo dei morti
sarebbe più lieve
se solo non gli rompessimo i coglioni
con tutte le nostre preghiere.
Ci sono temi difficilmente trattabili in poesia come i temi sociali, tragici, politici, globali. Secondo me, grazie alla sua grande umanità, poco sbandierata, Rocco riesce in modo completamente inconscio, ad affrontare questi temi senza cadere nella retorica e nella banalità. Con un’ironia chiaramente cinica e amara, piena di ragionamenti palesi e umani, dedica questa poesia ai bambini uccisi:
UNABOMBER
Al congresso mondiale
dei Paesi più potenti del mondo
l’esponente italiano espose un problema
che metteva in angoscia tutta la nazione
e parlò di Unabomber.
Uno dopo l’altro i capi di Stato
deprecarono le malefatte del delinquente
e soprattutto piansero quando menzionarono
i bambini feriti dal bombarolo.
Ci fu chi chiese di ripristinare la pena di morte
e qualcun altro di tagliargli l’uccello.
L’esponente italiano allora mostrò le foto
e ancora si propose di impiccarlo
dopo averlo torturato.
“Così imparano a vivere questi mostri” disse.
Nel frattempo i bambini uccisi dagli stessi governanti
preparavano una festa di compleanno per Unabomber.
Nel libro, inoltre, si possono trovare anche numerosi racconti, piccoli e stuzzicanti. Anzi, non li chiamerei neanche “racconti”, ma neanche “raccontini”… direi che sono schegge impazzite ottime per una serie di “cortometraggi” narrativi, ma quella… è un’altra storia.