Ectopie minime, intervista a Gilberto Isella a cura di Rosa Pierno con una selezione di poesie.
Gilberto Isella, nato nel 1943, ha studiato lettere e filosofia all’Università di Ginevra. È coredattore della rivista Bloc notes. Attivo come saggista, con numerosi studi dedicati ad autori del passato e contemporanei. Collabora alle pagine culturali del Giornale del Popolo e del Corriere del Ticino. Traduce dal francese (Dupin, Ch.Racine, Vargaftig, Demangeot). Ha pubblicato: Le vigilie incustodite, Bellinzona, Casagrande, 1989 (Premio Schiller); Leonessa, Lugano, Laghi di Plitvice, 1992; Discordo prosa e poesie, Locarno, Dadò 1993 (Premio Schiller); Apoteca, Torino, L’Angolo Manzoni Editrice 1996 (Premio Sertoli Salis); Baltica, prose, Balerna, Edizioni Ulivo, 1999; I boschi intorno a Sils-Maria, Sondrio, Officina del libro, 2000; Krebs, Balerna, Edizioni Ulivo, 2000; Nominare il caos, Locarno, Dadò, 2001; Dado a punte, Milano, Upiglio, 2003; Guernica e lo straniero, prosa critica, Balerna, Edizioni Ulivo, 2004; In bocca al vento, Falloppio, LietoColle 2005; Fondamento dell’arco in cielo, Viganello, alla chiara fonte, 2005; Corridoio polare, Bologna, Book Editore, 2006 (Premio Lorenzo Montano, Premio Schiller); Wild Contact, Lugano, Anaedizioni, 2007; Taglio di mondo; Lecce, Manni, 2007; Messer Bianco vuole partire, azione scenica, Viganello, alla chiara fonte, 2008; Inneschi, Bollate (Milano), Signum edizioni d’arte, 2009; Mappe in controluce, Bologna, Book Editore, 2011 (Premio Giuseppe Dessì 2012); Variabili spessori, Viganello, alla chiara fonte, 2011; Censuralbe, Milano, Il robot adorabile, 2012; Preludio e corrente per Antoni, Bellinzona, Salvioni Edizioni, 2012; Caro aberrante fiore, Lugano, Edizioni Opera Nuova, 2013; Mobilune, Bellinzona, Salvioni Edizioni, 2015; Liturgia minore, Falloppio, Lietocolle, 2015.
La tua attività di traduttore dal francese è cospicua. Gli ultimi poeti che hai tradotto sono Demangeot e Vargaftig. Come agiscono le tue preferenze poetiche quando traduci? Quanto la tua voce personale incide nella traduzione?
Riflettere sul tradurre (l’ha fatto benissimo, tra gli altri, Walter Benjamin) è veramente un osso duro. La faccenda è complessa, e l’abusato aut aut ‘brutte fedeli/ belle infedeli’ di certo non la riassume. Poiché essa coinvolge prima di tutto il dialogo a distanza che si stabilisce tra due soggetti e due scritture. Il desiderio di restituire in altra lingua un testo (con i relativi acquisti e perdite, vista l’ontologica impossibiltà di rese perfette) nasce da un atto d’amore e deve fare i conti con un principio ermeneutico inderogabile. Cioè col fatto che tradurre equivale a interpretare. Anche il ‘non detto’ dell’opera, anche ciò che resiste alla specularità. Ho sempre messo in primo piano poeti di cui condivido le concezioni estetiche e in sintonia con il mio immaginario. In volume sono usciti raccolte di Charles Racine (un inconnu segnalatomi da Bigongiari) e Jacques Dupin, imponente figura di scuola chariana. Uscirà presto un’antologia poetica di Bernard Vargaftig, nome significativo ignorato in Italia. La poetica dello sguardo, il gusto della sovversione linguistica e un lavoro decostruttivo riguardo all’io, tratti comuni a questi autori, hanno facilitato il mio compito. Più che la voce personale, tenuta spesso al guinzaglio, è il proprium della lingua italiana (nella sua peculiarità fonica, ritmica, metrica, ecc.) in quanto langue precostituta e trascendente il soggetto, a incidere in ogni atto traduttivo. E qui si presentano fatalmente dolorose scelte: occorre pur sempre sacrificare qualcosa del significante o del significato, visto che è impossibile operare sotto il paradigma della totalità. Brillanti simulacri le mie versioni? Non tocca a me dirlo.
I tuoi temi preferiti hanno sempre maggior attinenza con immagini figurative e artistiche. Come tratti l’immagine artistica rispetto a quella reale? Che cosa comporta lavorare con esse?
“Noi non sappiamo cosa sia il reale e cosa no./ Diciamo che sulla luna vaga il fantasma dell’uomo”, scrive Wallace Stevens. Considero da parte mia il reale come un pianeta oscuro, immerso in una solitudine transfisica infinita. E nello stesso tempo lo intravedo ammantato di aloni e atmosfere da cui provengono messaggi spettrali. Come ricodificarli? Ovviamente attraverso la parola, pur con la certezza di dover operare anche nel non-sapere della parola, nella parola come istanza di un non-sapere. È a questo punto che mi viene in soccorso la vista, e con la vista l’immagine. Direi meglio il ‘pensiero’ dell’immagine, quello ad esempio che riesco a intuire nella folgore di Giorgione o in un tramonto infocato di Turner. È, per farla breve, il richiamo a quell’iconicità ‘precategoriale’ che, percepibile in se stessa nell’opera pittorica, riappare nella scrittura grazie a complicate trans-figurazioni di ordine per lo più allegorico. La figura artistica sta lì per esorcizzare il buco nero del reale (o il bianco della tela) malgrado sia da tali ‘ostacoli’ paradossalmente attratta. Meditando un giorno su una natura morta di Chardin, e desideroso di riprodurne un elemento per me enigmatico, quasi d’istinto mi uscì questo verso: “Abbia ogni pane almeno/ la sua meravigliosa curva” (Apoteca, 1996). Lascio al lettore la libertà di immaginare le virtuali connotazioni di una curva di pane. E mi fermo qui. Se aggiungessi altro rischierei di cadere nelle trappole di certa semiotica ‘positiva‘ o, in generale, del discorso accademico.
La tua prosa, di assoluta qualità e originalità, nella tua produzione, pure, non è molto frequente. Che cosa ti consente la prosa e che cosa la poesia?
Mi consente soprattutto di navigare nell’universo delle intersezioni e dell’eterogeneità, dove trovo per così dire la mia cifra: una dimensione condivisa del resto con l’epoca alla quale appartengo. Ma la questione di fondo, per dirla in breve, è la seguente. Indeboliti i codici e le convenzioni metriche che avevano retto per secoli in occidente, oggi la dicotomia poesia/ prosa ha perso vigore. Il confluire d’entrambe nel registro superiore dell’écriture (secondo le concomitanti teorizzazioni di Blanchot e Barthes) è una tendenza incoercibile. Quanto alla mia esperienza, prevalgono è vero le spinte verso la sintesi e il taglio verticale, ossia verso il versificare tradizionale che si presume in rapporto con una sonorità iterata e ossessiva, o con un’illuminazione primaria. Eppure in quasi ogni raccolta si incontrano commistioni di prosa e poesia, prosimetri a monte dei quali c’è l’intenzione più o meno manifesta di chiosare, contaminare o ancora narrativizzare determinati nuclei tematici. Ciò capita in particolare quando tratto figure umane, quando le voci e i punti di vista si moltiplicano o diversificano nel tono e nel ritmo, a tal punto da rendere complessa la focalizzazione. Nel libro Corridoio polare (2006), ad esempio, si stabilisce progressivamente uno iato tra la voce del protagonista – ritenuto folle dalla comunità – e quelle dei personaggi che lo circondano, esponenti dei valori della tribù. C’è poi un terzo personaggio, mascherato dall’io narrante, che incarna la voce dell’Altro e che da un ‘piano superiore’, affidandosi allo stile sublime, riflette sulla vicenda in corso. Mi sembrava giusto separare in modo netto i diversi fenomeni enunciativi. Dovevo per prima cosa circoscrivere il protagonista in un dominio tutto suo, ben marcato dal profilo espressivo: l’hortus conclusus della prosa ‘delirante’, il monologo informe e senza confini. Perché l’irruzione del caos nel registro della parola, in quanto sfondamento di un ordine, poco si addice ai registri rarefatti della poesia.
La tua passione per le arti ti vede recentemente impegnato nella stesura di un testo per un’opera musicale. Parlacene.
L’eterogeo assunto come presupposto filosofico – in altre parole l’impegno in favore del non identico a sé – ha stimolato il mio interesse per l’esperienza scenica, e in generale multimediale. Ho trasformato Corridoio polare in una una pièce teatrale (Messer Bianco vuole partire, 2008), dando volto e respiro a quelli che in precedenza erano solo soggetti sottintesi. Il risultato? Dialoghi in una prosa vicina al parlato, qualche frammento poetico ridotto a circospetta parafrasi. Ne è uscita una sorta di animata glossa concernente i passi più problematici della raccolta. Attualmente sono alle prese con Il giardino della vita, azione scenica che chiama in campo parole, suoni e immagini, il tutto inserito nella scenografia straniante ma perfettamente funzionale del Teatro d’Ombre di Alberto Jona. Il nodo più grosso da sciogliere è stato quello di adattare il testo di partenza, Preludio e corrente per Antoni (un prosimetro dedicato al grande architetto Gaudì) a precise esigenze spaziotemporali, da me ritenute in un primo tempo inconciliabili con l’introspezione dominante nel libro. Che assetto dare, ad esempio, all’elemento architettonico – potenziale fonte di ekphrasis monumentale – nella scena in cui l’anziano creatore, con presagi di morte, contempla per l’ultima volta la sua incompiuta Sagrada Familia? Come conferire tridimensionalità (dico per semplificare) a un introverso mormorio? Il linguaggio metaforico dell’ombra mi dovrebbe trarre d’impiccio, poiché tende oscurate e sagome appena intraviste sono formidabili segnali di transfert se si vuole conseguire una ‘architettura dello spirito’.
Quali sono le tue direzioni di ricerca, quali proiezioni sul tendone del futuro?
Un po’ presto per dirlo. Avendo accumulato molte pagine in questi ultimi anni, faccio del mio meglio per scongiurare la bulimia scrittoria. E tuttavia le idee camminano. In elaborazione c’è un libro di poesie (Arepo forse il titolo) interamente o quasi dedicato all’arte e al rapporto parola-immagine. Niente di veramente nuovo, anche se questa volta la mia scrittura investe per vie dirette l’atelier dell’artista. Nel senso che essa s’inscrive in uno spaziotempo storicizzato, cercando empatie e/o punti di resistenza con opere significative di un mondo artistico già da tempo assuefatto allo sguardo. L’arte, insomma, intesa come scena altra e domestica. L’immagine ‘scatenante’ è lì, e con lei istituisco un rapporto d’affetto, aprendo nello stesso tempo un conflitto. Senza cadere nella logica rovinosa della mimesi, mi sforzo di istituire isotopie espressive parallele – anche se in reciproca barocca torsione – dove conto sull’avventura della rifrazione reciproca e sugli effetti chiastici in senso lato. E con siffatto procedere, tutt’altro che conciliatorio, sollevo nuovi quesiti. Tra gli artisti interessati voglio citare il vivente Enrico Della Torre, a cui dedico la sezione Ectopìe, e due geniali esponenti dello spiritus melancholicus, sottratti ormai alle contingenze storiche: Magnasco e Piranesi. Artisti che hanno molti punti in comune: entrambi interpellano la notte, le rovine, le catastrofi dello spazio e del tempo. Fino a destabilizzare i codici delle geometrie e delle prospettive classiche, a vantaggio dell’anamorfosi, fino a offrirci quella vetrina di monstra in cui il reale si espone e occulta.
Quali ritieni siano i momenti che hanno costituito una boa, segnato un obiettivo nella tua copiosissima produzione poetica e perché?
Negli anni giovanili ho scritto molto, pubblicato pochissimo. Carta straccia neoavanguardistica, di cui avrò salvato una decina di pagine per puro masochismo. Il mio autentico punto di svolta è avvenuto tra questa fase preliminare inedita e il primo libro pubblicato nel 1989: Le vigilie incustodite. Partivo da un’ipotesi cosmologica di questo tipo: viviamo affacciati su un baratro che ha parvenze di cielo, un’immane “fossa genealogica” (così la chiamavo), dove confusi eventi storici vanno alla deriva come entità cieche e questuanti. Esprimevo, un po’ cripticamente, la diffidenza verso la storia e il rifiuto del realismo. In seguito, a furia di ‘diminuzioni’, ho attutito il peso di cornici troppo ideologiche, influenzate dal pensiero gnostico che in quel periodo coltivavo. Intendevo anche sbarazzarmi dei residui di simbolismo junghiano (o esoterico, non so definirlo) che ancora inficiavano la mia scrittura. Niente più orfismi, anche se elevati al secondo grado. Di raccolta in raccolta, l’impianto concettuale ed espressivo si è decantato, con ricadute importanti sullo stile. Alla costruzione ‘a pannelli’ dei testi, al gusto per i collegamenti interni aleatori (come in certe partiture musicali d’epoca) si è sostituita una dizione più regolare soprattutto dal profilo sintattico.Una discreta quanto produttiva svolta verso l’orizzontalità, in direzione della prosa dunque, e nell’insieme verso una sorta di pragmatismo a valenza artigianale. Il testo come lavoro da certosino, come scavo dentro l’enigma del linguaggio.
In che cosa ritieni possa risiedere la singolarità della tua voce poetica?
Anni fa mi arrabattavo per trovare formule in cui rinchiudere tale singolarità. Scrivevo ad esempio che “dell’esistente, mi interessa esplorare le ombre, il rovescio o l’archetipo che appena s’intravede”. Considerazioni che, in realtà, potevano valere per migliaia di altri scrittori tardomoderni. La mia poetica, sempre in divenire e disseminata nei testi, trova forse un baricentro in questa massima di Valéry: “Una poesia dev’essere una festa dell’Intelletto”. Anch’io ritengo che nell’atto poetico, a prescindere dall’inevitabile gioco illusionistico delle passioni e delle emozioni, per non parlare del fascino esercitato dal magma e dal caos (il che mi riguarda), debba profilarsi l’elemento pensante, l’ignis intellettivo aperto all’inchiesta sull’Essere. Non dimentico le grandi lezioni dei presocratici, di Dante, Leopardi e Char. Nel linguaggio poetico logos e immaginario formano un tutt’uno, istanza che per diversi motivi non si è mai riusciti a denominare in modo soddisfacente. Non vorrei essere frainteso: sto alludendo a quello specifico logos ‘sopravvissuto’ all’illuminismo, segnato dalla crisi del senso e dei fondamenti, dunque in progressiva decostruzione. E che nondimeno, per scongiurare il nichilismo, potrebbe trovare qualche riscatto negli elaborati linguaggi della scienza postclassica (non certo nel sociologismo imperversante e perverso, mi si scusi il gioco di parole, tuttora in auge nella cultura occidentale). È probabile che alcuni miei versi recenti celino un abbozzo di poetica intima: “Annodava la voce/ a prede d’echi terminali/ grumi stellari per l’alta fornace/ tizzoni d’angustia/ per la vetrina dei visceri” (L’occhio piegato, 2015). Echi terminali dell’ordine cosmico, sospinti dai venti delle derive, contraddittoriamente orientati verso l’’alto’ dell’Idea e verso il ‘basso’ delle pulsioni. A questo riguardo, Baudelaire aveva già visto tutto.
*
Ectopie minime
Mai si raggruma limo su chiodi d’assito
né in pance d’alambicchi ombra è tenuta
Latente forma non aggancia solitudini
ma è baco nano che in ogni varco ha stanza
Spesso con ali non ancora nelle vene
saturnie già trapassano carne loquace
Dove palpito e siero, un grembo
scaglia i margini lontano
*
La forma offre grazie irsute alla materia
ma questa la respinge, già paga di opercoli,
già invasa da mostri
Così per uno spleen senza confini
il magma trascina i suoi resti di feltro
in memoria delle spine
Scende stampiglio riderello
sul francobollo di un fluire incredulo
*
L’occhio si dibatte nelle immagini
del suo durare aligero, bizzarro
Pennello o stupefatta spatola
non placa il giallo impaziente
che mulina tra le spighe
Poi declinando a una casa di quarzo
transcolora in focolare diafano
che da tettoia un riflettore orienta
verso il fumo di lastre sospese
su poche braci pallide
*
Appendi strofinacci al teatrino
ripuliscilo con muco di sirena
Aggiungivi un emblema, la farfalla
trafitta a una quinta
Scruta il girasole nel loggione
e qualche amore di libere frasche
Sii infine manovella girante
sulla scena che scoscende
*
Gingilli cappucci, risveglio di nuvola materna,
massa increspata che spinge, sogguarda
Nessun mezzo per prenderla al laccio
se mano di Efesto cronio
forgia i suoi parti su rupe di fuoco
e ogni foglia è fiamma
ogni fiamma finestra
*
Occhiaie di rane a comporre una maschera
sopra lo stagno più elusivo del pianeta
Saprà sostituirsi a trastulli d’acque
con le invidiose ninfee?
Chissà: meglio perisca quel sito
e il nominare che illude
ne trascriva i giunchi
*
Revocando da pendio inspiegabile
sogno d’infanzia puntellato
al muro perfetto dell’aniconicità
Da cui spoglia di stemma o abraso
capolettera, per estremo flambaggio
figure nere in lanterna desume
e scalette dai precordi per sboccare
Verso la cornice sterminata delle urne
*
L’acino più servo
sotto la pergola contrito
Non offriremo pane e vino stasera
studieremo invece come varia una brocca
i suoi umori, la vicenda che la inclina
sopra il sonno dipinto del bicchiere
Visiteremo intervalli fra i racemi
dove il filamento ricco di un viticcio
traina memoria,
commestibile
antenna
Eco per eco:
il coleottero che si avvita
a tela fiamminga
già ne contempla misura e gusto
*
(disegnando amore con Möbius)
Scorrono matite sul nastro, due amanti
intenti a disegnare, ciascuno per lato,
un albero lungo e filiforme. Duplicità
al momento, corpo unitario al finire.
Sostiene Möbius che tra idea e materia
ogni confine può sparire d’incanto,
segni d’inganno topologia sostituisce
*
Sfugge però agli innamorati il cunicolo
che per virtù di torsione conduce
a salvifica sutura. Vedono, priva ormai
d’alberi e righe, la carta fondersi col vento,
volar via attratta da magnete insolito,
bianco e lontano. Poi improvvisa
aprirsi negli occhi una tabula rasa
che s’assottiglia in ago e fora l’orizzonte,
ed ecco il fulmine, frondosa antenna
o angelo, annuncio di paradiso:
alberoamore, mano nell’albero, amoremano
*
Carta da sogno? Forse è la vita stessa
a far convergere i suoi innati binari
verso il miracolo dell’uno, quando la landa
dei sensi giunge al punto di fuga più vivace
e geometria tutta si appanna. Tocca Eros
quel punto, lo smuove e muta in sfera, intero
lo abbandona a scorrimento senza posa,
onda su onda, fiamma su fiamma
*