L’ironia è una cosa seria, rubrica di Natalia Bondarenko: Massimo Parolini.
Benvenuti nella rubrica che parla di cose serie: parla d’ironia. Perciò, benvenuti nell’ironia. Entrate dentro senza diffidenza e senza pregiudizi. Sorseggiate la leggerezza utile a nascondere (magari, per pudore) la profondità della vita, usate la vostra immaginazione e cercate di non prendervi troppo sul serio perché in questo spazio c’è posto per qualsiasi espressione ironica e anche quella, ancor più rara, autoironica: esagerata, colta, improvvisa, spumeggiante o docile e lirica.
Benvenuti nello spazio dove non troverete mai le poesie di Sanguineti, Szymborska o Bukowski. «Vabbè», direte voi, «non sarebbe mica male?» Ma di loro è già stato detto/scritto tutto e anche di più. Infatti, non c’è niente di nuovo, nessuna novità sconvolgente, nessun miracolo letterario, niente di codificato come 2.0, perché la poesia ironica esiste da sempre. Ma c’è una percentuale minima di poeti che la scrivono. Perciò, benvenuti nello spazio di pochi, scelti… e viventi!
(Come vedete, la battuta vale non solo per i pittori…) N.B.
L’ospite di questo mese è Massimo Parolini.
«Nel moderno, ovvero nella tradizione novecentesca, di solito i classici si utilizzano o attraverso gesti irrituali e blasfemi, nell’accanimento di cesure e sottrazioni, per intenderci i baffi alla Gioconda ideati dall’estro dadaista, oppure tramite l’accumulo meta discorsivo coll’accumulo ipercorretto dei materiali originari. È questo il metodo seguito da Massimo Parolini, in passato mio brillante studente cafoscarino, con predisposizione spiccata per la scrittura poetica, in prima fila nei corsi di storia del teatro che tenevo in quella sede. Adesso firma questa bizzarria, centrata su d’Annunzio e la Duse, che dialogano tra loro quasi come automi in trance».
Così inizia il libro #(non) piove (un titolo stuzzicante, non vi pare?) di Massimo Parolini, con le parole di Paolo Puppa, ordinario di storia del teatro e dello spettacolo all’Università Ca’ Foscari che ha introdotto questo libro certamente dotato di una verve teatrale tutta sua. Teatrale, quindi, è una parola centrale in questo libro; fa parte della sua struttura, della sua idea creativa ed esecutiva perché, da come si evince, l’autore presenta una coppia che interloquisce: «Passeggiata (di una giornata) semiseria (virtuale) di d’Annunzio e della Duse dal Vittoriale e gli asolani ai giorni nostri – mestamente – quotidiani». Questa frase la trovate esattamente sotto il titolo e sicuramente è una parte importante per dare un input prezioso all’inizio di lettura che già dalle prime righe risulta ben definita: si tratta di un probabile spettacolo – non ci sono dubbi. Lo si percepisce subito. Ma la questione che mi interessa di più è il lato ironico che sta al posto suo come potrebbe stare un galleggiante di una canna da pesca sull’acqua di un fiume. L’operazione è trasportare tutti gli ingombri quotidiani in un’epoca diversa che sicuramente fa pensare ad una specie di parodia. Anzi, direi, una parodia postmoderna perché lo stile classico della scrittura poetica e l’uso della contemporaneità fa nascere nel lettore un sorriso spontaneo:
DUSE: (con una bambola in mano):
– Gabriele…
D’ANNUNZIO:
– Eleonora…
Taci. Su le soglie
del bosco non odo
parole che dice umane
ma odo uno squillo, forse di cellulare.
Ascolta. È il mio o il tuo? Amica mia, non senti, la suoneria stravagante
scaricata in formato Mp3?
È: “coccole aulenti” o “ginestre fulgenti”? È: “il pianto delle cicale” o “la rana nell’ombra”?
O souvenance…
– passa la Marchesa Luisa Casati Stampa vestita da turca, viso impiastrato alla Pierrot, il trucco che le cola, con un arbusto di ferro battuto carico di melagrane e al guinzaglio un levriero incipriato di cipria color malva: D’Annunzio rimane incantato…
Di cosa si tratta? Di un divertissement dannunziano? Massimo Parolini lo spiega molto bene: «Sì, se inteso pascalianamente come “distrazione” necessaria all’uomo per guarire dalla paura della morte, dalla propria miseria e ignoranza, dal tedio e dall’umor nero, dalla solitudine che deprime. I nuovi mezzi di comunicazione di massa amplificano tale “distrazione” e il mio D’Annunzio, redivivo con l’amata Duse per ventiquattrore, lo sperimenta con la compulsione allo smart di un uomo dei nostri giorni».
Parlando invece della sua poesia in generale dice che da giovane scarabocchiava qualche poesia imitando Leopardi (perché lo prediligeva). «Nel periodo universitario ho sentito la forza del linguaggio poetico, della scrittura che mi imponeva un’azione di scavo profondo e di complesso montaggio, con stretta interconnessione con le mie esperienze esistenziali, anche drammatiche. A fianco della poesia più lirica e intimista si è però affiancata anche la scrittura teatrale, di stile comico e ironico. Ho collaborato quindi al Centro Universitario teatrale di Venezia con delle sceneggiature che riprendevano talora elementi della commedia dell’arte e l’uso delle maschere. In seguito, vivendo in diretta mediatica l’evento tragico della guerra nella ex-Jugoslavia (studiavo a Venezia) ho sentito l’urgenza di raccontarlo in poesia, con un linguaggio meno elaborato, più comunicativo, una poesia di immediata fruizione. Per me è stata la scoperta della dimensione civile del poetare, che ancora oggi coltivo, a fianco delle altre. Sono state date varie definizioni della poesia: penso, con umiltà, che siano spesso parziali e prospettiche: è del poeta il fin la meraviglia, come versificava nel ‘600 il cavalier Marino (cogliendo, in fondo, una matrice comune, con la nascita della filosofia, come intesa da Aristotele) o deve la poesia insegnare dilettando, commuovere, coltivare e bene indirizzare gli umani affetti, come indicava Alfieri? Per Carducci il poeta è l’artiere che foggia spada e scudi e vomeri, per D’annunzio un vate, per Baudelaire un albatro disadattato in terra, principe nel celeste atto creativo. Rinnovare la lingua, dando un nome, novello Adamo, alle cose (come ricordavano Rimbaud e Pascoli), indagare la propria anima, guardare il mondo come gli altri uomini guardano una donna (Wallace Stevens), scoprire nelle cose le somiglianze e le relazioni più ingegnose, avere un particolare sentimento e una profonda visione (il fanciullino pascoliano) che sappia non solo consolare, stupire, ma anche alzare veli di Iside, dare mutamento di prospettiva nel vedere e sentire cose che gli altri non vedono e sentono, regolando il mondo reale intuendo oscuramente la magia di una lingua immaginosa, giocando con la fantasia con forze e mondi invisibili ai più, arrivare all’ignoto mediante la sregolatezza di tutti i sensi (riferendoci al Novalis de “I discepoli di Salis”, e alla rimbaudiana “Lettera del veggente”). Ognuna di queste visioni ha diritto ai suoi minuti di celebrità (per scomodare Andy Warhol). Senza la rigidità, però, che spesso ognuna pretende per sé: la poesia può anche divertire, essere ludica, oppure essere strumento critico, satirico, politico, di coscienza sociale, in un tempo in cui le ingiustizie sociali si acuiscono e si rendono sempre più manifeste. La poesia può dare insicurezze (proprio perché, montalianamente, rivela l’ombra stampata dalla canicola sul muro scalcinato) all’uomo sicuro di sé, parlare alle ombre e all’ospite inquietante del nichilismo, ma anche rivolgersi al sacro, a Dio, in una tensione spirituale mai sopita nell’umanità, nel tempo della Tecnica, in cui i consumi, la scienza e lo sviluppo tecnologico non sono riusciti a convincere fino in fondo i popoli, che nella loro anima sentono oggi, come in epoca preistorica, l’urgenza di conoscere sé stessi, stare bene con gli altri, stare a casa propria nel mondo, aspirare a qualcosa che ecceda la materia. In questo spazio, finché ci sarà l’uomo, la poesia sarà necessaria e dovrà lottare per uscire dalla marginalità e dalle pieghe d’ombra in cui è oggi relegata».
E tornando all’ironia, colpevole dell’esistenza di questa rubrica, faccio anche a Massimo la domanda di routine, cioè, qual è il suo rapporto con l’ironia in generale e in particolare nei suoi versi? «L’ironia mi permette di criticare l’esistente, in modo spesso leggero e divertente, pungendo con proboscide di zanzara i miei obiettivi. Evitando gli eccessi del sarcasmo e del cinismo. Negli ultimi anni la uso maggiormente anche nei rapporti sociali, smussando alcune impulsività del carattere. Penso che l’ironia sia un esercizio utile nelle relazioni umane essendo, come il riso, frutto dell’evoluzione culturale umana per mitigare l’aggressività della nostra specie. Non c’è riso e non c’è ironia negli altri animali. Quando faccio ironia e trovo dall’altra parte persone che non la capiscono o si sentono sbeffeggiate, cosa che qualche volta mi è successa, comprendo l’insicurezza dell’interlocutore e il suo disagio relazionale: ciò mi genera una sorta d’onda d’urto, che mi scuote e mi produce sofferenza. Sicuramente ci vuole esercizio per comprendere e godere l’ironia degli altri, flessibilità, autostima, assenza di disturbi paranoici. La persona che apprezza l’ironia è quella che non teme il giudizio, è sicura di sé e, come terapia, attua a sua volta l’ironia e l’autoironia (come nel witz yiddish)».
Non piove sul pianto della scavatrice
che strappa le tamerici salmastre ed arse
sulle ceneri di Gramsci e su quelle di tutte
le vite sconosciute comunque degne
d’esser vissute;
non piove sulla gioventù anima bella
che per i saggi benpensanti
-con un lavoro e consulenze-
dovrebbe far politica e partecipazione
senza l’obolo –che impurità…- di un gettone;
non piove sui cattivi maestri e sui politici mestieranti
che nessuno può spostare
perché fin lì sono arrivati
ed han diritto di restare…
se poi son in Parlamento
a parte i vizi, hanno pure i vitalizi…
non piove sulla bella giovinezza
che si fugge tuttavia
sul doman senza certezza
mentre l’oggi è già
di sua signoria…
non piove sull’ecologia che sembra piangere
di dispiacere per l’umana miopia…
non piove sugli occhi suoi ridenti e fuggitivi
sul limitar di gioventù salivi
-tormentone sui banchi
per milioni di studenti
da oggi a De Sanctis-;
non piove sulle sudate carte
sui veroni del paterno ostello
sul vago avvenir che in mente aveva
la tenerella che vinta da chiuso morbo
continua a perire nei banchi di scuola
all’apparir del vero…
non piove sulla sorella di Cesena [1]
sposa da oltre centocinque anni
che parla, parla e guarda le cose intorno…
non piove sull’immenso illuminato
su cui han speso fiumi di inchiostro
-al tempo che pioveva, e il livello
dei corsi d’acqua
non era al lumicino-
non piove sul m’illumino di meno
nuovo santo in calendario
pur con l’alto Patrocinio
dei gemelli sopra il colle…
non piove sul fruscìo che fan le foglie
nella man di chi le coglie
e se a cadere sono soldati
il morus alba è mors e basta;
non piove sulla morte che non si
sconta più vivendo
ma che si vive scontando
perché comunque i saldi
ci son tutto l’anno
e perché al giorno d’oggi anche i rifiuti
hanno il loro giorno di gloria
nel grande reality della storia…
***
non piove sull’anamnesi personale
non più platonica iperuranica
ma cartella clinica ospedaliera…
non piove sulle labbra che non chiudono più un divieto
perché c’è troppo botulinum…
non piove sulle signore
che golose per le vie
con le pupille ghiotte vanno
a mangiar paste nelle confetterie[2]…
non cade l’acquata a rade goccie, poscia
precipite più giù non crepita né scroscia[3]…
non piove sulla signorina Felicita[4]
che tosta il caffè
e diffonde l’aroma intorno
ma arriva san Pietro e gliene fa fare un’altra tazza;
non piove sui cocci di vetro
della cinta a Villa Amarena
portati dalle gazze sulla muraglia monta liana…
***
un bubbolìo lontano
ma infine non piove…
non piove sulla nebbia agli irti colli
che rimane bassa e dozzinale
non piove nei karaoke delle sagre
sui follower sempre svegli
sui risvegli a primavera
del mandorlo e del cervo;
non piove sui delitti non risolti
sull’esercito degli scomparsi
sulla lotta all’eversione
sulla guerra all’evasione
sull’italica corruzione
sulle tangenti del terremoto[5]
che alla fine poi c’è stato
sulla cartella esattoriale
da rottamare nelle sanzioni
sul paese di cuccagna
e il rinfresco magna magna (che fu greppia nazionale)[6];
non piove sul lavoro nero,
sul capolarato,
sui diritti negati,
sul wi-fi globalizzato…
non piove sul rent a car e sugli uteri in affitto
sul drive in e sul drop-out
sulle slot machine e sugli hot dog
sugli hamburger e sui cheese burger
sui crispy chicken e sui big mac
sui polli cresciuti a terra
su quelli tritati con le penne
sulla mucca pazza,
sulla val di Fassa
sugli ogm sulla Val di Fiemme
sulle cellule staminali e sui droni,
sui brend e sui trend,
sui vu cumpra e sulle griffe,
sulle mission e le class action,
sulle stepchild adoptions e le standing ovation,
sui banner pop up e sulle pin-up,
sulle startup e sulle app,
sui bancomat e gli step up,
sul mobbing e sullo stretching;
non piove sul Colosseo dei centurioni,
sul cupolone e il vatileaks,
sul giubileo dei pellegrini
che rende sante
anche le porte dei supermarket;
non piove sulla divisione dei poteri,
sulla sovranità popolare,
sul tramonto del padre,
sulla pasta del capitano
che resiste nello smalto mondano;
non piove sul gluten free e sui talent show,
sui master chef e sui fashion trends,
sui takeaway e gli instant book,
sugli e-book e su facebook,
sulle cover e sul sushi,
sugli snack e sul rap,
sulle chat e su whatsapp
sul fitness e sulla teoria dei gender,
sullo slow food e sui last minute,
sui trainer e sui trolley,
sui vegani e sulla separazione dei beni,
sui kebab e sui niqab,
sui “dipende” e sui “chi più spende meno spende”,
sulle colazioni di lavoro e sulla pappa al pomodoro,
sulla salsa e la baciata,
sugli “è impegnato in riunione” e
sull’eutanasia di fine stagione,
sul multitasking e sullo stalking,
sull’euribor e sul Futse Mib,
sullo spread e sul rating
sul tan sul taeg sul tanga,
sulle borse asiatiche e
su quelle europee,
sui borsoni della spesa
che quotidianamente pesa,
sulla pioggia di rose
di Teresa di Lisieux
(chissà se le ha comprate
dall’ambulante pakistano)…
A questo punto si può certamente dire che il modo di scrivere di Massimo e il modo di proporre la propria poesia denota una certa personalità, e alla domanda cosa ne pensa della poesia di ricerca in contrapposizione alla poesia tradizionale, e se per lui è lecito porre una questione del genere, risponde:
«A mio giudizio anche la poesia sperimentale e di ricerca ha diritto ad un proprio spazio nella produzione di un popolo e di una lingua: io l’ho “incontrata” nel periodo universitario, da studente di filosofia, senza cercarla, sentendomi “attraversato” dal linguaggio che si smontava e rimontava per grafemi e sillabe, lingue e strutture sintattiche, in un magma inconscio che non ho più vissuto nei decenni successivi. Era il periodo in cui stavo uscendo dal bozzolo adolescenziale per diventare adulto, con le prime serie esperienze sentimentali e percorsi di autonomia esistenziale. Ho partorito un lungo poema, complesso, ipertestuale, con una struttura formale inquieta, ma per me affascinante. Ancora in una fase larvale lo feci leggere a Zanzotto che mi scrisse una “Carte postale” di incoraggiamento. Si intitola “Neustria” (nome di una farfalla notturna) ed è ancora inedito. Ogni tipo di poesia per me, da quella formalmente semplice a quella di struttura complessa e sperimentale, da quella di contenuto lirico più tradizionale a quella di contenuto civile, etico, religioso, didattico, da quella di stile tragico alla poesia comica, hanno il loro diritto di esistere: l’importante è che nascano da una necessità esistenziale, non da un virtuosismo tecnico fine a se stesso, che ci sia energia psichica, spontaneità (pur nel perfezionamento del “mestiere”, nella limatura), purezza di ispirazione».
#(non) piove è uscito nel maggio del 2018 edito daLietoColle.
Massimo Parolini (Castelfranco Veneto, 1967) insegna materie letterarie presso le scuole superiori del Trentino.
Laureato in Filosofia all’Università di Venezia Ca’ Foscari, è stato addetto stampa del Centro Universitario Teatrale di Venezia (nato su iniziativa di Giorgio Gaber) per il quale ha scritto e rappresentato le commedie Il medico della peste e Svevo e Joyce.
Ha pubblicato la silloge Non più martire in assenza d’ali (Editoria Universitaria) sul tema della guerra nella ex Jugoslavia, con il quale ha vinto un premio al Concorso Internazionale di Poesia “San Marco – Città di Venezia”.
Nel 2015 ha pubblicato la raccolta La via cava (LietoColle) che ha vinto nel 2016 il primo premio (sezione opera edita) del Concorso di poesia “Nestore” di Savona e nel 2017 il secondo premio (sempre sezione opera edita) del Premio di poesia “Giovanni Pascoli-L’Ora di Barga”.
E’ membro del Comitato organizzatore del Premio di Poesia Città di Trento-Oltre le mura.
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[1]M. Moretti, A Cesena, da Il giardino dei frutti
[2]Gozzano, Le golose, da Poesie sparse
[3]Gozzano, Pioggia d’agosto, da I colloqui
[4]Gozzano, La signorina Felicita, da I colloqui
[5]E. Montale, Piove, da Satura
[6]Montale, ibid.
in apertura opera di Natalia Bondarenko