Su Fabrica e altre poesie di Fabio Franzin, di Massimiliano Damaggio.
“Posso, senza armi, rivoltarmi?”(1) Lo scrive Drummond de Andrade. Io credo nella parola, poetica oppure non, credo fortemente che abbia ragione Ferreira Gullar quando dice:
Ora, io so molto bene che la poesia
non cambia (subito) il mondo(2)
Scrivere significa sempre accendere una luce in qualche stanza buia e/o dimenticata. Chi l’accende ci mostra qualcosa che non avevamo notato, o considerato secondo un diverso punto di vista. Nel caso di Fabio Franzin, la poesia offre molteplici punti di vista, di cui uno a noi del tutto sconosciuto. E mi sorprendo, sempre, e mi emoziono, quando lo leggo. Franzin comprende bene il tormento di questo tempo, sa quanto sia nera la nostra “èra”. Ma il suo è uno sguardo da un’angolazione che molti di noi non possono avere. Per via della lingua in cui ha deciso di esprimersi.
In un paese come l’Italia, dove la profezia di Pasolini non solo si è avverata ma si è spinta oltre, fino alla perdita assoluta d’identità di un’intera nazione, scrivere in una delle lingue della penisola è un fatto, anche questo, di impegno civile. Sono cresciuto in un periodo, gli anni ’80, in cui dialetto significava vergogna. Senza capire che si stava distruggendo la radice intima dei nostri vari caratteri. Una delle nostre identità. Una volta uniformati i gusti e le abitudini delle persone, eliminando tutto ciò che di locale esistesse, sarebbe toccato anche alle nostre lingue. La televisione ha insegnato l’italiano agli italiani, si ripete. No. Li ha uniformemente appiattiti in una pseudo cultura d’importazione, spedendo alla discarica le differenze e le peculiarità, così caratteristiche di questa terra. La televisione ha semmai contribuito alla distruzione psichica e culturale degli italiani. Con sorpresa, molte lingue si sono salvate. Sono scomparse altre cose: usi e tradizioni locali, musiche e canti popolari, differenze architettoniche. Che Franzin scriva nella sua lingua, appunto, questo già significa resistenza e “rivoltarsi senza armi”. Una volta sorpassato il bivio “dialetto/folclore” e “dialetto/identità”, è un’intera categoria di persone che Franzin rappresenta. A mio modo di vedere, non soltanto i veneti che parlano l’opitergino-mottense, ma tutte le nostre minoranze linguistiche e il loro mondo, e quello che della propria storia sono riusciti a conservare: come i sardi, per esempio. Perché, ovviamente, Franzin al bivio ha scelto “dialetto/cultura”.
Nella lingua viva delle gente e del luogo cui appartiene, e con cui condivide un’identità, per quanto labile e in via d’estinzione, con cui ha vissuto lo sradicamento culturale e la distruzione sistematica di una minoranza in cambio di un centro commerciale, Franzin rappresenta anche tutte le minoranze etniche, del paese e del mondo: che, oggi, non sono altro che tutto ciò che ancora non è stato desertificato dalla occidentalizzazione, anche detta globalizzazione. E’ un megafono. Dà voce, ad esempio, anche alla mia voce: di un quasi milanese senza riferimenti culturali propri, senza lingua intima, sradicato e poi fuggito dal non luogo in cui è cresciuto, in cerca di un’identità qualsiasi pur di averne una. Dovevano passare troppi anni perché la lingua topica, cioè del luogo, che non voglio chiamare dialetto perché in molti casi non è una variazione dell’italiano ma si è sviluppata parallelamente all’italiano, fosse anzitutto sdoganata dal folclorico e si autosdoganasse dal particolarismo. Per essere molto chiari: parlare e scrivere una lingua topica non significa limitarsi al proprio mondo. Franzin è uno di quelli che ha sdoganato la sua propria lingua e l’ha resa legame fra un luogo delimitato, in un territorio circoscritto, e il resto del territorio: il pianeta. Franzin si rivolta, si rivolta con forza, è duro, come uno degli ultimi parlanti una lingua. I linguisti hanno ragione: quando scompare una lingua, scompare un mondo. Franzin non si vuole estinguere. E’ forse l’ultimo uomo prima dell’estinzione. Quando c’è un corpo intruso, nella poesia di Franzin compare l’italiano:
“Cossa seo drio far voaltri, siòr, qua tea
mé campagna?”, “misurazioni, rilievi”
ghe dise ‘st ‘altro, bel tranquìo(3)
anche se l’intruso è “di casa”: viene per conto della Regione. Però parla un’altra lingua, la lingua franca, l’italiano che, per la triste storia del nostro paese, è paragonabile all’inglese di oggi, lingua franca del mondo. No, non è l’antinomia banale, folclorica, nostalgica e un po’ didascalica campagna/città, ma quella di un’identità che viene sostituita da un’altra identità, che però è vuota. Misurano per costruire un centro commerciale. La sostituzione sistematica di una cultura con un’altra, per Franzin coincide con quella della realtà locale, così come per le ex colonie francesi e inglesi è consistita nel dover tentare di mutare la propria psicologia per occidentalizzarsi, per essere meglio degli ex colonialisti. Scompare, se scomparsa non è già da tempo, la civiltà contadina, che per Franzin non è un paradiso bucolico ma che percepisce come un insieme di valori, cultura e identità. Bello o brutto che sia, è preferibile avere un carattere proprio, piuttosto che altrui:
E sparìa canpi covèrti dai capanòni,
sparìa a miseria e scoréa ‘i schèi
insieme aa smerdèra, ai gipòni(4)
Tutto ciò non è una novità. Altri hanno raccontato le stesse cose, uno su tutti Pasolini, ma lui l’ha fatto perlopiù in un’altra lingua, quella franca, l’italiano e quindi, solo per questo, già in una posizione di osservatore sradicato. Franzin lo fa “da dentro”. E’ come un indiano d’America che ci testimonia l’agonia del proprio popolo che deve essere civilizzato.
Il progetto di “civilizzazione” nato fuori delle radici territoriali è quello della modernità. E’ universalista; i suoi valori sono la scienza, la tecnica, il progresso: distrugge le culture e porta il benessere, eliminando l’isolamento territoriale e sostituendo le leggi del mercato ai rapporti sociali tradizionali. Così la visione ristretta della vita culturale va in frantumi, mentre la concorrenza sfrenata e la ricerca della performance comportano un’accumulazione materiale senza precedenti, stimolata dal progresso della scienza e delle tecniche.
Ma la cultura è sempre un’ “agri-cultura”. Mentre le altre grandi civiltà della storia sono state piuttosto degli insiemi complessi di culture giustapposte, articolate, ovvero incorporate in seno a un impero, l’Occidente si afferma come la sola civiltà “anticulturale”.(5)
Quasi in questo senso, il libro si apre con Tèra e destìn (Terra e destino), dove Franzin bambino ha raccolto dai campi, dalla gente, un’eredità di parole e storie di un mondo “ora buono ora crudele / di arcadie e fatica”. Che l’abbia scelto o gli sia capitato, è egli stesso a diventare il rappresentante di un mondo in decomposizione, che vuole testimoniare e che può far risorgere, a momenti, con le parole e le storie che
…lù, sguelto,
ghi n’à brincà ‘na sbrancàdha, al sòeo.
Le tien ‘sconte drento ‘na scasséa
dee braghe: òni tant le palpa…(6)
Dal fondo dei campi invasi dai capannoni, dove le stalle ospitano le Mercedes al posto dei trattori, emergono in continuazione le ombre degli uomini passati, quelli che parlavano la stessa lingua. Fra la nebbia, compare una campagna che era come un mare, tanto piatta e vasta è. Tutte cose che non esistono più. Le poesie parlano di un rimpianto senza pianto, asciutto, di un estraniato che fa la conta di tutto quello che ha perduto. Franzin è un emigrante in terra propria. O un sopravvissuto cui rimangono le parole
che i me ‘e ‘à metùdhe in man lori
‘ste paròe, i me ‘e ‘à consegnàdhe.
Spere de ‘vérghine fat un bon uso,
spere, soratut, de no’ verli mai déusi.(7)
Rievoca delle ombre, continua il percorso narrando delle storie. In ‘A secatrice (La cicatrice) dove un padre porta sul corpo una cicatrice, testimone della guerra, simbolo essa stessa del mondo scomparso. A modo suo, nell’intimità delicata del ricordo dell’uomo e dei suoi racconti, una piccola epica quotidiana. Di grande resistenza è il personaggio di Ernesto Girotto in Ciamàrse fora(Chiamarsi fuori), un uomo vissuto per oltre quarant’anni in un podere abbandonato privo di acqua e di elettricità a San Cipriano di Roncade (TV), rifiutando qualsiasi contatto col mondo esterno, cibandosi solo di ciò che produceva il suo pezzetto di terra, senza allevare animali e senza acquistare nulla, ed è morto di stenti nel 2003, a 73 anni, inginocchiato al suo pagliericcio:(8)
…Ciamàrse
fòra seràndose te un tochét de tèra,
servo e paròn sol dea piova che bate
tii copi, che smòja zhope e pensieri,
solo del sol che conzha ‘e semenzhe,
che pitura el but, ‘a fòija che cresse.(9)
Il rifiuto totale a difesa della propria identità, contro lo sradicamento dal proprio suolo. Non a caso, a sottolinearlo, Franzin fa entrare in gioco Reithia, detta anche “Gran madre terra”, fu la dea venerata dai Paleoveneti.(10) Storia di resistenza di un popolo che, nella sua universalità, è storia di resistenza degli uomini:
insieme a Reithia cuzhàdhi
de qua dee canèe tea sponda
stonfa de un stagno…(11)
Da chiamato fuori a Trà drento (Tirato dentro), dove Luigi si vede espropriare la terra per la costruzione di un centro commerciale. Dove si conclude questa terra desolata e devastata, dove molto, se non tutto, è un ricordo, ma dove resiste una lingua.
Ciò che più trovo importante, direi essenziale in Fabio Franzin, oltre al fatto che utilizzi la propria lingua, è di saper combinare la durezza, per resistere, con la dolcezza, per esistere. E’ la grande umanità dei suoi uomini, che sono davvero carne e ossa, che sono reali, mai trasfigurati. Come reale, con i piedi piantati per terra è la sua poesia. C’è molto bisogno di poesia come la sua, oggi. Non a caso, credo, seguono poi le riproposte di Fabrica (Fabbrica) e Co’ e man monche (Con le mani mozzate). Cioè: dall’uomo in estinzione all’uomo estinto. Non scriverò nulla su questi due esempi pressoché perfetti di poesia, altri lo hanno fatto meglio di quanto potrei fare io. Sottolineo solo la profondissima umanità di un uomo che, per caso oppure no, è anche un poeta. E l’importanza della sua, per quanto a tratti complessa, vita comune. Se Franzin non facesse l’operaio, probabilmente non scriverebbe di questi argomenti, o magari non in questo modo. Non sarebbe una voce fondamentale, forse. Forse non gli sarebbero così necessarie, indispensabili le
…mé paròe anca par mì, incùo, par mì
che no’ so pì a còss’ che ‘e pòsse servìr,
ma continue, testardo o mona, a créder
che ‘na poesia indrezhe ‘e robe storte,
che ‘na jozha de béezha guarisse òni mal.(12)
Sì, puoi, senza armi, rivoltarti.
__________________________
Note
(1) Carlod Drummond de Andrade, Il fiore e la nausea, 1945
(2) Ferreira Gullar, Boato, 1980
(3) Trà drento, I, pag. 75
(4) Ciamàrse fora, II, pag. 63
(5) Serge Latouche, La fine del sogno occidentale, Elèuthera, 2002.
(6) “Lui, svelto / ne ha afferrate una manciata, al volo. / Le tiene nascoste dentro la tasca / dei pantaloni: ogni tanto le palpa.”,Tèra e destìn, pag. 33
(7) “Che me le hanno messe in mano loro / queste parole, me le hanno affidate. / Spero di averne fatto un buon uso, / spero, soprattutto, di non averli mai delusi.”, Tèra e destìn, pag. 47
(8) Fabio Franzin, note, pag. 216
(9) “Chiamarsi / fuori, chiudendosi in un recinto di terra, / servo e padrone solo della pioggia che batte / sui coppi, che inzuppa zolle e pensieri, / solo del sole che alimenta I semi, / che tinge il germoglio, la foglia che cresce.”, Ciamàrse fora, pag.63
(10) Fabio Franzin, note, pag. 216
(11) “Accucciato insieme a Reithia / dietro un canneto sulla sponda / umida di uno stagno.”, Ciamàrse fora, pag. 70
(12) “Le mie parole anche per me, per me / che non so più neppure a cosa possano servire, / ma continuo, cocciuto o coglione, a credere / che una poesia raddrizzi le cose storte, / che una goccia di bellezza guarisca ogni male.”, Altre roe,’E mé paròe, incùo, pag. 194
__________________________
Fabio Franzin
Fabrica e altre poesie, Giuliano Ladolfi Editore, Borgomanero (NO), 2013